Non un partito ma un popolo

I colpi di coda del regime si colorano di tinte mistiche. E fosche.

Ieri il documento votato dal partito lo dice esplicitamente, quando spiega che il Pdl non è un partito ma un "popolo", che si riconosce nelle "democrazie degli elettori", e dunque non può contemplare il dissenso.

Così Ezio Mauro oggi su Repubblica.

In questo appello al "popolo" come ad un'entità indivisa, priva di sfumature, di conflitti, di interessi divergenti, riposa il germe di ogni totalitarismo. Dalla società corporativa fascista, cementata dal nazionalismo e dalla retorica imperiale, a quella formalmente egualitaria dei regimi comunisti, affratellata da una falsa mistica proletaria. Passando ovviamente per la sua espressione più terribile, quella fondata sul mito della razza ariana. In questo senso, il partito-popolo è speculare al partito-etnia e al partito confessionale (o partito-setta religiosa). Cosa può esserci al di fuori di esso? Il non-popolo, la non-etnia, la non-religione, dunque qualcosa di intimamente perfido, non omologabile, diabolico, "altro". Il male.
L'ultimo berlusconismo ha introdotto non a caso un elemento di suggestione ulteriore, l'amore. Già, perché come si può essere contrari all'amore? Chi è contrario all'amore è a favore dell'odio. Da qui a chiamare gli oppositori "scarafaggi" il passo è breve. E gli scarafaggi abbiamo visto che fine hanno fatto: nel 1994, in Rwanda.
Ma per fortuna in Italia non ci sono in giro tanti machete. E l'Italia non è il teatro di un conflitto esterno fra grandi potenze.
Fuori dal tunnel del berlusconismo, speriamo di trovare, finalmente, una democrazia compiuta.

Questioni generazionali

Mi sono sempre sentito dalla parte dei giovani, pur credendo poco a queste categorie basate sui fattori generazionali (quando si finisce di essere giovani? Quand'è che termina l'età della "formazione"? Quand'è che si è definitivamente adulti, cioé maturi? E la maturità ha davvero a che fare con l'età, qualsiasi cosa essa sia? Ne parlo anche nel mio "Music box", usando la musica come medium).
Sul piano psicologico, forse non ho mai superato completamente la stagione dell'università, anche se ho iniziato a lavorare, ho fatto carriera, ho avuto dei figli, ho acceso un mutuo... Sul piano fisico...beh, sto dalla parte dei giovani forse perché i mei anni li porto bene (credo...), o almeno mi sento bene.
Poi ieri sera ho visto un film nel quale un dirigente di 51 anni viene all'improvviso scalzato da un 26enne. Prima reazione: vabbé, è un film americano, in Italia non succederebbe mai, in Italia domina la gerontocrazia.
Seconda reazione: sì, ma se succedesse anche qui? Mio padre per lo meno a 50 anni è andato in pensione, per lui non si è posto il problema di convivere a lungo - nel posto di lavoro - con persone giovani, più fresche, più aggiornate, più motivate. Ma per la mia generazione, condannata a lavorare almeno fino a 65 anni, la cosa è un po' diversa.
Così in astratto, direi che la differenza giovani-adulti, persino giovani-vecchi non esiste. Esistono differenze residuali create dal mercato (il giovane E' un'invenzione del mercato, data gli anni 50' del XX secolo, la sua patria sono gli Usa, il giovane come categoria, target, età sospesa, nasce con James Dean e Elvis Presley, prima si era ragazzi fino al militare e subito dopo adulti, pronti per il matrimonio e la fabbrica). Sul piano dei comportamenti oggi ci sono 50enni/60enni indistinguibili o quasi dai loro figli, e a me non pare una cosa tremenda. Così in astratto, il conflitto generazionale, quello che impazzava nel '68, quello che spingeva tanti ragazzi a sognare di "scappare di casa", non ha più ragione di esistere (prova ne è che tanti "giovani" stanno in famiglia fino a 30 e più anni senza grossi problemi).
Però, chi dice che il mercato del lavoro, la crisi irreversibile del sistema pensionistico ecc. non finiranno con il farlo riesplodere, questo conflitto, in altre forme? Ovvero non per le questioni morali/estetiche/culturali del passato (quanto star fuori la sera, la verginità, i capelli lunghi, la musica, le canne ecc.) ma per le concretissime questioni poste dall'economia?
Il film di ieri si concludeva in maniera consolatoria per i "vecchi": il dirigente (che ha appena avuto una nuova figlia, e deve anche mandare la prima in una costosa università, e questo è esemplificativo: a 50 anni ci si arrabatta ancora con pannolini e orari che impazziscono) viene reintegrato nel suo ruolo, mentre il giovane rampante, licenziato di brutto, va a correre sulla spiaggia ponendosi i soliti quesiti esistenziali (chi sono? cosa voglio nella vita?).
La realtà forse è un po' diversa: è la realtà di tante persone che a un certo punto della loro vita sono stufe di lavorare (anche perchè vengono progressivamente messe ai margini dell'organizzazione aziendale, non tutti sono professori universitari o manager alla Vincenzo Cipolletta) ma devono continuare a scaldare la sedia perché l'età della pensione si è inesorabilmente allontanata. Tutto questo mentre premono alle porte giovani reduci da master e altre esperienze amene in giro per il mondo, costretti ad adattarsi a lavori precari o sottopagati e a volte neanche tanto eccitanti.

Espressioni di un viaggio africano

L'Africa ha enormi problemi ma mi sento infastidito quando di essa viene rappresentata solo la miseria. Io capisco il mal d'Africa. Anche quando a produrlo è stato il colonialismo. E' un continente magnifico...






Foto: Marco Pontoni (Kenya, Etiopia)

Kundera, ovvero...che razza di libri ci succhiavamo

Sto rileggendo per la...decima volta? "L'insostenibile leggerezza dell'essere" di Milan Kundera. Negli anni '80 fu un caso letterario (complice anche la trasmissione tv "Quelli della notte"). Un libro vendutissimo.
Riprendendolo in mano l'altro giorno ho messo a fuoco il fatto che questo romanzo si apre con due pagine dedicate all'idea dell'eterno ritorno in Nietzsche. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se oggi qualcuno pubblicherebbe un libro così, sperando magari anche di farne un best seller. Voglio dire: è scritto straordinariamente bene, ma oggi, quale tipo di lettore incontrerebbe un romanzo che si apre con una dissertazione su Nietzsche e Parmenide? Quale potrebbe essere il suo target, per dirla prosaicamente? Non voglio dire che oggi il lettore sia più stupido o pigro, però...
Un'altra cosa mi ha colpito: all'inizio della seconda parte, quella dedicata al personaggio di Teresa, l'autore dichiara che uno scrittore non deve avere la pretesa di spacciare i personaggi di un suo romanzo come persone reali. "Non sono certo stati partoriti dal grembo di una donna", ecc.
Questa posizione verrà estremizzata ne "L'immortalità", dove il gioco si farà ancora più scoperto (senza tuttavia diventare pirandelliano).
Di nuovo, non ho potuto fare a meno di stupirmi del coraggio dell'autore - del genio dell'autore - che si fa beffe di una delle regole fondamentali della "fiction". E non ho potuto non pensare di nuovo all'assurdità di un'affermazione che ho letto recentemente, in bocca a non so quale intellettuale, per cui il romanzo starebbe morendo in quanto i lettori oggi hanno fame di vite reali (una volta un editore mi respinse una proposta con la stessa motivazione: "Oggi 'tirano' le biografie romanzate, non c'è più spazio per l'invenzione pura...").
Che sciocchezza. Come non vedere che i personaggi delle commedie umane di Kundera dicono, della vita reale che conduciamo ogni giorno, assai più di tanti "reality"? Come non capire che persino l'arte più astratta - persino un taglio su una tela - può dirci, della nostra realtà (del nostro svegliarci al mattino, del nostro andare a dormire la sera, dei nostri amori, dei nostri odi, dei nostri tostapane, dei nostri smarrimenti) proprio le cose che abbiamo bisogno di sentirci dire? E soprattutto: la realtà non è forse la sua interpretazione/rappresentazione/narrazione?

Non eroi



Ieri su "Repubblica" c'era un pezzo di Pietro Citati sui medici del CUAMM, che operano in Africa. Casualmente, ieri l'altro ero in un ospedale del CUAMM, in Etiopia. Il pezzo di Citati diceva una cosa abbastanza condivisibile, cioé che mentre l'Italia ci fa vergognare di essere italiani, specie quando andiamo all'estero (e ci scambiano per berluschini o per leghisti), realtà come quella del CUAMM ci riconciliano un po' con il nostro paese. Il pezzo di Citati era infiorettato di citazioni bibliche: io che credente non sono (anche se ho visitato missioni in mezzo mondo), non me la sento di giustificare l'impegno nel sociale con argomentazioni spirituali o teologiche. Penso che per comportarsi bene, generosamente, con il proprio prossimo, non siano strettamente necessarie una fede e una religione (anche se probabilmente queste cose aiutano, gli uomini hanno bisogno di motivazioni superiori per agire rettamente).
Semmai avrei da aggiungere una cosa: le persone che ho incontrato in Africa (e che ho incontrato in passato in circostanze analoghe) non sono propriamente degli eroi. Fanno delle cose eroiche, questo sì: ma non sono eroi/eroine o santi/e. Sono esseri umani, tutti, religiosi e laici. Con le loro passioni e le loro debolezze, con il loro più o meno pronunciato sense of humor, con i loro ego più o meno sovradimensionati.
In un certo senso, li sento anche più vicini. Non c'è bisogno di nuovi eroi. Né di nuovi santi. Non c'è bisogno di unti dal Signore né di partiti dell'amore. Le persone "grandi" a volte sono tremendamente normali, persino piccine. La loro umanità, in ciò, ne esce rafforzata. E così la nostra.