Lou Reed a Gardone


Torna in Europa Lou Reed, per un tour che, a luglio, toccherà numerose città italiane.
A quasi 70 anni - è nato nel 1942 a Long Island, da una famiglia della piccola borghesia ebraica - il cantante non smette di stupire. E' di questi giorni la notizia di un nuovo progetto discografico nientemeno che con i Metallica, che è anche la colonna sonora del nuovo spettacolo di Bob Wilson, "Lulu", ispirato al romanzo "Il vaso di Pandora" di Frank Wedekind, che ci riconduce immediatamente all'Europa dei primi del '900, ad una celebre e sinistra incarnazione dell'archetipo della femme fatale. Nel frattempo, si appresta a suonare nuovamente dal vivo con una band di ben 8 elementi, che lo porterà, il 22 luglio, all'anfiteatro del Vittoriale, a Gardone riviera, in quella che fu la casa di D'Annunzio (dove già aveva suonato nel 2003). Un'occasione unica per vedere in azione quello che viene considerato unanimemente uno dei musicisti più influenti della storia del rock, cosa ampiamente dimostrata dalle collaborazioni a cui di frequente si presta, negli ultimi anni, con gruppi anagraficamente molto più giovani, dai Killers ai Gorillaz (senza dimenticare Antony, che ha contribuito non poco a lanciare). Non solo: in questo "The sweet tooth tour" Lou Reed, accogliendo la richiesta degli organizzatori, dovrebbe recuperare sonorità e atmosfere del periodo rock-jazz di fine anni '70, con brani che non esegue da anni dal vivo come The bells, Leave me alone (che ha suonato recentemente con Yoko Ono), Charley's Girl.
Lou Reed non smette di stupire, dicevamo. E mentre quest'anno fra i titoli dei temi per la maturità è comparso persino Andy Warhol, con la sua celebre, profetica frase "tutti in futuro portanno essere famosi per 15 minuti" (e il futuro è arrivato, è il Grande Fratello, è youtube) non si può non andare con la mente alla Factory di Warhol, appunto, la fucina della pop art dove i Velvet Undeground presero corpo, alla metà degli anni '60. A guidarli, il duo Lou Reed-John Cale: da un lato un rocker fuoriuscito dalla Syracuse university e dai corsi tenuti dallo scrittor e e poeta Delmore Schwarz, già sottoposto dalla famiglia ad una cura a base di elettroshock per curare le sue "stranezze" (all'epoca si usava così), affascinato da tutto ciò che, agli occhi della società dell'epoca, appariva come la quintessenza del male, droghe e deviazioni sessuali comprese; dall'altro un musicista gallese di estrazione classico/contemporanea, trapiantato negli Usa assieme alla sua viola elettrica per suonare con l'orchestra di La Monte Young. Andy Warhol comprese subito il potenziale artistico del gruppo al quale aveva prestato una parte del suo loft come sala-prove, molto al di sopra di quello di una qualunque rock band; attorno a canzoni come Heroin, Venus in furs (ispirata ovviamente al romanzo di Sacher-Masoch), All tomorrow's parties (cantata da Nico, l'algida cantante tedesca che già aveva recitato ne "La dolce vita" di Fellini), imbastì qualcosa di mai visto fino a quel momento su un palco, l' "Exploding plastic inevitable show", primo esempio di spettacolo totale dove la musica si mescolava ai giochi di luce, alle proiezioni, alle performance ideate dagli altri personaggi del "circo" della Factory, condite di fruste e cuoio. Troppo avanti, per l'epoca, troppo trasgressivo, troppo anomalo musicalmente, troppo lontano dall'ottimismo hippy che spirava dalla West Coast, dal "pace, amore, musica" di Woodstock. Dopo quattro album, i Velvet, senza clamore - e da tempo orfani sia di Cale che di Nico - si sciolsero. Anche la carriera di Lou Reed sembrava finita; ma ripartì invece alla grande, anzi, esplose, grazie all'inaspettata sponsorizzazione di David Bowie, che produsse, a Londra, in pieno periodo glam-rock, il secondo album solista del newyorkese, quel Transformer che contiene alcuni dei suoi hit più celebri, fra cui Walk on the wild side, omaggio notturno, di fascino struggente, ai personaggi della Factory, in particolare ai suoi travestiti. Da allora è stata una carriera di alti e bassi, ma con pochi, pochissimi momenti davvero inutili, e tante sorprese, dal concept Berlin, una storia di amore e morte nella città del Muro che non sfigurerebbe accanto ad opere letterarie di autori molto amati da Lou come Hubert Selby jr. o Edgar Allan Poe, allo sperimentalismo di Metal machine music, quattro facciate di feedback chitarristici che vennero ritirate dal mercato dalla Rca dopo poche settimane, talmente lontane erano da tutto ciò che si può etichettare come "commerciale" (gli acquirenti riportavano il disco nei negozi dicendo che era difettato). Passando naturalmente per l'elettricità proto-punk di Rock 'n' Roll animal e l'elegia di Songs for Drella, commosso ma non retorico omaggio post-mortem a, di nuovo, Andy Warhol.
A quasi 70 anni Lou Reed, sposato da tempo con un'altra grande artista, Laurie Anderson, è tutt'altro che defunto, nonostante le sue lunghe frequentazioni del "lato selvaggio" dell'esistenza. Vestito come sempre di nero, il volto devastato dalle rughe, la chitarra in braccio, continua a fare - come peraltro ha sempre fatto nel corso della sua carriera - ciò che più gli piace. Lontano dai trend e dalle classifiche ma ancora al centro della scena artistica, ancora vitale, ancora pronto a stupire, ora con la musica, ora con le sue altre passioni, come la fotografia e recentemente, il cinema (il documentario Red Shirley, nel quale racconta l'incredibile vita della cugina Shirley Novick, nata in Polonia, emigrata a New York negli anni ’30, scomparsa alle veneranda età di 102 anni).

Questa la formazione ufficiale del tour (ideato e organizzato, per la parte italiana, da due appassionati fan di Cremona, titolari di un'azienda dolciaria):
Lou Reed – Voce, chitarra
Sarth Calhoun – processing, fingerboard continuum
Kevin Hearn - Tastiere
Ulrich Kreiger – Sassofono
Tony Smith - Batteria
Rob Wasserman – Basso
a cui si sono aggiunti all'ultimo momento Toni Diodore alla chitarra e il chitarrista/violinista di origini armene Aram Bajakian.

Romeo had Jiuliette



"Between Thought and Expression Lies a Lifetime"

But not for us.

Lungomare


Colombo, Sri Lanka. Lungomare di fronte al Galle Face Hotel.

Poi ad un certo punto

Poi ad un certo punto sente un rumore, da fuori, non un rumore, una musica, sgangherata, una musica di strumenti a fiato, ottoni, si alza, l'abbandona un istante, le molle del letto cigolano, da dove verrà? Deve saperlo. Non dal cortile interno, troppo stretto, dalla strada, sì, va alla finestra del soggiorno, si china per guardare fuori perché la saracinesca è quasi del tutto abbassata e non vuole alzarla, guarda attraverso lo stretto spazio orizzontale, poco più di una fessura, una striscia di luce, e quattro piani più sotto, sul marciapiede, sta passando un'orchestrina zingara, sono in quattro, ne conta quattro, una tromba, un trombone, un sax, il quarto ha un tamburo a tracolla, tornano da una festa, probabilmente, o ci vanno, in fondo sono solo le 9, le 9 di un venerdì sera, stanno andando a suonare da qualche parte nel quartiere con camicie bianche e pantaloni neri, e cappelli, e sono già allegri, carburati, si vede, gli sembra di vederlo, nel loro incarnato, rubizzo, nei sorrisi sghembi, e poi ecco che quello con la tromba riporta il suo strumento alle labbra, lascia sfiatare una sequenza di note, passando davanti al cancello dell'autorimessa, gli altri ridono, quello col tamburo a tracolla sferra una gran mazzata alla pelle, in un attimo sono fuori dalla sua visuale, sono all'incrocio, sono già andati.
Torna in camera, nella luce incerta, l'ora in cui il giorno cede il passo alla notte, l'ora dei nictalopi.
"Chi era?"
"Sembrava un video di Tom Waits. Ho l'impressione che nessuno abbia fretta di andare a dormire, stasera."
"Neanche noi."

Me as Banquo


Macbeth (teatro Spazio 14, Trento, 29 maggio 2011).

Io in Banquo, predestinato ai coltelli.

Talvolta, per condurci alla rovina, le creature delle tenebre ci dicono qualche mezza verità. Ci lusingano con minuzie oneste, per poi tradirci sulle più gravi cose del futuro.

Vaclav Havel e Lou Reed



E visto che oggi a Trento è stata la giornata di Vaclav Havel, a cui è stato conferito il premio Degasperi (anche se non ha potuto ritirarlo di persona, e a farne le veci è venuta la moglie, l'attrice DAGMAR HAVLOVA), ecco qui un piccolo cammeo sui Velvet Underground a Praga dopo la caduta del regime socialista, quando Havel era diventato presidente.
Lou Reed era affascinato dal fatto che un letterato, un drammaturgo, insomma un artista, avesse assunto una così grande responsabilità politica. Con il senno di poi si può dire che aveva perfettamente ragione. Che differenza fra ciò che è successo in Cecoslovacchia e ciò che è successo nella ex-Yugoslavia: in Cecoslovacchia il paese si è diviso, per iniziativa della Slovacchia, pacificamente, Praga non si è nemmeno sognata di usare la forza per impedirlo, ha solo detto ai secessionisti di pensarci bene, in Yugoslavia guerre a catena e 100.000 morti, e a tutt'oggi una situazione di stallo drammatica quantomeno in Bosnia Erzegovina. Non dico sia stato tutto merito di Havel, ma certamente Havel ha contribuito.
Sì, gli scrittori possono governare. Gli artisti possono governare (e per favore, non parlatemi di Ronald Reagan adesso!!!).

BAUMAN: SCHIAVI (CONSENZIENTI) DEL CONSUMO

Devo dire la verità: Bauman non mi ha mai convinto. Sarà che conosco i francofortesi, il pensiero di Langer. Le cose che dice - che scrive - mi sono sempre sembrate un po' scontate, anche se mi rendo conto che per un diciottenne di oggi la critica al consumismo possa sembrare una novità. Insomma, Bauman mi è sempre parso un tardo sessantottino, un tardo neomarxista; non c'è niente di male in questo a patto di non pretendere che ciò sia l'avanguardia del pensiero sociologico contemporaneo.
Però ieri sera alla chiusura del festival dell'Economia di Trento mi sono "riconciliato" con lui. Perché ho capito che in fondo, non va considerato con il metro di giudizio che riserviamo agli accademici. Insomma, forse Bauman non è un grandissimo sociologo e le cose che sostiene non sono particolarmente originali. Però parla come un profeta. E il compito dei profeti è scuotere le coscienze.
Questo ciò che ha raccontato al pubblico del centro Santa Chiara, più o meno. Niente che non sapessi. Niente che non condivida. Rimane semmai l'amarezza di un profeta che parla ad una platea che non lo ascolta, non può ascoltarlo. Non possono farlo i politici, gli economisti e i manager perché le sue parole portano dritte alla decrescita, al desviluppo, ad una società "più lenta, più dolce, più profonda" (come diceva Langer), e la classe dirigente non vuole nulla del genere. Probabilmente nemmeno la stragrande maggioranza degli elettori, più eccitati dall'ultimo modello di telefonino o dall'idea del "no limits". Chi potrebbe vivere senza pc o cellulare? Chi potrebbe tenersi lo stesso elettrodomestico per 20 o 30 anni, come facevano i miei genitori? Chi, soprattutto, vorrebbe rinunciare alla prospettiva di vivere almeno fino a 80 anni, quando non molto tempo fa a 50 si era già in pensione e a 60 dei grandi vecchi?

"Il tema di questo festival, i confini della libertà economica, è un tema fondamentale, perché oggi cominciamo a capire che anziché ampliare ed estendere le nostre opzioni il range di scelte a disposizione si restringe. Nei giornali sono apparse recentemente delle notizie sul picco della produzione mondiale di petrolio, principale fonte di energia odierna, che sarebbe stato già raggiunto, nel 2006. Da allora c'è solo il declino. Abbiamo dei mercati basati sulla competizione, che presuppongono la disponibilità illimitata di energia, pensiamo a realtà come India, Cina, Sud Africa, che in passato consumavano una quota di energia molto minore, per esempio perché in essi non era diffuso il traffico privato. L'altra notizia è che entro il 2020 i prezzi degli alimenti raddoppieranno. Ci sono già delle rivolte basate sulla scarsità di cibo, nel mondo, cose che pensavamo appartenessero al passato. Il terzo elemento è l'aumento della disuguaglianza a livello globale, per certi versi incredibile, perché va nella direzione opposta rispetto a quella pensata dai pionieri della libertà e dell'Illuminismo, come Cartesio, Bacon, Hegel. Il paese più ricco, oggi, il Qatar, ha uno standard 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. Il 20% più ricco dell'umanità controlla il 75% della ricchezza, il 20% più povero il 2%. Fino a 30-40 anni fa il trend era diverso, il divario fra i paesi sembrava destinato a colmarsi. Come mai è successo questo? Ci sono due fattori fondamentali, e sono più culturali e sociali che economici. Il primo è che vogliamo godere di una vita ricca, confortevole, il che ci ha orientati ad assumere come principale indicatore l'acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano alla felicità portino ai negozi. Ciò sottopone il sistema economico, e più in generale il nostro pianeta, ad una pressione enorme. Ed è disastroso per le nuove generazioni; è evidente che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, sulle spalle dei nostri figli. Poi c'è la questione della risoluzione dei conflitti. Nel corso della modernità abbiamo sviluppato la capacità di risolvere i conflitti sociali, anche quelli legati alla diseguale distribuzione dei beni, aumentando la produzione, il pil. Quando il pil cala non è che viene messa a rischio la sopravvivenza alimentare, ma nonostante ciò si sviluppa il panico, perché la gestione dei conflitti è tutta basata sull'aumento della produzione e del consumo. Conosciamo la metafora della pagnotta: possiamo discutere come distribuirla, oppure produrne anche un'altra. Ma le risorse per produrre tutte le pagnotte che desidereremmo non sono infinite. Ciò pone un grande interrogativo sulla crescita economica. Possiamo trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ciò è necessario se non vogliamo distruggere il nostro habitat e generare fenomeni catastrofici come le guerre. I livelli attuali di consumo sono già insostenibili dal punto di vista ambientale ed anche economico. L'idea della prosperità al di fuori delle trappole del consumo infinito viene considerata un'idea per pazzi o per rivoluzionari.
Ci sono delle alternative: le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. Anche l'antropologia ci ha mostrato che in certe zone - remote - del pianeta la formula di Adam Smith non funziona: si tratta della formula ben nota per la quale il fatto che noi troviamo il pane in panificio tutte le mattine è un frutto dell'avidità del panettiere. Invece a volte le persone sono spinte a produrre e a condividere ciò che producono da motivi diversi rispetto all'avidità. Le loro attività non consumano molta energia e non producono rifiuti: la ricompensa dei 'produttori' è il rispetto e l'affetto della comunità. Gli stili di vita che stanno dietro a questi comportamenti producono felicità e soddisfazione, ma non sono particolarmente favorevoli alla crescita della produzione. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni. Assistiamo ad un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità. I mercati sono abituati ad orientare i bisogni umani, bisogni che in passato non erano soddisfatti dal mercato. Questo è ciò che io indico con l'espressione 'commercializzazione della moralità'.
Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari. Credo che tutti noi qui in sala ci sentiamo in colpa perché non riusciamo a trascorrere abbastanza tempo con i nostri cari. 20 anni fa il 60% delle famiglie americane si ritrovava attorno allo stesso tavolo per cenare. 20 anni dopo solo il 20%. Le persone sono più occupate con il loro cellulare, il loro ipad e così via. La nostra vita quotidiana è profondamente cambiata, a causa anche delle tecnologie, che hanno sicuramente prodotto delle cose positive, ma hanno anche creato dei danni collaterali. Se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi. Il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia è sfumato. Siamo sempre al lavoro, abbiamo l'ufficio sempre in tasca, non abbiamo scuse. Dobbiamo lavorare a tempo pieno. E più si sale nella scala gerarchica meno tempo per sé si ha. Si è sempre in servizio.
Ovviamente i mercati e il consumismo non possono riparare questa situazione; possono però aiutarci a mitigare la nostra cattiva coscienza, i nostri sensi di colpa per la mancanza di tempo e attenzione che dedichiamo a familiari e amici, e lo fanno spingendoci verso l'acquisto, lo shopping, il mercato. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità 'primarie'. Ad esempio a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perché esso è un sintomo, ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani. Improvvisamente ci sono persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici di FB.
Fino a quando il nostro senso morale verrà mercificato, l'economia crescerà perché messa in moto dai bisogni umani e dai desideri che è chiamata a soddisfare, bisogni e desideri apparentemente 'buoni', come dimostrare l'amore per gli altri. I grandi economisti del passato sostenevano che i bisogni sono stabili, fissati una volta per tutte, e che una volta soddisfatti tali bisogni potremo fermarci e godere del lavoro fatto. C'era la convinzione che alla fine del percorso avviato con l'inizio della modernizzazione si avrebbe avuto un'economia stabile, in perfetto equilibrio. Successivamente si è presa una strada diversa. Si è inventato il cliente. Si è capito che i beni non hanno solo un valore d'uso, ma anche un valore simbolico, sono degli status symbol. Non si acquistava più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si 'desidera'. L'obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti. Così, il limite è stato superato mercificando la moralità: non ci sono limiti all'amore, non ci sono limiti all'affetto che vogliamo dimostrare agli altri. Responsabilità incondizionata, condita da incertezze, sensi di colpa e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l'impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione."

Per queste profetiche parole, che volano nel vento, grazie Zygmunt Bauman.

Céline lo aveva detto bene


La prima suggestione colta al volo da questo Festival dell'Economia di Trento, sesta edizione, dedicato al tema dei confini della libertà economica.

"E' difficile dire quali siano i confini da porre alla libertà economica, ma un confine, in economia, è sicuramente tracciato, ed è quello fra chi sa e chi non sa."
Questo tema, il tema della conoscenza, dell'informazione e della capacità di padroneggiarla, l'ho sentito ritornare spesso in questi mesi. La crisi economico-finanziaria (ma anche lo scandalo Parmalat e altri eventi del genere) ha evidenziato nella maniera più brutale che il grande pubblico - dei consumatori, dei risparmiatori, dei clienti delle banche, di coloro che accendono un mutuo o chiedono un prestito - non sa abbastanza, o maneggia informazioni taroccate. In questo senso, i mercati (specie quelli finanziari) sono assolutamente antidemocratici: il gioco è viziato in partenza, da un lato i pochi che davvero "sanno" (e che hanno la capacità di manipolare le informazioni) e dall'altro i tanti che credono di sapere, e che sono più esposti alle crisi, ai tracolli, ai fallimenti, alle bancherotte. Qualcuno ricorda la faccenda dei bond argentini? Certo, a volte le vittime sono vittime consenzienti. Mosse dagli stessi appetiti dei grandi capitalisti, solo più sprovvedute.

Questo tema del sapere, legato all'economia, mi ha richiamato alla mente un brano di quel romanzo fondamentale del '900 che è il "Viaggio al termine della notte" di Céline. Il brano è ambientato in una colonia. Da un lato il commerciante di caucciù; dall'altro il raccoglitore africano, che ignora completamente il valore della balla di caucciù che va a barattare all'emporio. Ecco qui. E' uno dei passaggi più spietati (e illuminanti) della letteratura legata al colonialismo, ma in termini generali anche all'economia di mercato nel suo complesso.


Il collega del Corocoro comprava caucciù fresco, greggio, che gli portavano dalla savana, in sacchi, in balle umide.
Mentre eravamo là, mai stanchi di sentirlo, una famiglia di raccoglitori, timida, viene a piantarsi sulla soglia della sua porta.
Il padre davanti agli altri, grinzoso, cinto da un piccolo perizoma arancione, il lungo machete appeso al braccio.
Non osava entrare il selvaggio.
Eppure uno dei commessi lo incitava: « Vieni musulmano! Vieni a vedere qui! Mica li mangiamo i selvaggi! » 'Sto linguaggio finì per deciderli.
Penetrarono nella baita bollente in fondo alla quale strepitava il nostro uomo del Corocoro.
Il nero non aveva ancora, pareva, visto mai un negozio e bianchi forse nemmeno.
Una delle sue donne lo seguiva, occhi bassi, portando in cima alla testa, in equilibrio, il grosso paniere pieno di caucciù greggio.
D'autorità i commessi del reclutamento s'impadronirono della cesta per pesare il contenuto sulla bilancia.
Il selvaggio non capiva il trucco della bilancia più del resto.
La donna non osava sempre alzare la testa.
Gli altri negri della famiglia attendevano fuori, gli occhi bene spalancati.Li fecero entrare anche loro, bambini compresi e tutto, perché non si perdessero niente dello spettacolo.
Era la prima volta che venivano così tutti insieme dalla foresta, verso i bianchi in città.
Avevano dovuto mettercisi da un bel po' tutti quanti per raccogliere tutto quel caucciù lì.
Allora per forza il risultato interessava a tutti.
E' lungo da far gocciolare il caucciù nelle piccole ciotole che s'attaccano ai tronchi degli alberi.
Spesso, non riesci a riempirne un bicchierino in due mesi.
Fatta la pesa, il nostro grattatore trascinò il padre,sbalordito, dietro il banco e con una matita gli fece i conti eppoi gli chiuse nell'incavo della mano qualche moneta in argento.
E poi: « Vattene! gli ha detto a 'sto modo.
E' quel che ti viene!... » Tutti gli amichetti bianchi si torcevano dallo scherzo, tanto lui aveva condotto bene il suo business.
Il negro restava piantato mogio davanti al banco con la piccola mutanda arancione intorno al sesso.
«Te, non sapere cosa sono soldi? Selvaggio allora?» l'ha apostrofato per svegliarlo uno dei commessi abituato a sbrogliarsela e ben allenato senza dubbio a queste transazioni perentorie.
«Tu non parlare fransé di'? Tu essere ancora gorilla eh?...
Tu non parlare insomma eh? KusKus? Mabillia? Tu coglione? Bushman! Coglione completo! » Ma restava davanti a noi il selvaggio la mano rinhiusa sui suoi pezzi.
Sarebbe scappato se avesse avuto il coraggio, ma non osava.
«Tu comperato allora cosa con tua grana?» intervenne opportunamente il grattatore.
«Ho mai visto uno stronzo come lui a ogni modo da un sacco di tempo», volle specificare.
«Deve venire da lontano quello! Cos'è che vuoi? Dammi la tua grana! » S'è ripreso i soldi d'autorità e al posto delle monete gli ha stropicciato nell'incavo della mano un grande fazzoletto verdissimo che era andato abilmente a prelevare in un anfratto del banco.
Il padre negro esitava ad andarsene col fazzoletto.
Il grattatore fece allora anche di meglio.
Conosceva davvero tutti i trucchi del commercio imperialista.
Agitando davanti agli occhi di uno dei piccoli neri bambini quel gran pezzo di cotonina verde: « Lo trovi mica bello di' gorbetto? Ne hai visti molti così di' piccolina bella, dimmi carognetta, dimmi salsicciotto, di fazzoletti? » E glielo ha annodato al collo d'autorità, tanto per vestirla.
La famiglia selvaggia contemplava adesso il piccolo adorno di questa gran cosa di cotonina verde...
C'era più niente da fare perché il fazzoletto era già entrato in famiglia.
Non restava che accettare, prendere e andare.
Si misero dunque tutti a rinculare lentamente, superarono la porta, e nel momento in cui il padre si girava, da ultimo, per dire qualcosa, il commesso più scaltrito che aveva le scarpe lo stimolò, il padre, con un gran calcio in pieno culo.
Tutta la piccola tribù, raggruppata, silenziosa, dall'altro lato di avenue Faidherbe, sotto le magnolie, ci guardava finire l'aperitivo.
Si sarebbe detto che cercavano di capire quel che gli era appena capitato.

(grazie a http://www.winniekrapp.it/testi/)


Ma al di là del colonialismo tutto questo mi ha fatto venire in mente l'esercito dei giovani lavoratori dell'informazione sottopagati, precari, collaboratori o contrattisti, usciti di fresco dalle università e dalle scuole di giornalismo, che si accontentano di lavorare per uno stage, un viaggetto all'estero, il proprio nome in coda a un video. Tutta quella conoscenza di cui sono portatori, tutte le nozioni imparate, tutto quel sapere di lingue straniere, informatica, teorie disparate, non è un po' come il caucciù di Céline?

Inutilità DEL MALE

Banalità del male è un'espressione resa popolare da Hannah Arendt nel suo libro sul processo ad Eichmann del 1961, a Gerusalemme. E' un'espressione "forte", che toglie ai grandi criminali quell'aura epica o tragica conferita loro ad esempio dalla letteratura (pensiamo a certi personaggi shakespeariani, come Macbeth). Ciò che vide la Arendt era non un "gigante" della malvagità ma un uomo grigio, che si giustificava come il più scontato dei burocrati: "Ho solo fatto il mio dovere" (c'è un film sulla conferenza di Wannsee, dove fu pianificata, a tavolino, fra una vivanda e l'altra, la "soluzione finale", che fotografa esattamente questa allucinata concezione del dovere coltivata dai vertici nazisti).

Ieri in tv ho visto l'arrivo di Ratko Mladic, il "boia di Srebrenica", in Olanda, dove sarà processato dal Tribunale dell'Onu. Io non so se Mladic sia un altro esempio di banalità del male. Ma non posso fare a meno di chiedermi, guardando le immagini di quest'uomo che ha già avuto (se è vero) 2 ictus, questo vecchio sfigato che finirà i suoi giorni in prigione, a che cosa gli sia servito l'essere stato una delle icone del male dell'ultimo scorcio del XX secolo, il "secolo breve", così prodigo di mostri. E non ho potuto fare a meno di pensare ad altri uomini malvagi, ai mafiosi che vivono come topi in buchi segreti nelle campagne, decidendo della vita e della morte della gente, a Sharon che assistette impassibile al massacro di Sabra e Chatila e adesso vegeta in coma in un ospedale israeliano, ai registi del genocidio cambogiano, a tutti gli sterminatori che hanno nutrito la loro ambizione (o i loro distorti ideali) con il sangue delle vittime. A cosa è servito, e che cosa racconteranno, alla signora con la falce, quando verrà la loro ora finale? Forse bisognerebbe dire che il male non solo è banale - e spesso lo è - ma è anche inutile. Forse in questo modo perderebbe in suo appeal, forse risulterebbe chiaro che il male è sovente l'altra faccia delle smodate ambizioni, anch'esso un sottoprodotto della corsa dei topi a cui ci costringe la Storia con i suoi sinistri imperativi (la civilizzazione, la difesa della razza, la riconquista della terra santa, la vendetta, la realizzazione del paradiso in terra, persino la crescita, lo sviluppo...)
Roberta dice: ammiro le persone semplici, che vivono la loro vita nascosta in cima ad una valle e lo fanno con gioia, senza desiderare null'altro. Sì, forse sono loro il sale della terra.

Sono stato a Srebrenica due anni fa. Era un agosto infuocato. Quella sera ho dormito a Bratucan, una cittadina a pochi chilometri dall'enclave, dove è stata aperta una cooperativa femminile - donne di ogni "etnia" e religione - che produce marmellate (e anche una cosa così "piccola" può servire a restituire normalità a delle terre zuppe di lacrime). Da Bratunac Mladic pianificò la pulizia etnica di Srebrenica, gli uomini uccisi, le donne, con i bambini, scacciate dalle loro case (molte dopo essere state violentate). Srebrenica era teoricamente un'area posta sotto la protezione dell'Onu: lì si erano rifugiati molti dei musulmani della regione, per sfuggire alle truppe serbo-bosniache. I caschi blu olandesi non fecero nulla per fermare l'eccidio, vennero a loro volta presi in ostaggio dagli uomini di Mladic. Dopo Srebrenica (e dopo Sarajevo) la mia generazione non ha più avuto il diritto di schierarsi per il pacifismo integrale. Dopo quegli eventi, è risultato chiaro a tutti (ad esempio ad Alexander Langer, pacifista al di sopra di ogni sospetto) che a volte l'uso della forza è necessario. Ma non dovrei citare solo la Bosnia: dovrei citare anche il Rwanda, perché anche lì il mondo rimase impassibile a guardare (e i morti furono 800.000).
Era notte, quando siamo entrati in paese, dopo avere passato il confine con la Serbia. L'albergo solo alcune stanze anonime in una palazzina. Prima di coricarmi ho fatto un giro per il "centro", un unico viale con due bar che si fronteggiavano; da uno di questi fuoriusciva rumoroso metal, l'atmosfera era sinistra, alcolica. Eppure, quando mi sono sdraiato sul letto - che forse prima di me aveva ospitato gli scherani responsabili del massacro di oltre 8000 musulmani in quell'estate del 1995 - mi sentivo, per qualche strana ragione, felice. Forse perché alla fine, quando si visitano luoghi del genere, si ha la percezione che la vita è più forte, che la vita ha questa miracolosa capacità di rigenerazione. Forse semplicemente perchè pensavo fosse giusto essere lì, anche se con così tanto ritardo.
Mi sono messo le cuffiette dell'ipod, ho ascoltato i Rima Rima (non proprio una musica che concilia il sonno). Non c'erano fantasmi, in quella stanza. Non c'erano (più) presenze malvage.

A Srebrenica (2008)