Junior dad

Mi chiedevo come sarebbero stati i miei artisti preferiti "da vecchi". A 15 anni l'idea di vecchio è un po' vaga: qualcosa che ha a che fare con i tuoi genitori o i tuoi parenti, probabilmente, o con una generica idea di maturità, decoro, prestanza fisica ridotta. Il concetto applicato al rock, poi, sembrava un po' incongruo. Certo, Lou Reed aveva molti più anni di me, quando ho cominciato ad ascoltarlo, navigava verso i 40. Ma non era oltre quella soglia. Non ancora. Non lo era nessuno.
Dunque da un lato c'erano le band quasi nostre coetanee, come i Cure o i Simple Minds (che sembravano formate da persone giovani sì, ma più grandi di noi, non boy band, insomma).
Dall'altro c'era la musica dei giganti, quelli come Bowie, Lou, i Rolling Stones, che erano non anziani ma comunque già in giro da un bel po' di tempo. L'interrogativo sulla vecchiaia si poneva per loro: come sarebbero stati, da vecchi? Difficile immaginarlo. Un po' perché si aveva alle spalle una serie di morti illustri (Jim, Janis, Jimi ecc.), l'idea del grande artista rock era ancora, spesso, associata alla morte precoce. Un po' perché il rock, comunque sia, non poteva non accompagnarsi ad una certa capacità di muoversi, di fare scena. Valeva anche per Lou Reed, posto che l'uomo, quando aveva temporaneamente abbandonato la chitarra per stare sul palco come una vera rock star, accompagnando le sue canzoni con le movenze e la gestualità della rock star, era parso più una stranita bambola proto-punk strafatta di anfetamine che un danzerino provetto.
C'era però l'esempio del blues, ecco. I cantanti blues avevano suonato fino alla fine, fin quando erano proprio decrepiti. Ma il blues, pur essendo strettamente imparentato col rock, ci sembrava comunque un'altra cosa. Il blues lo si poteva suonare anche stando seduti. Ed infatti così avevano fatto i vari John Lee Hooker o B.B. King quando non erano più riusciti a stare in piedi con una chitarra a tracolla per le due ore canoniche di uno show. Ma si potevano immaginare un Lou Reed, un Mick Jagger seduti a cantare le loro canzoni? Mmmh...

Ora Lou Reed ha 70 anni. Suona ancora in piedi, ultimamente con i Metallica. Il cantato è spesso più simile a un recitato, anche nei brani più tirati. Corde vocali irrigidite.
Lou Reed suona e canta ad esempio "Junior dad", una canzone dell'ultimo, contestato album, "Lulu", ispirato ai libri di Frank Wedekind.
La canzone in effetti è l'unica che non c'entra niente con il resto della storia, non ha a che fare con il personaggio letterario. Chiude l'album, ma non parla della tragica, dissoluta (ma anche pura, nel suo essere pianta carnivora) femme fatale che sulla carta (e così sul disco) finisce scannata da Jack lo Squartatore.
Parla della vecchiaia. Lou Reed, è vecchio, e chi se lo sarebbe aspettato, con quella vita? Negli anni 70 sembrava uno dei più prossimi candidati al cimitero delle celebrità. E' vecchio e canta la vecchiaia. La vecchiaia di suo padre, apparentemente. Padre giovane, junior, un padre ragazzino a cui rivolge una domanda: "Verresti in mio soccorso se stessi per affogare?"
Il figlio ora vecchio parla al padre giovane, lo interroga, lo incalza. Lo prega.

Ma poi, più sotto, il padre giovane improvvisamente è invecchiato, anzi, è morto.

Sta guidando verso un'isola di anime perse.

E ancora, qualcosa che assomiglia al ricordo di un discorso pronunciato in un tempo lontano, un amaro discorso:

Ti insegnerò meschinità, paura e cecità, nessuna idea sociale redentrice. Oh, stato di grazia...


Potrebbe sembrare il rimprovero - un poco scontato - di un figlio al proprio genitore, per le sue mancanze, per l'educazione ricevuta, così lontana dai valori morali e civili che ci si attenderebbe vengano trasmessi da un padre a un figlio, anche se, pronunciato a 70 anni, sarebbe comunque tardivo , diverso dalla canonica ribellione adolescenziale che il rock ha raccontato tante volte. Ma quel ricordo, quelle parole, sono anche un'epifania. "Stato di grazia...". Nel ricordo le cose cambiano di segno, perdono i loro connotati negativi, vengono rimpiante nonostante tutto. Nel ricordo ritroviamo un pezzo della nostra identità, giustifichiamo e ordiniamo le scelte che abbiamo compiuto durante la nostra vita.

Non finisce così, non ancora.
C'è un verso criptico, dopo.

Singhiozzo: il sogno è finito
Fai il caffè: accendi la luce

Forse - ha suggerito qualcuno (www.loureed.it) - è il sogno del padre giovane fatto dal figlio ora anziano a svanire con le prime luci del mattino. Il figlio si alza, prepara il caffè, contempla con l'occhio della mente, ancora eccitata dal sogno, il fantasma, l'ombra del padre, di un padre bambino perché ritornato bambino con la vecchiaia. E questo lo abbiamo visto tutti, no? L'età fa ritornare bambini. Sempre meno responsabilità, sempre più persone che si prendono cura di te. E forse - il dubitativo è d'obbligo - il figlio si guarda allo specchio, vede il fantasma del padre ma vede anche se stesso, vede solchi dove un tempo la guancia era liscia. E' lui il padre, ora, è identico a suo padre vecchio e morente, già andato, in cenere, quel padre che gli era sembrato immortale e che gli ricorda la sua mortalità, il comune destino di ogni uomo.

Di’ ciao al papà giovane
La delusione più grande
L’età lo ha avvizzito e trasformato
in un padre "piccolo"
(Una barbarie psichica)

Lou Reed aveva già cantato della vecchiaia, ad esempio in "Change", dal penultimo "The Raven" (anch'esso ispirato dalla letteratura, da E. A. Poe). E anche in quell'occasione, lo aveva fatto con toni non lusinghieri (testicoli che avvizziscono, insomma. Lo spettro della morte).
Ma non aveva mai usato questa lama spietata. Nessuna consolazione. Qui non c'è un giovane cantante che dedica una sonata a suo nonno, non c'è Claudio Baglioni, nulla di sentimentale (anche se c'è pathos e sentimento). Un uomo vecchio che guarda in faccia il suo disfacimento riflesso nella figura di un junior dad invecchiato a tal punto da tornare un bambino. In fondo alla pista c'è solo

La delusione più grande

Finisce così? E' di nuovo, eternamente, il Lou Reed tragico, stoico, implacabile? Senz'altro sì.
Ma questa dopotutto è una canzone, non un racconto o una poesia. Bisogna ascoltare anche la musica.
"Junior dad" è una canzone strana, anche se negli anni 70, quando gli artisti erano più liberi e creativi, non sarebbe sembrata tanto più strana di un album come "Low", una facciata di canzoni rock e un'altra di brani quasi sepolcrali suonati col sintetizzatore. E' strana e presenta diverse chiavi di lettura, sul piano musicale non meno che su quello del testo.
La prima parte è la canzone vera e propria, già di per sé anomala per gli standard attuali, quasi 10 minuti. Ed è un pezzo rock elettrico, in cui i Metallica suonano non come ciò che sono, una band metal, ma come la band di Lou Reed. Un bel pezzo, indubbiamente. Un tempo medio, dall'incedere solenne, sostenuto dalla potenza degli accordi e dai colpi secchi della batteria.
Ma sul finale (solo sul disco, non nella versione live), l'elettricità condensata sfuma, la batteria batte il tempo un'ultima volta e in pochi secondi la tensione si allenta, sfocia in una piana "ambient", altri 8 minuti di musica stavolta senza una parola, solo un'algida vibrazione elettronica, un orizzonte scarno ed essenziale, zen. Il suo colore è il bianco. Il suo messaggio è distacco. Forse è questa la chiave di lettura finale che Lou Reed vuole dare al disco (probabilmente definitivo) della sua vecchiaia. Oltre la delusione per la visione di ciò che la vecchiaia realmente è, corruzione e morte, la considerazione del nulla, l'accettazione, la pace, shanti, come si chiude il Wasteland di T.S. Eliot.
Molla gli ormeggi, lascia andare tutto. Mettiti comodo. Attraversa il fuoco passandoti la lingua sulle labbra.
Cosa c'è ancora da vedere, o da non vedere?

E una canzone così di questi tempi vale come un libro, è pura letteratura.

"Junior dad" live con i Metallica.


Lou Reed nel pieno della carriera (1974).