Succhiare l'ombra, succhiare l'anima

Sono nel cortile interno di un palazzo, potrebbe essere sede di uffici, pubblici o privati. E' inverno. Entrambi tirano lunghe boccate alle loro sigarette. Dalle bocche escono fumo e fiato.
(...) a: poi a volte penso: ma non stavo meglio prima?
s: a chi lo dici.
a: mi godevo ogni minuto. andavo ad arrampicare, mi sembrava di essere...
s: sì sì.
a: mi sembrava di essere un dio, quando arrivavo su. poi tornavo a casa, tutto contento, dalla famiglia, dai bambini...
s: a me lo dici. Sono andato a correre tutti i giorni per un anno...adesso non riesco più a fare niente, non mi importa più.
a: eh, appunto.
s: perché hai bisogno, di quest'altra cosa, la vuoi, ti sei convinto che ne hai bisogno, non puoi stare senza...
a: la tua anima, ne ha bisogno. il tuo cuore.

s. sorride come se avesse aspettato questa affermazione fin dall'inizio. è il più giovane dei due, ma si atteggia a quello più maturo. non sappiamo se lo è davvero o meno. in generale, noi che guardiamo la scena da fuori non riponiamo una grande fiducia nel concetto di maturità.

s: e no, è il contrario. è che ti sei accorto che sei vuoto, che hai un vuoto, qui, prima non lo sapevi, andavi a arrampicare, tornavi a casa, stavi bene, avevi fatto la tua giornata. adesso senti che hai questo vuoto, e vuoi riempirlo, senti che non hai l'anima, vuoi l'anima di un'altra persona, vuoi la sua ombra, vuoi succhiargliela, per poi...ah, adesso ho tappato il buco, qui, ah, adesso non sono più vuoto...

Sono mesi che a. parla di queste cose, con tutti, sta collezionando pareri. ogni volta gli sembra di avere raccolto un pezzetto di verità, è raro imbattersi due volte nello stesso pensiero, pensa.
pensa anche che le parole di s. lo accompagneranno almeno fino a dopodomani. che in ogni modo, come dice s., riempiranno il suo vuoto.

a: nessuno me lo aveva mai detto, in questa maniera.
s: c'è una teoria, che dice che non tutti hanno un'anima. solo il 20 per cento circa delle persone.
a. sì? non è molto.
s: no, infatti. ecco che arrivano.

s. butta la sigaretta per terra, la schiaccia con il piede. Poi solleva la macchina fotografica, porta l'occhio al mirino.

Il tempo lento



Hai guardato l'orologio 5 minuti fa e ti sembra che siano passate ore. E' un'esperienza che abbiamo vissuto tutti. A scuola, aspettando la campanella della fine dell'ora; sul lavoro, mentre scalpiti per uscire, per vedere chi devi vedere, per fare quello che devi fare; all'angolo della strada o davanti ad una stazione, in attesa della persona amata; lasciando girare un programma sul pc, secondi che sembrano ore; vegliando qualcuno che fra poco non ci sarà più. Aspettando.
A volte mi chiedo come facevano i nostri emigranti, quando partivano, quando solcavano i mari, sapendo che anni e oceani li avrebbero tenuti distanti dai proprio luoghi, dai propri cari. Avevano più palle di noi, sicuro. E chi rimaneva, chi aspettava le loro lettere, dal fondo spazzato dai venti di un altro continente, dalle città fumiganti, dal centro della terra in cui scendevano con i loro picconi?
Il tempo lento dei cargo, il tempo lento dei treni locali, il tempo lento di chi non ne può più, di chi deve uscire, di chi deve andare. O tornare.

Einsturzende Neubauten. Ai loro esordi, scassavano i palchi con il martello pneumatico, prendevano a martellate i residui di una civiltà industriale che stava morendo, soppiantana da quella elettronica. Ma hanno scritto anche canzoni dolcissime. Come questa.

River man



Si sedeva al centro del palco e sussurrava le sue canzoni guardando per terra, mentre il pubblico beveva, parlava ad alta voce e faceva rumore ignorando la sua musica.
Essere nato in Birmania non gli era servito.
"Un cane dagli occhi neri bussa alla mia porta, un cane dagli occhi neri mi chiede di più, un cane dagli occhi neri che conosceva il mio nome... sto invecchiando e voglio tornare a casa, sto invecchiando e non ne voglio più sapere."
E' morto a 26 nella casa della madre, vicino Birmingham. Probabile suicidio.
Ha lasciato 3 album, intrisi di poesia.

L'ho ascoltanto stamattina andando al lavoro. Ore 5.45, luna velata da nubi, strade ancora vuote. Ma ero felice, la sua non è solo musica triste, è molto, molto di più.

The passenger



Era cresciuto in una casa-roulotte a Detroit. I compagni di scuola lo prendevano per il culo. Non era leccato come certi cantanti finti di adesso, non posava, non aveva studiato, era un'iguana naturale. Ed era vero.

Anchor



Pensare ad un punto abbastanza lontano della tua vita, essere certi che lì non era ancora iniziato niente. Ancorarsi a quel punto. Una stanza d'albergo, ad esempio. Potrebbe essere Lima. Per funzionare deve situarsi in prossimità. In prossimità dell'evento, non anni e anni prima. Così vicino che potresti immaginare, di lì in poi, una vicenda diversa, un diverso modo di procedere. Qualcosa che abbia ostacolato il corso della storia così come l'hai vissuta realmente, ad esempio, una deviazione: potresti non avere scritto certe cose, potresti non avere detto di sì al tuo capo, potresti non essere tornato, è successo a persone che hai conosciuto bene, è successo cosa? Non si sa, sono venute giù come cometa, nell'Atlantico. Sarebbe potuto succedere a te ed invece è successo a persone che conoscevi, tu sei tornato, hai scritto, sei andato in montagna, hai accettato inviti, hai formulato inviti. Ti sei comportato bene, tutto sommato. Davvero vorresti fosse andata diversamente? E davvero pensavi non ci fosse un prezzo da pagare?
Quel pomeriggio passavano davanti alla tua finestra col parapendio. Era una giornata di sole, oltre il vetro, succede di rado da quelle parti. Dietro il parallelepipedo, dietro la prima fila di grattacieli, l'intera metropoli, su su fino alle baraccopoli cadenti aggrappate ai pendii riarsi, solcate da sentieri di polvere.
Stavi certamente pensando a qualcosa ma non a quella cosa, eri ancora ignaro del dipanarsi degli eventi, eccoti lì. Fermo alla finestra, moderatamente felice. Ti stupisci che non succeda nulla, nulla di veramente doloroso, ma neanche nulla che ti riempia davvero di gioia e aspettativa e estasi. Adesso sei ancorato (questa parola ne richiama un'altra - anchor - , un sito costruito in linguaggio html, i templates erano ancora così primitivi, tra le tante cose che hai imparato, e disimparato, c'è anche l'html).
E' estate, ma presto cederà il passo all'autunno. E' estate, la stanza del Marriott è climatizzata. Hai addosso l'abbronzatura del mare, qualche settimana prima hai bevuto birra fuori da una tavola calda, gestita da tre ragazzi egiziani, fino a sentire l'alcol diffondersi e rilassarti, hai visto passare una persona dall'altra parte della strada ma hai fatto finta di non riconoscerla, è il ricordo più intenso delle ultime settimane. Sei al Marriott, un privilegio. Non hai ancora ripreso a fumare. Non hai ancora assunto l'aria distratta che ti rimproverano. Non sei ancora stato a Londra. Sei integro, ma già sei come Roquetin, sulla spiaggia; guardi il ciotolo che hai tra le mani, chiedendoti se sia duro o molle. Predestinazioni? Zero.

Tra le due luci



Dio fece i due grandi luminari, il luminare maggiore per governare il giorno e il luminare minore per governare la notte, e le stelle. Dio li ha posti nella distesa dei cieli per dar luce alla terra, e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre, e Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno.

Tutti i turisti erano ripartiti, sui loro pulmann. Nel parcheggio rimaneva ormai solo la nostra auto, e il fuoristrada dei gestori del minimarket.
Mangiavamo fichi, uva, su un tavolo all'aperto, bevendo té al gelsomino.
L. leggeva dei passi della Bibbia. Sull'altra sponda del lago, brillavano le luci della Giordania.

C'erano due messaggi sul mio cellulare, che ancora non volevo leggere, li avrei letti più tardi, prima di dormire, forse. Rimandavo il piacere narcisista di essere pensato lontano.

Nei cessi dell'aeroporto di Beira



Era passato a prendermi all'albergo con solo tre quarti d'ora di ritardo. Lo avevo aspettato nell'atrio, seduto su una sedia, al buio, i bagagli posati lì accanto. C'erano delle persone distese a terra, sopra alle loro capulane, che dormivano. Cameriere, cuochi, insomma, lo staff. Avevo provato ad uscire, ad un certo punto, mentre il sole sorgeva all'orizzonte e iniziavo a distinguere le nuvole dallo sfondo del cielo, ma troppe cose strisciavano sui gradini dell'ingresso, ero tornato subito dentro.
"Una gomma bucata", si è giustificato sorridente, appena sceso dalla jeep.
Siamo partiti lasciando lo Zambesi sulla nostra destra, "anch'esso uno dei grandi fiumi della terra, nonostante tutto", per dirla con Conrad, che però qui in Mozambico non c'è mai venuto. Ci aspettavano cinque ore di buona strada asfaltata - a parte qualche buca - fino a Beira, dove avrei preso l'aereo per tornare in Italia.
Attorno, la campagna, i luoghi delle persone che conoscevo. La casa di Monica e Ibra, appena fuori Caia, di muratura, con il pozzo all'esterno, dove venivano ad attingere l'acqua i bambini che abitavano nelle capanne tutt'attorno, quelli che l'altro giorno ci erano venuti a chiamare per mostrarci l'ippopotamo che giocava nel centro del fiume; la boscaglia nella quale sta rintanato il misterioso Jack White, non il chitarrista rock, un bianco venuto lì anni prima dallo Zimbabwe, a mettere su una segheria, per qualcuno addirittura l'assassino di Olof Palme, il primo ministro svedese ucciso da un killer a Copenghagen nel 1986; più avanti il ristorante all'ingresso del parco del Gorongosa, dove qualche anno fa i cooperanti facevano tappa per sfoderare il cellulare e finalmente mettersi in contatto col resto del mondo, Caia ancora isolata, davvero Africa profonda, zanzare, fuochi, alluvioni, mentre ora hanno persino terminato il ponte, con tutti i suoi lampioni, ora si scavalca il fiume in 5 minuti, prima bisognava prendere il traghetto, i camionisti aspettavano anche due giorni, in coda, sulla riva, a bere birra Manica e a comprare un po' di amore per ammazzare la noia.

Mi ero assopito, nella luce lattiginosa del mattino australe, cullato dall'auto e dalle musiche alla radio. Poi a Gorongosa il paesaggio si vivacizza, la terra si solleva all'improvviso in un grande massiccio, era il regno dei leoni, le varie milizie che ci sono passate durante la guerra civile hanno fatto strage della fauna selvatica, solo ora il parco comincia a ripopolarsi. Così, ho cominciato a fare conversazione con il driver, anche se conversazione, con le mie quattro parole di portoghese, è un termine improprio. Abbiamo parlato di politica, in questi paesi spesso c'è più passione politica che da noi, lui non era né per il Governo (Frelimo) né per l'opposizione (Renamo), parteggiava per una terza forza, che però alle elezioni era stata boicottata, aveva potuto presentare i suoi candidati solo in alcune zone del Paese. Quando scrivevo la tesi io parteggiavo per il Frelimo, c'era ancora la guerra, la mia docente aveva iniziato qui in Mozambico la sua carriera, lavorando con Ruth First, una ricercatrice marxista di origini sudafricane uccisa a Maputo in un attentato dei servizi di Pretoria, un pacco che le era esploso in mano all'università Eduardo Mondlane. Era logico stare con il Frelimo, il Frelimo rappresentava l'orgogliosa lotta di un popolo contro il colonialismo prima e contro il regime dell'apartheid poi. Probabilmente ogni forza politica quando sta troppo a lungo al potere si incancrenisce, il potere, quando non è temperato dalle buone leggi, quando lo si dà per scontato, trascina con sé arroganza e abusi.
Poi abbiamo parlato delle nostre famiglie. Lui aveva un figlio a Beira, Nelson; dopo avermi accompagnato all'aeroporto sarebbe passato a trovarlo. Ha tirato fuori il cellulare, mi ha mostrato la foto: non sapevo cosa dire, mi sembrava chiaramente idrocefalo. Il volto dell'uomo era radioso; si vedeva che non stava più nella pelle, anche se mancavano ancora due ore alla città. In quanto alla madre, se ho capito bene, non avevano più buoni rapporti, forse anche a causa del fatto che lui ora lavora lontano, con i cooperanti.

All'aeroporto ho insistito per offrirgli un caffé, al bar del piano di sopra, eravamo in anticipo nonostante fossimo partiti in ritardo. Non ha voluto altro. E' scappato di corsa da Nelson, lasciandomi con i miei pensieri, sulla terrazza, affacciata sulla pista d'asfalto. Sono andato in bagno, mi sono scattato questa foto. Avevo molte ore di viaggio davanti, da Beira a Johannesburg, da Johannesburg sorvolando tutta l'Africa fino a Monaco, da Monaco a Verona. Ero contento di essere solo. O almeno, così mi sembra adesso, da qui; in quel momento provavo probabilmente solo impazienza, mista all'illusione di essere un viaggiatore, non un professionista che aveva appena terminato di fare il suo lavoro. Sono sceso di sotto, agli imbarchi, mi sono piazzato sul divanetto di pelle color vinaccia, da dove potevo tenere d'occhio il tabellone delle partenze, per buttare giù qualche appunto. Subito un uomo è venuto a sedermisi accanto, Era anziano, vestito in t-shirt e pantaloncini, ciabatte logore ai piedi. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo. Gli ho raccontato del progetto che ero andato a filmare a Caia. "Certo, certo..." ha annuito, pensosamente, passandosi i palmi delle mani sulle ginocchia. Gli ho detto anche che il Mozambico mi piaceva, che rimpiangevo ogni volta di non potermi fermare di più. Ha sorriso: la testa tentennava, come ho visto fare, più vistosamente, in Sri Lanka (ma lì il dondolio equivale ad un cenno di assenso).
"Abbiamo molti problemi. Non abbiamo voglia di lavorare."
Il suo umiliarsi di fronte al "bianco" mi metteva a disagio. Se al suo posto ci fossero stati dei turisti italiani, come una volta in Tanzania, quelle figure grottesche che vengono in Africa dicendo di amarla, di esserne adirittura "ammalati", pur detestando tutto degli africani, la loro indole, la loro gestione del tempo, la loro mancanza di tecnologia, avrei ribattutto seccamente che non era vero, che semmai era diversa la concezione del lavoro, e che comunque nessuno aveva il diritto di parlare così. Ma l'uomo era a casa sua, cosa potevo dirgli? Poi mi ha chiesto qualche spicciolo; ha ringraziato ed è uscito subito, curvo, furtivo.

Forti turbolenze nel tratto fino a Joh'burg, sorvolando miniere a cielo aperto, terra rossa disabitata. E lì, ho scoperto che l'aereo che avrebbe dovuto portarmi a Monaco si era rotto; in compenso Lufthansa ci offriva la cena, in uno dei ristoranti del terminal.

Cosa c'è da dire?

(raccontino)

Fermò la macchina di fronte a un ristorante, di fianco alla stazione delle autocorriere. All'interno stavano già facendo le pulizie, ma la notte era calda e alcune persone sostavano ad un tavolino sul marciapiede, affacciato sul parco.
"State chiudendo o si può ancora mangiare?", chiese alla donna che sparecchiava i tavolini.
"Prego".
Si sedettero sotto un amplificatore che diffondeva ad alto volume musica da discoteca passata di moda. Ma quasi subito qualcuno, dall'interno del locale - forse quella che li aveva fatti accomodare - lo spense.
Una gentilezza nei loro confronti? La donna – bionda, di mezza età, magra, il tipo di persona che si muove sprigionando scintille di energia compulsiva - le era sembrata gentile, nonostante l'ora tarda. Si chiese se avesse a che fare con qualcosa che si portavano addosso, un odore buono, un'aura, o se fosse solamente gentilezza innata. Preferiva la prima ipotesi. Quando erano usciti - si stava sistemando i capelli con le mani davanti allo specchio - lei gli aveva detto: "Lascia stare. Sei bellissimo. Come un uomo che ha fatto l'amore per ore".
Anche lei era bellissima, rifletté. Ma se l'avesse vista camminare per strada, se l'avesse incontrata in un ascensore, avrebbe intuito che era stata appena abbracciata, avrebbe capito che la sua pelle sotto al vestito di cotone portava i segni di quegli abbracci, di mani e denti e anche delle pieghe del lenzuolo a cui l’aveva inchiodata?
No, probabilmente no. Un fatto che lo lasciava sempre stupito. Che si potesse passare così in fretta dalle infinite variazioni del piacere alle infinite ovvietà dell'esistenza ordinaria. Invisibili.
Certo, era un vantaggio. Per persone nella loro condizione era indubbiamente un vantaggio.
Al tempo stesso, però, a volte aveva desiderato che in qualche punto dei loro corpi si producesse come...una modificazione, un'incrinatura? Uno spiraglio dal quale far filtrare una luce? Oppure, magari, un buco, un varco, per guardarci dentro, nel rosso, nel vivo della carne, per vedere cos’era successo, cos'era cambiato. Perché, in sere come quella, qualcosa nelle vite di entrambi si modificava. E allora, sarebbe stato giusto che gli altri lo vedessero, in qualche modo. Sarebbe stato come un faro. Avrebbe indicato una strada.

Si riscosse perché all'altro tavolo qualcuno aveva parlato a voce alta. Facevano un brindisi, quattro uomini e due donne, con l'aria perfettamente sveglia e ancora sobria. Pensò per un attimo di voler essere uno di loro; sapeva che è meglio non pensare troppo, mai, e in generale, ma non riusciva a impedirselo, perché gli intervalli fra un incontro e l’altro erano lunghi, a volte anche un mese, o più. Essere un animale notturno senza nessuno ad aspettarlo a casa, un uomo solo che beveva assieme ad altri uomini e donne di una certa età, soli anch’essi, beato dei soldi che aveva nel portafoglio e che gli avrebbero permesso di pagare un altro giro, delle sigarette schiacciate nella tasca. Una vita lontanissima, irraggiungibile. E a conti fatti, forse, nemmeno tanto desiderabile, anche se aveva conosciuto persone che l’avevano vissuta, eccome. Suo padre, ad esempio.

Lei stava scorrendo il menù. Si era raccolta i capelli sulla nuca. Era stanco e appagato ma non ancora sazio. Non lo erano la sua mente e i suoi occhi, perlomeno. L'avrebbe baciata di nuovo, il collo, i piedi, le braccia, l'incavo delle ascelle, cosa aveva trascurato? Non si stancava mai di percorrerla, non si stancava mai di immaginarla frutto da mordere, campo da arare.
Che quando si davano appuntamento potesse essere l'ultima volta, gli veniva in mente solo dopo qualche giorno. Quel genere di tormento, per adesso, poteva aspettare. Ora avrebbero cenato e lui avrebbe gustato le sue parole, i paesaggi che schiudevano sulle sue altre esistenze, quelle che conduceva lontano da lui. Avrebbe sentito la notte estiva alitargli sul collo. Non c’erano più molte auto in giro e ogni suono, ogni sillaba pronunciata, acquistava una sua speciale dignità.

Poi, magari se ne erano accorti tutti. Ne stavano parlando tra loro? Per questo adesso bisbigliavano? E che cosa avrebbero dovuto dire? Cosa c'è mai, da dire?

(da La calda notte degli avatar)


chrome - meet you in the subway

Lady Day



When she walked on down the street
She was like a child staring at her feet
But when she passed the bar
and she heard the music play
She had to go in and sing
it had to be that way
She had to go in and sing
it had to be that way

And I said no, no, no
oh, Lady Day
And I said no, no, no
oh, Lady Day

After the applause had died down
And the people drifted away
She climbed down off the bar
and went out the door
To the hotel that she called home
It had greenish walls
a bathroom in the hall

And I said no, no, no
oh, Lady Day


Quando camminava per la strada
era come una bambina che si guarda i piedi
Ma quando passava davanti al bar
e sentiva suonare della musica
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così

E io dicevo no, no, no
oh, Lady Day
e io dicevo no, no, no
oh, Lady Day

Dopo che gli applausi erano finiti
e la gente se n’era andata
Scendeva le scale del bar
e usciva
verso quell’albergo che lei chiamava casa
aveva muri verdastri
e il bagno nel corridoio

E dicevo no, no, no
oh, Lady Day

(from "Berlin")
Vedi anche: www.loureed.it

Luce. Acque.






Aspetto

Quando, la sera, milioni di persone rientrano a casa dal lavoro, rientrano a casa solo per evadere di nuovo, con internet, la tv, i telefoni, gli avatar.
Ma io no. Io siedo qui e ti aspetto.

Sei partito un anno fa, hai abbandonato tua moglie. Sei andato in Italia, poi in Francia. Hanno detto di te che vivevi nei boschi, ci sono stata, non era come mi avevano raccontato, non come mi aspettavo, si vede un’autostrada che taglia un fondovalle in due, vigneti da ambo le parti e poi colline boscate, tigli, castagni, querce, e ai piedi di quelle colline aziende agricole, non cadenti case coloniche, non rovine coperte di edera o capitelli spezzati e ai piedi delle colline silos e capannoni, ai piedi delle colline strade serpeggianti e ruspe abbandonate accanto a terrapieni, non era il paesaggio che mi ero aspettata, non aveva nulla a che fare con Into the wild o con Jack London, non c’era niente di selvaggio ma se vuoi scomparire puoi farlo anche nel bosco dietro la fabbrica, se vuoi morire puoi morire anche nel vigneto, morte nel vigneto, sembra il titolo di una poesia, noi leggevamo poesie assieme, tu e io, leggevamo poesie la sera, i classici inglesi, i moderni, anche i francesi, leggevamo poesie, madre e figlio, figlio e madre, guardando scorrere il Tamigi, dalla nostra mansarda, eri già più un uomo che un ragazzo, certamente più un ragazzo che un bambino, conoscevi la poesia, credevi di conoscere la vita ma io sapevo che non conoscevi la vita, sapevo la tua fragilità perché me l’ero portata in grembo, avevo sentito come uno strappo, lì, come un piccolo dolore, quando eri in grembo e non scalciavi, ti succhiavi le dita e il mio ombelico senza scalciare mai, e poi in braccio, l’avevo cullata, in braccio, la tua timidezza, la tua inadeguatezza, il tuo dolce sognante soffrire, quando sei andato in sposo il tuo sorriso sulle foto era insincero, avevi il sorriso insincero dei poeti, i poeti appartengono solo a se stessi e alle loro madri, non alle donne, non agli uffici dove vengono caricati di responsabilità che non sono in grado di affrontare, non ai soldi che avevi in tasca, avevi trentamila euro e quattromila sterline e sei morto di fame, avevi trentamila euro e poco lontano da quella radura un autogrill, un paese, un supermercato, i contadini sapevano che eri lì, i cacciatori ti avevano visto vagare, ti avevano chiesto che cosa facevi, che cosa volevi, di che diavolo avevi bisogno, tu avevi risposto che non avevi bisogno di niente, avevi tirato fuori le banconote dalle tasche del giaccone impolverato, del giaccone pieno di macchie, qualcuna ti era caduta, si era mescolata alle foglie dei tigli e delle querce, avevi detto “vedete? Sono pieno di soldi”, eri ancora pieno di soldi, tua moglie non era rimasta a secco comunque, la donna della tua vita, ti aveva lasciato andare, così mi ha detto, che ti aveva lasciato andare, che non eri felice, la felicità non c’entra nulla, quanto poco ti conosceva, tu eri malato, fragile e malato, oggi non puoi far ricoverare nessuno se non ci mette la sua firma, oggi i malati sono lasciati a se stessi, sei andato in Italia, con il tuo dolce sognante soffrire, sei andato in treno, sei andato a piedi, non sapevi una parola d’italiano, non in Toscana, dov’è pieno di inglesi, come te, sulle montagne del Piemonte, all’ombra di quelle montagne, una città di caserme e strade diritte, lì al massimo capiscono il francese, cosa ci facevi lì, fossi sceso in Sicilia, dov’è caldo, no, al freddo, te ne stavi al freddo, dormivi per strada in una piccola città dalle strade dritte, cosa cercavi, in quella piccola città, forse la luce, era quella luce particolare che ti aveva attirato, non lo sapevi neanche tu, non hai conosciuto nessuno, ti sei fatto curare un ascesso, hai trascurato cose ben peggiori, i polmoni, i bronchi, le masse spugnose, i filamenti, la tosse, hai passato le Alpi, come Annibale, come Rimbaud, sei andato in Francia, un’altra valle, il vino, un lavoro temporaneo in un’azienda, agricoltori, coltivatori, gente semplice, illusione di una vita diversa, un’altra vita, tutti cerchiamo un’altra vita, la vita è la vita, che c’è da dire, non l’avresti accettato mai, sei sempre fuggito, lontano da me, verso di me, verso di me, e poi nel prato, dietro la fabbrica, verso di me, che ti tendevo le braccia, una tela cerata per tetto, un cartone per materasso e le lumache dappertutto, viscide mucose brune, i polmoni, il catarro, i filamenti, sei rimasto lì quindici giorni con il tuo dolce sognante soffrire, nell’odore del mosto, dei tini, del marcio, sei rimasto quindici giorni sulle foglie, sapevano che eri lì, gli operai ti avevano visto, i cacciatori ti avevano detto di non mangiare quei funghi, avevi mostrato loro i soldi, tanti soldi, “non ho bisogno di niente”, e poi pare tu abbia aggiunto family problems, ma quelli lì non conoscono l’inglese, chissà cos’hanno capito, hanno capito quello che volevano capire, c’era l’autostrada a un chilometro, di sicuro sentivi il rumore, camion, macchine, autotreni lanciati a tutta velocità verso la costa, la Spagna, l’Italia, attraverso le valli alpine giù giù fino al mare senza misteri, hai trascinato la cerata nel folto del bosco, hai trascinato sulla collina la tua cerata, hai cercato di fissarla a due rami, perché ti facesse da tetto, niente da fare, ti è caduta sopra, ti è caduta sopra mentre respiravi male, ti ha coperto nella notte umida, ti ha coperto nella notte che gelava, mentre respiravi male, nella notte di ottobre, mentre mi chiamavi, nella notte, e sono passati dieci autotreni, cento autotreni, e sono passati altri cento autotreni, nella notte, e poi non respirarvi più.

Quando, la sera, milioni di persone rientrano a casa dal lavoro, rientrano a casa solo per evadere di nuovo, con internet, la tv, i telefoni, gli avatar.
Ma io no. Io siedo qui e ti aspetto. Apro un libro di poesie, leggo e ti aspetto.

(da La calda notte degli avatar, liberamente ispirato a un fatto di cronaca)

Monologo

"Se solo riuscissi ad essere più sicura di me. Più sicura di me! Mi chiedo: è forse questa la felicità di cui si sussurra con tanta segretezza? Perché quando parlo con qualcuno, all'improvviso, senza ragione, una gelatina fredda, schifosa, m'invade sottopelle, e allora non riesco più a dire nulla, nulla che non sia qualcosa di poco intelligente? Eppure, non c'è motivo di pensare che io sia poco intelligente.
Guardo gli altri, li osservo da lontano, senza che se ne accorgano, li osservo mentre stanno tra loro, mentre si accalorano per futili ragioni, qui come a Mosca, o perfino nella casa di campagna dei miei nonni, dove andavamo a trascorrere le vacanze estive, appena sposati...ci andremo più? I mattoni rossi, le scandole, il gallo sul tetto. Li guardo e non mi sembrano infelici, mi sembrano infelici solo quando un avvenimento inaspettato li colpisce, quando li passa da parte a parte, ma dura un istante, mentre la mia infelicità è un'ombra che non mi lascia mai.
Se solo potessi, se solo riuscissi ad essere più sicura di me. Più sicura di me! Allora sì che la vita sarebbe una passeggiata in primavera, lungo un sentiero che costeggia un ruscello. Se non pensassi, ogni volta, se non pensassi: ecco che faccio la figura della stupida. Ecco che parlo a sproposito, e mio marito mi incoraggia, vuole forse che io sembri stupida? Fa così per ottenere l'amicizia solidale degli altri uomini? Comprensione per una scelta avventata, aver sposato una sempliciotta? Lui, scrittore, lui compagno professore!
Credo che dovrei essere più sicura di me. Che dovrei provare. E se non ci riuscissi? Penso che, per cominciare potrei almeno rilassarmi. Potrei farlo una mezz'ora al giorno. Sarebbe già qualcosa. Un piccolo passo in avanti. Rilassarmi mezz'ora al giorno. Forse dovrei provare con lo yoga".

da Macchine fluide.

Scremature

Bisogna saper scremare le cose interessanti che le persone dicono, le perle di saggezza che hanno coltivato sulla loro visione del mondo, sulle loro esperienze. Ovviamente non si può accettare tutto, non tutto può andar bene per TE. Tuttavia è corroborante quando incontri una persona che non ti trascina nel vortice di una conversazione banale, dal quale vorresti uscire al più presto con una scusa. E' corroborante anche incontrare una persona che ha del TEMPO, il regalo più prezioso che si possa fare agli altri in questi anni feroci di produttività estrema e crisi, in cui tutto sembra fermo come se aspettase impaziente di ripartire eppure tutti hanno mille lavori, mille pensieri, mille tiramenti. Il regalo del tempo ti dà conferma della tua unicità, specie se hai la percezione che è proprio te che sta guardando, mentre le stai di fronte e ti accendi l'ennesima sigaretta, non uno scelto a caso nella sua folla. A volte devi persino sforzarti di lasciare andare il desiderio di solitudine, di lasciargli la mano, almeno per quell'ora, di mandarlo a farsi un giro. Sempre le cose importanti comportanto un minimo di sforzo, ma di questo dirò forse un'altra volta.
Dunque che cosa trattenere, per dopo? Qualcosa che ti tenga la mente impegnata quando guiderai verso casa, ascoltando una cover ben fatta?
Che al fondo del fondo, quando hai tolto tutto, rimani tu. Certo, potrebbe non bastarti, questo avresti avuto voglia di ribattere. Il tuo solito te stesso, e allora? Che c'è di speciale?
Ma a volte è importante ricordare chi si è, metterlo bene a fuoco, senza vanagloria e senza vergogna. Attenzione, mi dice, non ha nulla a che vedere con il coltivare il proprio ego. Non mi riferisco alla gratificazione momentanea di un sorriso, un articolo, un gesto che suscita ammirazione in chi guarda. E' pura, accecante consapevolezza. Il pasto nudo, direbbe Burroughs.
"Non voglio più cercare, non voglio più essere discepola, non voglio imparare più, ne so talmente tante di cose che potrei insegnarle. Voglio raccogliere, voglio che sia la vita a venirmi incontro e da quando l'ho capito, quando mi sono messa in quella disposizione d'animo, ha cominciato ad accadere."
Non so, ferma, ferma. Questo contrasta un po' con l'idea che esprimevo prima: che ogni cosa importante costi uno sforzo. Tuttavia rappresenta un apprezzabile punto di vista. Ognuno di noi, credo, qualche volta nella vita, ne ha avuto conferma, che è quando rilassi i muscoli delle gambe e del collo, quando smetti di dibatterti dentro al recinto della tua logica o dei tuoi desideri, quando ti scrolli definitivamente, schizzando in giro, che qualcosa succede, ed è come un incontro casuale per strada, come il vento che si alza all'improvviso, indipendentemente dalla tua volontà.
Ha parlato anche di malìe, che lei chiama màlie. Cose che stregano, cose che suggestionano, miraggi. Dice che bisogna liberarsene e io ricordo un altro incontro casuale, tanti anni fa, provocato da una scritta su una panchina, allora non c'erano internet o facebook, i messaggi in bottiglia li si affidava ad un muro o al legno di una panchina, appunto. "Mi dicono che bisogna vivere senza sogni e illusioni, ma allora come vivi?"
Un altro punto di vista, diametralmente opposto. Il punto di vista dei 18 anni contro a quello dei 40? Troppo facile, troppo banale, anche se lei ha insistito molto sul dato generazionale (che io perlopiù non considero, non credo sia possibile cambiare radicalmente la propria intima essenza, nel bene e nel male, e mi pare che anche Pavese buonanima la pensasse così...)
Poi, mi chiedo come fare, se si vive immersi dal mattino alla sera in un universo cultural-mediatico popolato da gente con voglie immense, se i tuoi cantanti hanno cantato we want the world and we want it..now!e i tuoi scrittori hanno morso affamati la vita e la morte e tutto quello che ci passa in mezzo.
In definitiva non so chi abbia ragione, se siamo macchine desideranti o se c'è in noi qualcosa di veramente puro, angelico, fermo, maturo, un'acuta visione, una spada che taglia. Probabilmente siamo l'uno per il 99% della nostra esistenza e l'altro per il restante 1%.
Bello però quando per qualche istante qualcuno toglie dai tuoi occhi il velo di Maya: poi sai che tornerà e riprenderai a muoverti attorno come un cane alla catena, scavando e scavando, di nuovo cieco, concupiscente, pieno di brame, di nuovo dentro allo specchio prismatico, però in quel momento sei lì e lo senti, che qualcosa si è sollevato, che sei senza passato né futuro, un monaco zen, un pescatore al largo con la sua barca, che recita un rosario aspettando il sorgere del sole.
Quando l'epifania è finita precipiti nel corso centrale della tua città, invaso dalla folla dei saldi.