Clash: combat-rock contro l'integralismo

Della serie: storia della musica. Il nuovo brano affidato da X Factor ai Bastard sons of Dioniso è Rock the Kasbah dei Clash.

1982. Esce Combat rock, di fatto l'ultimo vero album dei Clash, la band "storica" del punk inglese assieme ai Sex Pistols, ai Buzzcocks, ai Damned e a pochi altri (il successivo Cut the Crap, sarà di fatto un lavoro del solo Joe Strummer e non lascerà traccia nel cuore dei fan). Nonostante siano nella fase finale della loro carriera, i Clash realizzano un disco di grandissimo impatto, che alterna pezzi per così dire "commerciali" - ma sempre di qualità - come Should i stay o should i go e, appunto, ROCK THE KASBAH, ad altri più difficili come Straight to hell o la bellissima Ghetto defendant, con la voce salmodiante di Allen Ginsberg (il poeta della beat generation salirà sul palco assieme alla band nei concerti di New York). Rock the Kasbah (la cui paternità spetta soprattutto al batterista Topper Headon) è ispirata alla censura della musica rock imposta all'epoca dall’ayatollah Khomeini in Iran, anche se il testo non menziona un paese specifico e mescola termini arabi, ebrei, hindi e nordafricani come sharif, bedouin, sheikh, kosher, raga, muezzin e casbah. In pratica, una canzone contro l'integralismo, per dirla con il linguaggio di oggi. Nel video un rabbino e uno sceicco che se ne vanno a zonzo per il deserto tracannando wishky, per approdare infine ad un concerto, ovviamente dei Clash. Alcol e anarchia nelle terre sante, meticciati musicali, fratellanza cementata dal ritmo, dal ballo, dal sudore. Paul Simonon è in uniforme, Mick Jones ha la maschera antigas; dietro i pozzi petroliferi pompano il maledetto oro nero, mentre jets militari sfrecciano sopra le teste e un armadillo è sempre tra i piedi.

Su ordine del profeta abbiamo bandito questa musica boogie
che faceva degenerare il fedele (...)
Il re ha richiamato i suoi piloti
ha detto loro di guadagnarsi lo stipendio
e sganciare le bombe in mezzo ai minareti giù sulla Kasbah.
Non appena lo sceriffo* è stato portato laggiù i piloti del jet

hanno sintonizzato la radio dell’abitacolo,
che ha cominciato a suonare,
i piloti del jet si sono messi a cantare (...)

Allo sceriffo* non piace il rock della Kasbah, il rock della Kasbah...

(* per i musulmani è il discendente di Maometto, ed è anche sinonimo di "nobile")

Viene considerato un pezzo leggero, rispetto ad altre cose dei Clash (si tenga presente che il loro album precedente era intitolato Sandinista, mi spiego?) un pezzo fatto per ballare, ma onestamente: chi non vorrebbe che il rock avesse questo potere? Chi non vorrebbe che una canzone avesse fermato la mano dei dirottatori dell'11 settembre o i piloti che hanno sganciato il fosforo bianco su Gaza? Chi non vorrebbe che fosse proprio una canzone così a seppellire per sempre i lefebvriani? Chi non vorrebbe ballare il rock della Kasbah?
Rachid Taha ne ha incisa una versione in arabo.

Space Oddity

(della serie: un po' di storia della musica - successe 40 anni fa)

Era il 1969. L'Apollo 11 raggiungeva la Luna, Neil Armstrong, staccandosi dalla scaletta, compiva il suo piccolo balzo per un uomo, balzo enorme per l'umanità. Nessun parallelepipedo in vista, per ora; del resto, la data del contatto profetizzato da Kubrick nel suo "2001 odissea nello spazio" è ancora lontana.

In quell'anno David Bowie pubblicò il suo secondo Lp, Space Oddity. Un disco acerbo, che conteneva tuttavia il primo dei suoi celebri personaggi "spaziali", Major Tom, il maggiore Tom al quale la torre di controllo lancia messaggi ansiogeni, "prendi le tue pillole di proteine e mettiti il casco..."
Ma questi non sono gli anni '40 e nemmeno i '50; è l'ultimo scorcio del decennio psichedelico, il decennio della protesta, del sogno e della disillusione. Il maggiore Tom esce dalla navicella, inizia a galleggiare nell'abisso siderale. Il pianeta terra è l'arancia blu e "non c'è niente che io possa fare."
Come un sommozzatore stregato dagli abissi marini, come un fumatore d'oppio che contempla il mondo dal suo lettino, l'astronauta si sente molto tranquillo, pensa che la sua astronave sappia dove andare. Un ultimo messaggio alla torre di controllo: "Dite a mia moglie che l'amo. Lei lo sa."
Poi la comunicazione si interrompe. Non resta che ascoltare l'appello insistente della torre di controllo: "Puoi sentirmi, Major Tom? Puoi sentirmi, Major Tom?".

In viaggio era iniziato. Oltre lo spazio conosciuto si aprivano nuove dimensioni, nuovo modi di essere, di vestire, di truccarsi, di cantare, di amare. Presto per Bowie sarebbe arrivata la stagione del glam rock, e avrebbe preso forma il personaggio-chiave della prima parte della sua carriera, Ziggy Stardust (e il suo doppio, Lady Stardust), mentre la tv avrebbe annunciato che il pianeta terra che aveva soltanto altri 5 anni davanti, e tutti, tutti si sarebbero sentiti stranamente eccitati.
Perchè, come nella Like a Rolling Stone di Bob Dylan, se avresti chiesto alla ragazza senza casa, alla completa sconosciuta che rotola lungo il percorso della sua vita "come ti senti?", lei avrebbe risposto "beeeeene", sì, quella caduta in fondo era bella, era meglio delle mille Cadillacs del sogno americano stigmatizzate qualche anno prima dai Velvet Underground (in Rock 'n' Roll), di certo meglio delle sale Bingo e della guerra del Vietnam, delle crisi dei petroli e dell'ovvietà espressiva dell'establishment.
Una gioiosa caduta, quindi. Un gioioso precipitare nello spazio, fuori dalle regole, fuori dalle convenzioni, fuori dal controllo della torre di controllo.

Bowie tornò al suo primo personaggio, il maggiore Tom, nel 1980, con una canzone, Ashes to ashes, contenuta nel suo album Scary Monsters.
Gli anni '70 sono finiti. L'esplorazione dello spazio non ha svelato nuovi orizzonti e nuove forme di vita. Anche la rivoluzione pop si è fermata. L'onda comincia pian piano a ritirarsi. I nuovi leaders politici sono Reagan, la Tatcher, e poi, se si ha pazienza di aspettare, arriverà pure il Grande Fratello (anche se non quello orwelliano). Cenere alla cenere, polvere alla polvere. Bowie si fa ritrarre per l'ultima volta in copertina con un travestimento. Il personaggio stavolta è un pagliaccio. Nel video, una donna gli cammina al fianco. E' sua madre, gli ripete: "Meglio che non perdi tempo con il maggiore Tom". Forse Bowie intuisce che più in là non si può andare. Il disco è splendido, amaro, rabbioso, dolente. Spira un vento gelido. L'inverno 1980 fu un inverno lunghissimo.

"Cenere alla cenere, funk al funky, sappiamo che il maggiore Tom è un tossico. Confinato nell'alto dei cieli, raggiunge una depressione senza fine..."

E adesso che abbiamo scoperto che il Major Tom è solo un drogato e che il punto più alto dei cieli coincide con quello più basso, con la depressione più profonda, cosa rimane da fare?
Bowie rovesciò il tavolo, con tutte le carte sopra. Il prossimo lavoro si sarebbe intitolato, semplicemente: Let's dance.

E se fra questi ci fosse il nuovo Obama?

Foto: arrivo di clandestini nel mare di Lampedusa

Libertà


Invocavano "libertà", i clandestini che ieri si sono uniti ai lampedusani per protestare contro la costruzione di un nuovo centro di detenzione temporanea sull'isola. Ma è proprio così? Probabilmente gli uni credevano di marciare assieme agli alti. In realtà gli abitanti di Lampedusa chiedono semplicemente che la loro isola non diventi un'unica, gigantesca prigione, gli stranieri che li si lasci liberi, appunto. Liberi di non tornare in Tunisia. Liberi di non tornare nella patria di Gheddafi, e questi li capisco particolarmente, perché solo il cinismo italiano può presentare come un grande risultato politico gli accordi raggiunti con il dittatore petrolifero, uno che i clandestini reimpatriati dall'Italia li pianta in mezzo al deserto in balia dei suoi scherani, uno che è dietro a cose come l'attentato di Lockerbie o le guerre combattute negli ultimi anni in Ciad e in Liberia (magari per interposta persona, da tristi figuri come Charles Taylor).

Libertà, dunque. Ieri sera, alle 23.30, ovviamente, su Rai 2 davano un documentario su una delle tante rotte dell'emigrazione, quella sul golfo di Aden, fra la Somalia e lo Yemen. Il documentario in sé non era niente di speciale; però mostrava una realtà ovvia, ovvia a tutti tranne che a Maroni, il tastierista diventato ministro della Repubblica e cioè che non tutti i clandestini sono dei criminali, come vorrebbe la legge italiana (e chissenefrega se essa ricalca il resto dell'Europa, se l'Europa dice e fa stronzate dobbiamo copiarla?), che le vie dell'emigrazione, come quelle dei tastieristi, sono infinite, che la gente che scappa dalla Somalia, per esempio, in genere non ha né il tempo né la possibilità di seguire le regole della burocrazia italiana per evadere da quel mattatoio a cielo aperto. Che se si presenta la possibilità salta sul barcone e basta. C'è da fargliene una colpa?

Poi, certo, nell'esercito dei clandestini si nascondono anche i criminali, incalliti e non. Sarebbe bello poterli distinguere subito, sarebbe bello se portassero in fronte uno stigma. Ma non si può. I benpensanti dicono: "Mica possiamo rischiare, ne va della nostra sicurezza". Ok, certo. Ma questo rischio lo corriamo già. Lo corriamo sempre. Forse che nello spazio di Schengen oggi non circolano liberamente dei criminali? Che dire allora dei nostri mafiosi in Scozia (quelli di cui parla Saviano in uno dei passaggi del suo Gomorra che nessuno mai ricorda?).

Liberà, quindi. Anche se poi, come spesso accade, la libertà è solo quella di farsi qualche birra. Prima di essere riaccompagnati nella propria CELLA.

Nessuno lo chiamava Faber

Ho sentito le prime canzoni di De André a 10 anni. Le canticchiava un ragazzino un po' più vecchio, che era famoso in cortile per avere due zii: uno missionario in Congo e l'altro anarchico mangiapreti (sacrestia+anarchia=Fabrizio De André, appunto).
Mi piacevano perché sembravano un po' horror, soprattutto quella della tipa che chiedeva al suo innamorato "il cuore di tua madre, per i miei cani...".

Poi venne mia zia, una tosta, che aveva alle spalle un'adolescenza scapestrata (quando ste' cose non erano di moda, ragazzi!). Mi regalò "L'antologia di Spoon River", mi fece ascoltare "La città vecchia" (ancora adesso mi dà i brividi), mi fece ascoltare tutto "Non al denaro..."
Beh, fu una torrida estate.

Ma nessuno lo chiamava Faber, questa è una cazzata di adesso, nessuno lo conosceva con quel soprannome tranne forse i suoi amici intimi. E adesso, tutti a dire: "Faber qua, Faber là..."
Si chiamava Fabrizio De Andrè, punto.
Fece "Rimini", mi rompevo la testa su quei versi oscuri e potenti, su "Coda di lupo", chi era quel "capelli corti-generale" che "ci parlò all'università, dei fratelli in tute blu che seppellirono le asce?"
Anni dopo capii che si riferiva a Lama, alla contestazione alla Sapienza.
Fece il disco con la Pfm, all'improvviso piaceva a tutti, anche a quelli che andavano al Cosmic. Ma non era un animale da palcoscenico, dal vivo era piuttosto scontroso e a volte anche un po' stronzo. Per me, comunque, i suoi dischi erano musicalmente validi anche prima che arrivassero Mussida e co. I valzerini, il mandolino del "Pescatore", le ballate chitarra e voce, le orchestrazioni. A me piace rock, ma con lui non si sentiva la mancanza del rock, e per un italiano è un pregio.

Ricordo un'intervista su quel libro, "Non sparate sul cantautore", uscito alla fine dei '70, quando il fenomeno era al suo massimo. Continuava a dire di avere problemi esistenziali, "che problemi?", gli chiese ad un certo punto l'autore (un ex-autonomo). Disse che gli servivano i soldi per la tenuta in Sardegna. Insomma, l'avesse detto John Lydon sarebbe suonato meglio. Comunque non importa, le canzoni hanno vita propria, al limite non importa nemmeno chi le ha scritte e cantate.

E' stato un grande e la sua fama non fa che crescere. Però c'è della beatificazione un filino retorica, in giro, quel tirare il morto per la giacchetta...
Io condivido un po' queste parole pescate su un blog, Freddinietzsche

"(...) Il problema è quel senso di santità, di poesia, di superiorità profonda e sostanziale di cui la figura di De André si è profumata negli anni. È diventato un dio laico, un profeta democratico, forse solo quello che anche Mara Venier in un programma del pomeriggio definirebbe «un grande artista». Anche l’altra sera, allo speciale di Che tempo che fa, trasudavano dagli angoli di un programma dignitoso e pieno di finezze degli sbuffi di incenso. Per quanto il tono pretesco di Fazio questa volta fosse virato alla totale sobrietà, e servisse per non fare di quel programma un pippone celebrativo ah-quanto-sono-commosso/ah-quanto-eravamo-amici-io-e-Faber, comunque un po’ di reliquiario è scappato fuori: Vecchioni che fa il maestro e presenta i bambini canterini di De André; Giovanna Zucconi che legge le frasi appuntate sul bianco dei libri; qualche riferimento a Gaza di troppo..."
Dopotutto era un tipo schivo.

Donne di Bolivia





Foto: m. pontoni

Bagatelle e massacri

"Come si fa a saltare da cose tremendamente serie a cazzatelle come il pop?"
Questa l'ho letta su un blog musicale che è stato tempestato di post su Gaza. Il mio blog non lo tempesta nessuno ma essendo piuttosto generalista (sì, ci sono 3-4 temi che ritornano, ma spesso si salta di palo in frasca, cioè da Gaza a X-Factor) mi sono sentito indirettamente chiamato in causa.

La prima cosa che si potrebbe dire al proposito è: si fa e si può, perché la vita è così. Parliamo di una vita in cui è facile non solo fare "salti" paurosi in un blog - o facendo zapping alla tv - ma anche, ad esempio, andare di persona in un paese in guerra, starci qualche giorno, o qualche settimana, e poi tornare alla propria tiepida casa. Lo fanno molti pacifisti, ma anche molti turisti normali (magari senza neanche accorgersene, perché molte delle guerre di oggi sono a bassa intensità). E' una cosa cinica, come sembra suggerire quel post? Probabilmente no; certo, dipende da come la si vive. Comunque, non è più straniante che andare a messa la domenica, poi uscire fuori sul sagrato e mettersi a parlare del prezzo dei rapanelli. Ma come: un attimo prima presenziavi al compiersi del Mistero dei Misteri - un dio che si fa pane e vino per congiungersi "fisicamente" con i suoi fedeli - e adesso ti preoccupi della spesa?
E invece la vita quotidiana è così, e peraltro negli scenari di guerra non cambia di molto. Anche in stagione di massacri c'è tempo per le bagatelle. Soldati e civili non vivono di guerra 24 su 24: comunque sia, continuano anche a studiare, fare scherzi, innamorarsi o suonare la chitarra. Sì, le cose serie e il pop (o i rapanelli) possono stare gomito a gomito.
Il secondo livello di riflessione riguarda i media. Si dirà: non parliamo di vita reale ma di blog, di informazione. Dunque, vediamo. Sui giornali le notizie sulle guerre si trovano solitamente in sezioni distinte da quelle riservate agli spettacoli, al costume o al calcio. Effettivamente, trovare una foto di Beyoncé o di qualche calciatore guzzone accanto ad una di un bombardamento può dare fastidio. A me personalmente gli inserti femminili che su una pagina ti rifilano l'ennesimo articolo sull'anoressia (o l'ennesima recensione di un libro autobiografico di un'anoressica) e sull'altra una pubblicità con la modella spettrale d'ordinanza, mi disgustano un poco.
La suddivisione di cui sopra, comunque, salta nella prima pagina: dove possiamo trovare la notizia di Gaza in taglio alto e quella sul Grande fratello di spalla o in taglio basso. Non c'è niente da fare: di nuovo ha la meglio il carattere spurio della vita reale, fatta di bagatelle e massacri, guerre, rapanelli e pop.
Ma su un blog? Qui le cose effettivamente potrebbero essere diverse. Una teoria sostiene infatti che i blog siano tanto più efficaci quanto più sono specializzati su un tema. I blog specialistici vengono considerati quindi, in quest'ottica, migliori rispetto all'informazione generalista (quella dei giornali, o dei Tg), che gli analisti dicono essere in crisi. L'informazione generalista è superficiale, imprecisa, volgare, ergo ha stufato e la gente (per lo meno un certo tipo di gente) si rivolge a fonti specializzate, come appunto i blog che si occupano solo di quella cosa (solo di musica, ad esempio, o meglio ancora, solo di un singolo autore, solo di Beyoncé o di Mahler). La tv digitale (che tutti abbiamo già capito essere un pacco), ma anche la semplice tv a pagamento, dovrebbero andare nella stessa direzione: un canale agli appassionati di regate, un canale alla Bbc, uno ai patiti di Padre Pio, uno ai rapanelli, cento ai fan del porno ecc. Effettivamente, anche in questo modo è facile saltare dalle cose tremendamente serie alle cazzatelle (basta una semplice pressione del pollice e in futuro forse un comando vocale) ma almeno ogni cosa rimane formalmente al suo posto. E questo ha un suo peso, perché da sempre sappiamo che l'orrore delle cose è il loro essere fuori posto (pensiamo alle feci o all'urina: ce le portiamo dentro per la maggior parte del tempo, no? Ma sono ben nascoste e al loro posto e quindi non ci pensiamo: per terra però ci fanno schifo e se la terra è il pavimento di casa nostra sono o il segnale allarmante dell'incontinenza o lo sfregio lasciato da un profanatore).
Il terzo livello di riflessione è filosofico. Dopotutto, questo mescolare informazione alta e bassa, politica e intrattenimento, sacro e profano, questa orizzontalità dell'informazione generalista, non sono forse il riflesso della postmodernità così come concepita da Jean Francois Lyotard?
"L'epoca attuale, che Lyotard chiama postmoderna, è caratterizzata dal venire meno della pretesa propria dell'epoca moderna di fondare un unico senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi e dalla conseguente apertura verso la precarietà di ogni senso."
"La realtà è differenza, molteplicità irriducibile, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema."
La postmodernità può essere letta in due modi. Uno negativo: essa conduce al relativismo culturale estremo, dove nessun valore è certo o è dato una volta per tutte. E sul relativismo estremo non si può costruire nulla.
Uno positivo: la postmodernità è sinonimo di tolleranza, equanimità, equidistanza, apertura a tutto ciò che è altro o diverso, è sovversione delle gerarchie tradizonali, è anticolonialista e a-classista.
Per tornare ai blog e all'informazione generalista: per me questo mettere vicino l'alto e il basso, il serio e il faceto, le bagatelle e i massacri può essere volgare, schifoso, rivoltante come lo è il mercato nei suoi aspetti peggiori. Ma può essere anche utile, perché dagli accostamenti casuali e disparati possono uscire a volte le riflessioni più geniali o le soluzioni più efficaci. Qualcuno pensa davvero che la guerra in Medio Oriente possa essere risolta dagli stati, dalla politica, dalle diplomazione internazionali? Dopo che ci provano da sessant'anni? Se tanto mi da tanto, la soluzione può anche arrivare dalle cazzatelle, oh sì. E se non la soluzione, quantomeno qualche barlume di comprensione in più.

E sì che mi piaceva

E sì che mi piaceva Santoro, la sua Samarcanda era un appuntamento imprescindibile!

Ora, io sulla guerra a Gaza non dico altro, penso che onestamente sia difficile prendere le parti di Israele (come ha detto recentemente Jerry Adams, ex-negoziatore della pace fra l'Ira irlandese e il governo britannico: "Certo, però, gli inglesi, anche nei momenti più duri, non si sono mai sognati di bombardare un condominio di Belfast perché nelle cantine poteva nascondersi una cellula dell'Ira").

Mi riferisco solo allo stile. Che differenza c'è con un qualunque Emilio Fede? Come si fa a ragionare lucidamente se nello studio hai dei megaschermi che ti sbattono in faccia per tutto il tempo gli occhioni sbarrati dei bambini palestinesi? Come si fa a farlo con quelle giornaliste-vampire (strafighe, ovviamente) che Santoro ha allevato alla sua corte, per le quali sembra che l'unica regola buona sia: l'imparzialità non esiste, sono giornalista quindi mi schiero e se qualcuno prova a contraddirmi gli salto alla giugulare?

Eh vabbé. Non dico che l'Annunziata sia la mia giornalista preferita. Ma lei almeno ha scritto un libro (Bassa intensità, dedicato alla guerra in Salvador negli anni '80, che seguì come inviata del Manifesto) che potrebbe far testo ancora oggi. Certo, gli manca l'impatto di quegli occhioni sbarrati....

Lorenzo Cremonesi: Le vittime di Gaza

Ho conosciuto Cremonesi 3 anni fa, era invitato a parlare a Dolomiti di Pace, un'iniziativa che si tiene d'estate in Trentino, nei rifugi d'alta montagna. In quell'occasione parlò (assieme a Giovanna Botteri) del suo lavoro di inviato con riferimento soprattutto alla Seconda guerra del Golfo. Oggi trovo on-line il suo reportage da Gaza, pubblicato sul Corriere di ieri; mi sembra una testimonianza importante e quindi la riporto. Aggiungo che spessissimo sui blog si leggono strali contro il giornalismo ufficiale. Non sempre sono giustificati.

Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera, 14 gennaio 2009

A GAZA TRA MACERIE E RABBIA.

YUNIS (Striscia di Gaza) — Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C’è un’atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L’altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall’altra parte, in «Hamasland», non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.
Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all’ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio. L’entrata all’ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati. Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all’ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell’istituto. Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all’estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah. Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c’è malnutrizione. Nonostante l’aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l’uniforme nera che si muovono nell’atrio dell’accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E’ vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l’inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l’essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente». Alle sette di sera cala il buio. Non c’è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E’ allora che un’ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall’Egitto, offre un passaggio per l’ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c’è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l’ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento. Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E’ il direttore amministrativo del «Nasser», We’am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c’è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell’ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ». Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all’uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito? «Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all’unisono medici e infermieri. C’è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all’estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l’80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all’università.

Lorenzo Cremonesi 14 gennaio 2009

2009

1909: Marinetti pubblica il Manifesto del Futurismo, ottimismo vitalista incosciente della modernità; premio Nobel a Guglielmo Marconi.
1919: la Prima guerra mondiale è finita, a Parigi la conferenza di pace; arrestati e subito assassinati a Berlino i rivoluzionari tedeschi Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht; negli Usa inizia il Proibizionismo; nasce Salinger, autore del Giovane Holden.
1929: il crollo della Borsa di Wall Street, la crisi mondiale; il signor Les Paul inventa, all'età di 14 anni, la chitarra elettrica; nasce il Moma di New York.
1939: l'umanità sull'orlo della Seconda guerra mondiale, a settembre Hitler invade la Polonia; Glen Miller incide "In the Mood"; Joyce, Finnegan's wake; l'Atlantico è attraversato dai primi voli di linea commerciali.
1949: Simone de Beauvoir pubblica Il secondo sesso, manifesto femminista, Orwell 1984, allegoria dei totalitarismi; esce Orfeo di Jean Cocteau; Charlie Parker incontra Sartre a Parigi, Satre dice "mi piace la tua musica", Parker risponde "anche a me piace la tua musica"; spirano venti di Guerra fredda.
1959: Nasce la Barbie; Miles Davis incide Kind of blue, uno dei più grandi dischi jazz di tutti i tempi; si accelera il processo di decolonizzazione in Africa.
1969: gli Usa sulla luna; il festival di Woodstock; esce Easy rider, il film-manifesto sulla generazione perduta degli hippies (nella scena finale i due motociclisti, Peter Fonda e Dennis Hopper, vengono uccisi, per niente, da due "colli rossi" di passaggio; fine dell'ottimismo sessantottardo).
1979: Joy Division, Unknow pleasure (l'ottimismo è ormai un vago ricordo); Francis Ford Coppola, Apocalipse Now, il Vietnam come il Congo di Conrad; Lyotard pubblica La condizione postmoderna (nuovo distaccato ottimismo relativista, avalutativo, "orizzontale", sulle macerie della modernità).
1989: Crolla il muro di Berlino; Sesso, bugie e videotapes (tramonto dell'uomo che non deve chiedere mai, inizio del sesso virtuale).
1999: il Millennium bug era una cazzata, il Millenarismo anche.
2009: Israele e autorità palestinesi firmano una storica pace, nascita del "due stati in uno"; nuova rivoluzione in Iran, destituiti gli ayatollah, la vittoria dei laici accelera la dissoluzione dei Talibans in Afghanistan e il tramonto di Al Qaida; Obama chiede scusa al mondo per tutte le porcherie fatte dall'America nel nome della libertà, dal sostegno al Cile di Pinochet alla guerra in Iraq; Putin travolto dalla seconda "gloriosa rivoluzione democratica"; la Cina rende il Tibet autonomo nel quadro del "Grande balzo in avanti verso la riconciliazione", ritorno del Dalai Lama a Lhasa; la Jugoslavia si riforma, su basi federate, i criminali di guerra ancora latitanti vengono consegnati alla giustizia internazionale; inizio del neo-Piano Marshall per l'Africa; il Papa si dice incerto sull'esistenza di Dio, ma conferma che vale la pena cercarlo, anche solo per chiedergli: "Come stai?"; annuncio degli scienziati: "L'effetto serra sta regredendo, il mondo non finirà arrosto, l'umanità ha un futuro".
Lou Reed incide con Dylan, Bowie, Iggy, Morrissey, Bono, Patti Smith, Grace Jones, Tom Waits IL DISCO DEL SECOLO.

The bastard sons of Dioniso




Eccolo il soul dolo-mitico, il rock-blues montagnardo, le pietre rotolano giù dai monti, dopotutto, no? E noi siamo grati ai Bastard sons of Dioniso, gruppo della Valsugana che annovera fra le sue fonti di ispirazione i Beatles, gli Ac/Dc e Queen of the Stone Age, di avercelo ricordato sul palcoscenico di X-Factor, Rai 2, stasera.

Allora non occorre essere nati a New York e non è nemmeno necessario andare a Milano o a Roma: ben fatto! Il Fersina è il nostro Mississipi, l'Adige il Tamigi, il Teroldego il nostro Four Roses, via Belenzani Abbey Road tonight, e la terra del Concilio tifa chi suona la musica del diavolo.
Portare un classico come "Paint it black" delle Pietre rotolanti, altrimenti detti Rolling Stones, su Rai 2, cantandolo con le camice a scacchi dei boscaioli grounge del pinetano, il timbro rural-alcolico di chi è stato svezzato ad assoli di chitarra e cori di montagna, è il vero coup de theatre di questa edizione della fortunata trasmissione che ha in Morgan uno dei suoi protagonisti. E proprio Morgan ha cantato le lodi dei Bastardi trentini (anche se non sono un gruppo suo), portando in tv l'orgoglio rock più autentico, quello di chi sa che questa musica è figlia delle falloforie, di Eschilo, delle baccanti che sciamavano ebbre per le campagne dell'Attica e della Tessaglia. Ma attenti, Bastard: quelle Dioniso se lo sono divorato!

Tagli alla cooperazione allo sviluppo


Continuiamo a informare sui tagli previsti dalla Finanziaria del Governo alla cooperazione allo sviluppo. La fonte questa volta è Sbilanciamoci, sigla dietro la quale si nasconde un'iniziativa promossa da alcune delle maggiori realtà associative italiane (dal Wwf all'Arci, da Legambiente a Emergency ecc. integrate, sul sito web, anche da una nutrita pattuglia di economisti ed esperti) per analizzare, di anno in anno, la Legge Finanziaria, e parimenti la qualità dello sviluppo anche a livello regionale (il Trentino risulta sempre ai primi posti in Italia). Certo, qualcuno potrebbe dire che c'è la crisi. Ma disgraziatamente la crisi colpisce anche i paesi poveri (si veda l'intervista a Rigoberta Menchù pubblicata a dicembre su questo blog). E comunque, i roboanti impegni assunti dalla comunità internazionale con l'adozione degli Obiettivi del Millennio non possono venire disattesi a causa degli effetti perversi di un sistema finanziario che questa stessa comunità ha sostenuto e condiviso per anni. Sarebbe una sconfitta per tutti; un modo per fare pagare una volta di più certe scelte sbagliate, inique, ciniche, ai più deboli.
L'articolo è del 23.12.2008.
(Foto: una "scuola sotto l'acacia" a Merka, Somalia - foto m. pontoni)

Pochi aiuti, e interessati. La cooperazione allo sviluppo è ai minimi storici. Tutti i dati e le denunce nel Libro Bianco presentato da Sbilanciamoci!
Tagli del 56% ai fondi del ministero degli Affari Esteri, azzeramento dei fondi per le Ong nel 2009, ricatto ai paesi poveri cui è richiesto di collaborare al rimpatrio degli immigrati irregolari se voglio ricevere aiuti: queste alcune delle scelte del governo Berlusconi per la cooperazione allo sviluppo, documentate nel
Libro Bianco 2008 sulle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo in Italia presentato da Sbilanciamoci! a Roma. Il rapporto, giunto ormai alla sua quarta edizione, è frutto di un lavoro collettivo svolto dagli esperti delle organizzazioni aderenti alla Campagna Sbilanciamoci! Che ogni anno denunciano lo stato ormai agonizzante dell'Auto pubblico allo Sviluppo in Italia.
I dati forniti dall’Ocse-Dac per il 2007 relegano l’Italia ancora una volta in una delle ultime posizioni rispetto agli altri Paesi “donatori”. Viene evidenziato infatti come nel 2007, rispetto al 2006, ci sia stato sì un notevole aumento delle risorse stanziate sul canale bilaterale (656 contro 405 milioni di dollari, al netto delle operazioni di cancellazione del debito) e una crescita di oltre il 370% dei contributi volontari alle organizzazioni multilaterali, ma tale incremento non si è purtroppo tradotto in un miglioramento del rapporto Aps/Pil, che anzi registra addirittura una regressione dallo 0,20% allo 0,19%. Se a questo dato sottraiamo le risorse destinate alle operazioni di riduzione e cancellazione del debito dei Paesi più poveri, pratica giusta ma che in realtà non immette risorse reali ma soltanto virtuali, il rapporto scenderebbe addirittura allo 0,16%, ossia il peggiore tra i Paesi dell’Unione Europea se si eccettua lo 0,14% della Grecia. Va del resto ricordato che la crescita delle risorse stanziate nel 2007 rimane comunque ancora lontana dal mantenere gli impegni presi negli ultimi anni a livello internazionale dai diversi governi che si sono succeduti, come ad esempio quelli ribaditi nel Dpef 2008-2011, dove si presentava una tabella di marcia che avrebbe portato l’Italia a raggiungere nel 2008 lo 0,33% del rapporto Aps/Pil e nel 2010 lo 0,51%.
Purtroppo le previsioni per il 2009 e i segnali lanciati in questi mesi dal nuovo governo rendono sempre più evidente l’impossibilità di raggiungere a breve simili obiettivi. Oggi, infatti, la cooperazione italiana vive un momento di estrema crisi, nuovamente dominata dall' ”aiuto legato” (cioè dall'obbligo dei Paesi beneficiari di acquistare beni e servizi dalle imprese italiane), dalla sudditanza alla politica commerciale e del ministero dell'Economia nonché all'export del “made in Italy”, per non parlare dell’ambiguo intreccio, come avviene in Afghanistan, con l'interventismo militare. È una cooperazione “di servizio”, subalterna alla logica di un mondo che nel frattempo è radicalmente cambiato e soprattutto è una “cooperazione senza soldi”, dal momento che Tremonti, con il silenzio complice del ministero degli Affari Esteri, ha tagliato tutto ciò che era possibile tagliare.
Le disposizioni della Finanziaria 2009, infatti, comporteranno una diminuzione della disponibilità finanziaria per la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo (Dgcs) pari al 56% delle risorse economiche previste nella Finanziaria precedente. Si passerà pertanto dai 732 milioni previsti a 321 milioni (con un taglio, quindi, di ben 411 milioni di euro), la gran parte dei quali, peraltro, già impegnati. Ciò significa che per il prossimo anno, se il governo non stanzierà dei finanziamenti straordinari, magari rammentando di dover presiedere il G8, alla cooperazione italiana sarà di fatto impedito di avviare qualsiasi nuova iniziativa. Secondo i calcoli effettuati da Sbilanciamoci! e confermati dalla Dgcs le risorse stanziate per i progetti delle Ong non raggiungeranno i 10 milioni di euro (nel 2007 ne sono stati stanziati 150) e i milioni da destinare alle organizzazioni multilaterali non saranno più di 80. Se queste previsioni verranno rispettate il rapporto Aps/Pil nel 2009 potrebbe scendere addirittura allo 0,1% circa, toccando così i minimi storici della cooperazione allo sviluppo italiana! A questi tagli va aggiunta poi la cancellazione dei finanziamenti all'educazione allo sviluppo e la vergognosa scelta di privilegiare per la cooperazione quei Paesi che hanno stipulato con l’Italia un accordo per il rimpatrio dei loro immigrati irregolari. Questa iniziativa, unita all’abbandono del progetto di riforma della 49/87 che regola la cooperazione allo sviluppo da ormai più di venti anni e alla decisione di non nominare un vice ministro o un sottosegretario con delega alla cooperazione, testimonia il grave disinteresse del governo e del parlamento italiano verso un settore al quale dovrebbe invece competere un ruolo di assoluta centralità nell’ampio panorama della politica estera del nostro Paese. La seconda parte del rapporto è dedicata invece all’analisi di tre aspetti di rilevanza internazionale che nel 2008 hanno dominato il dibattito attorno al futuro della cooperazione e alle strategie per lo sviluppo. Crisi alimentare, efficacia degli aiuti e finanza per lo sviluppo sono stati i temi al centro di altrettanti vertici internazionali rispettivamente che si sono tenuti a giugno a Roma, ad Accra nel mese di settembre, e a Doha a fine novembre. Il Libro Bianco 2008 oltre ad analizzare i risultati ottenuti in questi tre consessi internazionale e a valutarne le immediate conseguenze, si è focalizzato principalmente sulle posizioni e sull’operato della delegazione italiana, non esimendosi anche in questo caso da un giudizio sostanzialmente negativo.
Se non si effettueranno degli interventi rapidi e sostanziali, non solo dal punto di vista economico ma anche, o meglio soprattutto, dal punto di vista di un ripensamento radicale del paradigma della cooperazione allo sviluppo, intesa non più come semplice elemosina ma come elemento fondamentale per intrecciare una nuova tipologia di relazioni internazionali, la cooperazione italiana continuerà a vivere questa situazione drammatica e sinceramente insostenibile per un Paese che nel 2009 ospiterà il G8 e che soprattutto mira a conquistare un profilo internazionale sempre più importante.

Nuove "mazzate" alla cooperazione allo sviluppo?


Questo post è un copia-incolla da questo sito http://www.gennarocarotenuto.it/ che a sua volta cita come fonte Lettera 22. Ammetto che non ho fatto un grande sforzo e cercherò di approfondire il tema - che mi sta molto a cuore - nei prossimi giorni.

Quando qualcuno vi chiederà che differenza c'è fra destra e sinistra...ecco, questa è una delle differenze. La cooperazione allo sviluppo non è tutta rose e fiori. Spesso si accompagna a sprechi, inefficienze, vanagloria dei cooperanti e degli stessi missionari. Ma al suo meglio è una delle espressioni più belle e importanti della generosità della società civile, della sua capacità di andare verso ciò che è "altro da sé". Sacrificarla alle iniziative militari (che pure personalmente - a differenza di molti pacifisti - non condanno in toto, convinto come sono che in certi contesti servano) mi pare un grave errore prima di tutto culturale.

Sulla Gazzetta Ufficiale di oggi compare un decreto legge che è un cambio paradigmatico per la cooperazione italiana. Il decreto legge sulle missioni militari all’estero taglia infatti oltre 100 milioni di euro alle attività civili.
L’Italia, che era al penultimo posto dopo gli Stati Uniti per la cooperazione allo sviluppo, diventa così ultima, oramai sotto lo 0,1% del PIL, e gli obbiettivi del Millennio sono carta straccia.
Ma non basta: penalizza il Ministero degli Esteri e privilegia quello la Difesa. Toglie fondi alle Ong e alle associazioni e favorisce la cooperazione dei militari (...).


Non è bastato che la legge Finanziaria abbia tagliato i fondi della Cooperazione allo sviluppo con una riduzione agli stanziamenti che, scrivevano in settembre alcuni parlamentari in un’interrogazione, porteranno “la percentuale del Pil destinata alla lotta contro la povertà al livello dello 0,1%”, quando l’Italia aveva assunto impegni vincolanti “per stanziare entro il 2010 lo 0,51% quale tappa intermedia per raggiungere lo 0,7 previsto per il 2015”. Carta straccia degli obiettivi del Millennio, ma non solo.
In questi giorni il mondo umanitario si rigira tra le mani il “decreto missioni” – che decide i finanziamenti dei nostri impegni militari all’estero – con non poche sorprese con cui fare i conti. Dopo che la finanziaria ha tolto alla Cooperazione oltre il 56% di quanto previsto dalla manovra 2008 riducendo il budget a circa 320 milioni di euro, una mazzata arriva anche dal decreto legge sui rifinanziamenti agli impegni all’estero, varato dal governo e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale a inizio gennaio. Dalle voci di spesa spariscono completamente gli oltre cento milioni di euro che, nel dl scorso, garantivano fondi alle attività di cooperazione civile. Tutto adesso passa in mano ai militari (...).

Di poeti vivi e morti e di vacche sacre

Carlo Martinelli nel suo blog http://martinelli-trento.blogautore.repubblica.it/ ricorda il poeta sudtirolese Norbert Conrad Kaser (Bressanone 1947, Brunico 1978) a cui il mensile "Poesia" dedica uno spazio questo mese.

Quello di Kaser è uno dei (pochi) nomi della letteratura di queste terre di confine che periodicamente ritorna, un po' per la qualità della sua opera, un po' per la sua forte personalità, i cui tratti distintivi erano una sincera, generosa ribellione nei confronti degli stereotipi della piccola patria (o Heimat che dir si voglia) e una sofferenza esistenziale che lo avvicinava in qualche modo ad altre figure tragiche del nostro tempo (i nomi che mi vengono in mente in questo momento sono quelli di Kerouac e di Ian Curtis, anche se mi rendo conto che nulla hanno a che fare con il microcosmo sudtirolese, con il dolore che possono ispirare queste montagne per altri versi magnifiche, con il "tedio-morte" del vivere in provincia, come lo cantava Guccini).
Ricordo che lessi il suo celebre intervento nel quale invitava a spennare come un galletto l'aquila rossa che campeggia nello stemma del Sudtirolo e a organizzare un grandioso macello delle "vacche sacre", dei tedeschi così come degli italiani. Erano gli anni in cui si consolidava l'Autonomia dell'Alto Adige/Sudtirol secondo le linee del secondo Statuto: un'Autonomia fondata sulla divisione e la spartizione, esemplificate dalla proporzionale (tot soldi, case, posti di lavori ai tedeschi, tot agli italiani), fondata a sua volta sulla dichiarazione di appartenenza etnica (quella che oggi spinge tanti italiani a dichiararsi tedeschi anche se magari le loro radici sono in Sicilia, così da accedere ai posti riservati al gruppo tedesco nei concorsi).
Kaser rimase ai margini, come in fondo anche Alex Langer. La sua poesia non si prestava alle celebrazioni retoriche, non suonava la grancassa dell'identità. Il prezzo da pagare è stato come sempre altissimo: morte per alcol.
Scrisse di lui Langer, nel 1980: "Norbert era morto d'isolamento all'età di 31 anni: sempre più profondamente immerso nell'alcool e nello sforzo estremo di scuotere, di comunicare qualcosa, di graffiare. Non gli piacevano le avanguardie troppo spinte: con le femministe di Bruneck aveva polemizzato per una scritta irriverente sui muri della chiesa e nel 1976 si era iscritto, senza mai contarvi nulla, nel PCI, quasi a dimostrare che non voleva restare solo (ma nel Sudtirolo il PCI significa un isolamento cocciuto ed ostinato, non molto dissimile da quello di chi sceglie forme più libere di lotta e di dissenso). L'isolamento era rimasto, anche le supplenze in varie scuole elementari gli erano state tolte, e sempre aveva da combattere con la miseria."
Forse l'aspetto extraletterario ha prevalso, suo malgrado, su quello letterario. La critica di Magris alla letteratura sudtirolese è nota: "La più viva letteratura tirolese ha fatto propria [la] autodenuncia, assumendola quale condizione di autenticità e trasformandola in una beffarda e aggressiva autocelebrazione. (...) Grazie al conservatorismo talora retrivo della cultura ufficiale sudtirolese, è facile essere scrittore osteggiato e meritarsi considerazione in virtù della prepotente ostilità dei benpensanti."
Per conto mio, per Kaser (e per Zoderer) questa critica è ingenerosa, anche se è difficile scindere il giudizio artistico da quello "politico".

Ma quali sono le vacche sacre, oggi?

Per gli italiani dell'Alto Adige una di esse continua tristemente ad essere il Monumento alla Vittoria, costruito in epoca fascista per celebrare la presunta "civilizzazione" di queste terre da parte degli italiani/latini (intendiamoci, è un bel manufatto, nel senso che occupa egregiamente lo spazio in cui è collocato, ma, insomma, si potrebbe anche ripensarlo, no?)
Per i tedeschi la vacca sacra per eccellenza è la Svp, il "partito di raccolta dei sudtirolesi di lingua tedesca"; purtoppo chi vuole macellare questa vacca è assai di destra e propugna un etnicismo ancora più intransigente (anche se sospetto che dietro agli slogan vi sia soprattutto una lotta per il potere).
Poi, forse, anche la memoria di Langer è oggi suo malgrado una vacca sacra (di lui, come di altri, si ricordano meno, o con meno slancio, le posizioni più problematiche, come quella in favore di un intervento armato dell'Onu per liberare Sarajevo dall'assedio. Senza contare che quest'uomo osò sfidare la vacca sacra sudtirolese per eccellenza, quella della dichiarazione etnica, quando si candidò a sindaco di Bolzano: e ad appoggiarlo furono in pochissimi, anche a sinistra. Questo ricordo turberà qualcuno nel sonno, oggi?).
E un'altra vacca sacra ancora è la riserva geografica sui posti di lavoro pubblici, quella che consente, assieme al patentino di bilinguismo, di mantenere i sudtirolesi in una dorata boccia di vetro, al riparo dalla concorrenza esterna (tranne che in alcuni settori come la scuola).
Tutto questo ha qualcosa a che fare con la poesia? Forse sì, perché la poesia non dimora nel Parnaso ma nei bar, nelle biblioteche scolastiche, nei vicoli pieni di pioggia, sulle rive del Talvera, sui crinali assolati, sotto la neve, odora di pause-caffé e preservativi, giornali del mattino e posaceneri. E' questa cosa qui che viene a soccorrerci al termine di infinite riunioni, decisioni di cui poco ci importa, burocrazia, buste paga, pettini e specchi.

Per lo meno, lo spero.
(Foto: un maso dell'Alto Adige/Sudtirol - m.pontoni)

Guerra inutile


Non si può non scrivere qualcosa su Gaza.

Diamo per scontato l'orrore che tutti proviamo per ogni guerra. Diamo per scontato che non tutte le guerre sono uguali, che ci sono guerre in qualche modo risolutive (la guerra che il mondo combatté contro la Germania nazista, l'Italia fascista e il Giappone teocratico-imperialista, ad esempio, o la guerra del Vietnam, o la guerra d'Algeria) ed altre che non risolvono nulla (questa qui ne è un esempio lampante)

Diamo anche per scontato che non è questa la sede per rifare la storia dello stato d’Israele e dei suoi rapporti con il resto del mondo, dal 1948 ad oggi.

Limitiamoci ad un paio di considerazioni. La prima riguarda la politica interna di Israele. Questa che si sta combattendo è una guerra definita anche da diversi osservatori ebrei come preelettorale. Il 10 febbraio in Israele si vota: il governo vuole incassare quanti più consensi possibili, e questo vale sia per Kadima, il partito di maggioranza in cui militano il presidente Peres (già colonna dei laburisti), il premier Olmert e il ministro degli esteri Tzipi Livni , sia per i laburisti del ministro degli esteri Barak. A novembre un sondaggio dava infatti in testa la destra del Likud. Ad essere in difficoltà sarebbero soprattutto i laburisti, sfidati sia dal centro, sia dalla destra sia anche dalla sinistra (scrittori-intellettuali compresi). Con l'attacco sferrato ad Hamas il Labour spera ora di accreditarsi come un partito, se necessario, "forte", dopo avere sostenuto, in passato, le ragioni della tregua (scaduta appena una settimana prima dell'inizio delle operazioni militari nella striscia di Gaza).
E' evidente comunque che una guerra troppo lunga non gioverebbe all'attuale maggioranza, e che una disfatta come quella del Libano sarebbe fatale per Olmert (nulla di nuovo rispetto a quanto già visto in passato).

Sul piano internazionale, Israele sarebbe penalizzato da un numero, diciamo così, eccessivo di morti (civili, palestinesi) o di "danni collaterali" (scuole Onu comprese); ma è vero anche che Gerusalemme non sembra preoccuparsi eccessivamente delle critiche, soprattutto europee. Parliamo di un paese abituato a difendersi a prescindere dalle simpatie di cui può godere.
Il 20 gennaio - altro elemento di cui tenere conto - a Washington si insedia Obama. Il quale ha già chiarito che Israele ha il diritto di rispondere con la forza alle aggressioni missilistiche di Hamas. Tuttavia, il nuovo presidente americano rappresenta pur sempre una novità per Gerusalemme. In questo senso i vertici di Israele devono essersi rallegrati che la tregua è scaduta e che quegli idioti di Hamas hanno ripreso a tirare i Qassam, così da poter mostrare i muscoli adesso e senza eccessivo imbarazzo.

La cosa più interessante però è probabilmente l’atteggiamento dei paesi arabi circostanti. In difficoltà con le loro popolazioni, chiedono il cessate il fuoco e magari condannano verbalmente Israele, ma di fatto non sono troppo dispiaciuti di quello che sta succedendo. Perché dietro a Hamas (così come agli Hezbollah) c’è l’Iran e l’Iran non piace affatto a egiziani, siriani, sauditi ecc. Lo stesso atteggiamento di Abu Mazen, com'è noto, è stato molto cauto. Può darsi stia pensando agli eventuali vantaggi che la Cisgiordania potrebbe ottenere, "per compensazione", dopo la campagna di Gaza. Anche se francamente Israele non sembra intenzionato a consentire seriamente la nascita di uno stato palestinese, per di più in un territorio che vede ancora la massiccia presenza di colonie.

In tutto questo, dunque, i palestinesi sono due volte vittime, anzi tre. Di Israele, di Hamas e del cinismo (o forse dell’incapacità) dei paesi della Lega araba. Questa guerra non risolverà nulla nei rapporti fra ebrei e palestinesi, all'interno e all'esterno di Israele. Non estirperà Hamas né il terrorismo e non rappresenterà una soluzione per il problema dei problemi che Israele ha di fronte, se vuole conservare la sua identità di stato ebraico, quello demografico. Essa rappresenta l'ennesimo capitolo di una vicenda lunghissima, che appassiona e divide l'opinione pubblica (a differenza di altri conflitti anche più sanguinosi, come quelli che lacerano a fasi alterne la regione dei Grandi Laghi o il Corno d'Africa), ma su cui non si ha molto da aggiungere rispetto a quanto già detto o scritto altre volte in passato in favore della convivenza, della riconciliazione, del diritto ad esistere di due stati (o di un unico stato multireligioso e multietnico sulla terra di Israele/Palestina, senza muri, strisce, colonie e territori).

Nota a margine: può l'Italia fare qualcosa? Può farlo con la cooperazione allo sviluppo, innanzitutto. Questo sempre. Può cercare di alleviare qualche sofferenza, anche se farlo a Gaza è particolarmente difficile, visto l'isolamento della striscia.
Può farlo anche con altri strumenti, ad esempio con l'invio di un contingente di militari con compiti di peace keeping? Direi di sì. In Libano male non si è fatto. Ma ovviamente, per un intervento di interposizione da parte di una forza multinazionale bisogna attendere prima il cessate il fuoco.

Ha senso infine proporre tregue o tentare "affondi" diplomatici come quello azzardato dalla Francia? Ogni sforzo ben impostato che vada in direzione di una cessazione delle ostilità, anche solo parziale, è importante, ma onestamente, l'impressione è che questa offensiva terminerà quando il governo israeliano la riterrà non più utile (sul piano politico prima ancora che militare). E non un secondo prima.
Per una veloce rassegna delle posizioni emerse sul tema nei vari blog italiani, spesso con testimonianze di prima mano da Gaza, vedasi http://netmonitor.blogautore.repubblica.it/?ref=hppro

Foto: l'Exodus, la leggendaria nave che portò, nel 1947, contro il volere dell'Inghilterra, un contingente di ebrei europei nella Terra di Abramo. Uno dei simboli del sionismo.

Machado - un poeta


Dall'uscio di un sogno mi chiamarono...

Era la buona voce, la voce amata.

-Dimmi: verrai a vedere l'anima con me?

Giunse al mio cuore una carezza.


- Sempre con te... Ed avanzai nel sogno

per una lunga e nuda galleria

sentendo il tocco della veste pura

e il palpitare dolce della mano amica


Antonio Machado (Siviglia, 1875 - Colliure, Francia, 1939)

Lascia perdere, Paoli'...

Ieri sui giornali trentini c'è stato gran casino perché Marco Paolini ha detto in tv che in ottobre (gran tempismo) ha visto che un capotreno non faceva salire un passeggero di colore (che colore? nero, e diciamolo! I wanna be black, cantava Lou Reed senza tanto menarsela...) con la sua bici su un treno locale (della Valsugana). Razzismo, razzismo. Oggi il capotreno replica: ma nelle altre stazioni (quelle che l'acuto Paolini non ha monitorato) non ne ho fatti salire almeno altri 10 (non neri, ovviamente, passeggeri qualunque, perché non c'era posto per le bici). Ora, che ci si possa incazzare con le ferrovie mi sta anche bene (tante storie sull'effetto serra e poi le bici che un treno di questi può contenere sono...udite udite: 2). Che si tiri fuori il razzismo per aumentare il proprio share...mi sta un po' sugli zebedei. Ma forse sono io che sono invidioso e penso male, e Paolini era mosso da sincero sdegno.
Nota dell'ultima ora: Paolini ha chiesto scusa per l'abbacchio. I polli ringraziano.

Mai contenti - i limiti sociali allo sviluppo


In un libro pubblicato per la prima volta in Italia nel 1981 da Bompiani, I limiti sociali allo sviluppo, Fred Hirsch dice che - a differenza di quanto sostenuto dal Club di Roma (i limiti dello sviluppo sono dati dalla finitezza delle risorse/materie prime) - lo sviluppo così come concepito dalle società consumiste è limitato socialmente. La tesi è che, soddisfatti i bisogni di base (mangiare, scaldarsi, ecc. quelli, insomma, che ormai stanno cominciando ad essere soddisfatti anche in Cina) i consumatori si orientino verso una quota crescente di beni e servizi volti a soddisfare bisogni non fondamentali (non biologico-materiali). E fin qui, direte, non valeva la pena di scriverci un libro. Questi beni, però, sono tanto più desiderabili quando più sono "oligarchici", ovvero riservati a pochi: beni di status, o beni il cui uso è fortemente legato alla scarsa diffusione, alla difficoltà di accesso, alla limitatezza. Banalmente: un'auto lussuosa e veloce è tanto più desiderabile quanto più essa "spicca" su uno sfondo di utilitarie lente e cheap, una vacanza su una spiaggia tropicale è tanto più "unica" quanto più la spiaggia è deserta ecc.

Ma le società aperte, democratiche, basate sui consumi di massa devono lasciare aperto a tutti - almeno sul piano ipotetico - l'accesso a tali beni. Il risultato è una crescente insoddisfazione ai livelli più "bassi" (tra chi per ragioni di reddito, di status ecc. non può accedere a certi beni, dalle scuole private ai fuoribordo) ma anche ai livelli più alti, a mano a mano che crescono la pressione dal basso e l'affollamento.

Questa lettura, che a suo tempo trovai illuminante, mi è ritornata alla mente ieri, leggendo un fondo di Maurizio Ferrera sul Corriere dedicato alla crisi: "Il ritorno alla frugalità - Epicuro e crisi dei consumi".

Ferrera scrive che il cosumismo tende a provocare "una vera e propria rincorsa posizionale fra individui e gruppi sociali: ciascuno aspira a consumare un po' di più del suo vicino e (...) questa escalatation ha poggiato su comportamenti spesso irrensonsabili dal punto di vista finanziario, grazie a carte di credito e mutui ipotecari che hanno consentito a moltissime persone di spendere al di là delle loro reali possibilità. La crisi in cui siamo precipitati è almeno in parte connessa anche a questi comportamenti. Se servisse a fare calare la febbre dell'iperconsumo (...) potrebbe indurre una salutare bonifica in alcune pratiche sociali che hanno finito per provocare enormi circoli viziosi".

Sul piano sociale ed etico Ferrera non si richiama tanto ai precetti religiosi - diciamo all'anticonsumismo di matrice "francescana" - quanto agli ideali classici (greci e latini) della temperanza, della costanza e della moderazione, agli stoici e a Epicuro, che raccomandava, a chi insegue la felicità, di semplificare bisogni e aspirazioni.

Tutto questo mi piace e mi pare essere oggi il tipo di critica più radicale alle società (capitaliste?)consumistiche che si possa concepire, smascherate le ipocrisie del comunismo (che, ovunque si sia realizzato, dall'Urss al Vietnam, dalla Romania alla Cina, era sempre e comunque "sviluppista", ma in una maniera assai più inefficace E TAROCCA che nelle società di mercato).

Semmai mi verrebbe da aggiungere che chi ha pochi mezzi ha sempre fatto di necessità virtù (vi ricordate la canzone? "mo viene Natale, nun teng'e denare, me leggo il giurnale, e vado a cuccà") e che questo "nuovo epicureismo" è difficile da concepire in società che ti sbattono davanti al naso ad ogni piè sospinto la desiderabilità di un'esistenza di agi, privilegi, bellezza e ricchezza. I comportamenti sociali non sono solo una questione di volontà; se l'input che ricevo fin da bambino è che il "massimo" è rappresentato dai big della finanza e dalle star del cinema o dello sport (dai loro vestiti, dai loro corpi continuamente ritoccati, dalle loro ville, dalle loro fidanzate/fidanzati, dal potere che esercitano in virtù del loro denaro) è piuttosto difficile che poi mi orienti alla semplificazione dei bisogni e delle aspirazioni, no? C'è poi un'altra questione, non culturale ma economica. Il fondamento su cui oggi il "sistema" poggia è quello della competizione: competitività è la parola d'ordine, ad ogni livello, dall'Unione europea ai piccoli, piccolissimi territori (e alle loro piccole, talvolta piccolissime aziende). Come conciliare la frugalità con questa spinta continua, questa sollecitazione incessante a innovare, crescere, perfezionare, perfezionarsi? Una volta ho sentito lamentare a un imprenditore: "Le stiamo tendando tutte, cazzo, per portare il ciclo di vita di quel prodotto (pc? telefonino? tostatape? scarpone da sci? occhiale da sole? vedete un po' voi...) sotto ai 12 mesi!".

(foto del sottoscritto: Sri Lanka, raccoglitrici di te)

Discorso di fine (e inizio) anno

"Vi è un'altra mia preoccupazione. non posso nascondervela. Si stanno verificando scandali. Non si verificano questi scandali nella classe lavoratrice propriamente detta. Si stanno verificando in alto questi scandali, tra gente, tra persone che stanno bene economicamente, ma che, si vede, sono insaziabili di danaro, di ricchezza. Scandali che turbano la coscienza di coloro che onestamente lavorano e che onestamente si guadagnano il necessario per vivere. Quindi la legge sia implacabile, inflessibile. contro i protagonisti di questi scandali, che danno un esempio veramente degradante al popolo italiano."
Di Pietro? Beppe Grillo? Qualche feroce "giustizialista"?
No, è Sandro Pertini, in un suo discorso di fine anno di quando era presidente.
(Rubo questa citazione a leonardo, al solito il migliore, anche in questo 1 gennaio 2009).