Invasione

È una notte appiccicosa, nessuno riesce a prendere sonno.
Vera è seduta sulla sponda del letto. Si passa lo smalto sulle unghie dei piedi. D'improvviso le viene in mente che un satellite potrebbe spiarla. Si alza di scatto, solleva la canottiera fino alle ascelle, aria di sfida.
Resta un attimo alla finestra. Guarda in cielo e poi giù in strada, dove cresce la folla.
Quando torna a sedersi si accorge con disappunto di avere macchiato la canottiera di smalto.

In fondo alla strada si spalanca una piazza.
Qui ci sono delle luci, luci dove normalmente, a quest'ora, ci sarebbe solo silenzio.
Studenti stanno seduti sul porfido reggendo fiaccole, oppure in piedi, in piccoli capannelli sotto alla statua di un martire. Vegliano un paese dall'altra parte del mondo, invaso poche ore prima dalle truppe di occupazione di una potenza straniera.

Le forze dell’ordine intorno vegliano il vegliare degli studenti.
Ma uno di essi francamente ne ha abbastanza. Giovane, ventre piatto di palestra. Dà di gomito al suo collega, più anziano, “mi sembra di aver visto del movimento, laggiù..."
Breve consulto con il superiore. “Posizionatevi in fondo alla strada, presidiamo anche quell’accesso”.
Si avvia. Il collega gli va appresso. Tanto, pensa, per questa notte, almeno, non c'è assolutamente nulla da temere.

Camminano un po', superano l'edificio dell'università, e intanto masticano caramelle. Arrivati all'altezza della casa di Vera sollevano lo sguardo quasi simultaneamente (se non l'avessero fatto non sarebbe successo nulla, forse un'altra volta, ma non oggi, forse lontano da qui). Vedono bianca pelle di luna sporgersi dalla finestra. Seni bianchi, pelle ben tesa (una canottiera sollevata fino alle ascelle). Vera guarda in cielo e poi la strada ma non sembra accorgersi di loro. Un attimo dopo scompare, lasciandoli a bocca asciutta.
“Starà ubriaca”, è il commento di quello giovane.
“O fatta”, dice il collega.
Si guardano, annuiscono, e si rallegrano per la luminosità della notte.
Quello giovane dice all'anziano: “Andiamo a dare un'occhiata?”
L'altro gli fa notare tutte quelle finestre aperte, le luci che rischiarano l'interno degli appartamenti. Troppa gente sveglia, dice, è colpa dell'afa.
Non c'è proprio nulla da obiettare ad un'osservazione del genere e i due si scambiano nell'ombra un silenzioso sorriso d’intesa.

Gli studenti all'inizio avevano cantato. Poi le voci si erano acquietate. Adesso addirittura qualcuno dormiva, sepolto dentro un sacco a pelo.
Nel tardo pomeriggio l'adunata aveva attirato curiosi, alcuni dei quali si erano fermati, almeno il tempo di farsi un'idea.
Chi non era al corrente di quanto era accaduto poche ore prima, qualche fuso orario più a est, di là di paludi, giungle, risaie, tubolari tronchi di bambù, dove la luce s’infratta, e la tigre sorveglia, chi aveva solo un vago sentore di tutta la vastità geografica che li separava dalle vittime dell'invasione, andava via perplesso.
Infine è giunta la notte.
Gli irriducibili, coloro che a giudizio della polizia resteranno lì fino a domani mattina, sono circa un centinaio.
Logicamente di allontanarli con la forza non se ne parla. Il questore ha suggerito prudenza, siamo in periodo elettorale. E poi questi qui sono pacifici, per ora non danno fastidio a nessuno, con le loro fiaccole. Resterebbe l'occupazione di suolo pubblico, la manifestazione non autorizzata, ma insomma, che razza di reati sono, oggigiorno?

Vera ha finito di smaltarsi le unghie.
La luce della camera è spenta, anche l'abat-jour accanto al letto, e la luna illumina i suoi piedi, che visti così sembrano ancora più bianchi.
Allunga un braccio, per sottrarlo alla zona d'ombra. Anche il braccio sembra più bianco. Poi forse la luce non è neanche la luna, ma solo i lampioni, fuori.
I rettangoli gialli delle finestre della casa di fronte si sono spenti uno ad uno.
Bussano alla porta.

L'ultimo notiziario ha prodotto qualche aggiornamento sulla situazione. Pare che gli aggressori non abbiano incontrato grandi resistenze al momento dell'attacco. L'azione è giunta inattesa, avendo appena iniziato le diplomazie dei due paesi una complessa trattativa che, a detta di tutti gli osservatori, avrebbe dovuto condurre ad una soluzione negoziata.
Il governo del paese aggredito, alle 21 ora locale, ha emesso un comunicato di condanna, invocando al tempo stesso l'intervento dell'Onu. Ha detto anche che gli invasori saranno presto ricacciati in mare.
Ma in tutto il mondo le sue difficoltà sono ben note. Se gli invasori dispongono di aerei ed elicotteri, l'esercito nazionale non ha velivoli, o meglio, i suoi sono tutti negli hangar per mancanza di pezzi di ricambio. Sugli altipiani esistono villaggi che senz'altro ancora non sanno cosa sta avvenendo molte centinaia di chilometri lontano, sulla costa. E ci sono sacche di contestazione che si annidano perfino nei vicoli dei quartieri vecchi della capitale, pronte a schierarsi con gli invasori non appena questi facciano un'offerta soddisfacente. Ci sono i miserabili che hanno creduto alle promesse del presidente fino a quando non sono state disattese dall'austerità, dal diffondersi delle epidemie, da tutte quelle piogge trasformatesi in alluvioni fangose. Difficile che si mobilitino a difesa della patria, e del resto, è altrettanto difficile spiegare loro che al presidente fanno difetto quei poteri divini dei quali erano investiti, in un'epoca non lontana, i suoi predecessori.
Ma il governo continua a confidare nella fedeltà dei contadini beneficiati dalle riforme, che accorrono dai campi e si accampano attorno al palazzo presidenziale. Lunghi, tortuosi serpenti di uomini, animali e veicoli meccanici si muovono in direzione della capitale, lasciando giù per ripide discese la scia dell'odore di freni bruciati. Male armati rotolano come sonnambuli, in preda alle febbri.
Gli studenti in piazza continuano la loro veglia e pensano a queste oscure manovre notturne, dimentichi del fatto che nel paese aggredito è già mattina. Organizzano strategie mentali di rara efficacia, ripassano i discorsi che, si augurano, i giornalisti faranno loro pronunciare, si preparano a respingere l'imminente assalto delle forze dell'ordine e si sforzano soprattutto di rimanere svegli.
Vera si alza e va ad aprire.

Sull'uscio i due sorridono.
Quello giovane dice buonasera, portandosi le dita al cappello.
Chiede: “Tutto bene?”. Vera non sa cosa rispondere. Si fa da parte, non è tenuta a farlo, ma si fa da parte, lascia che le divise s’infilino dentro.
Il giovane ringrazia, chiede un bicchiere d’acqua. Ora è entrato anche l'altro, è nervoso, si guarda intorno aspettando forse che sbuchi fuori un uomo dal bagno, o dalla cucina. Il giovane non smette di sorridere, spiega a Vera “qualcuno ci ha chiamato, comunque non si preoccupi, ora è tutto a posto.”
“Ma qui tutto è sempre stato a posto.”
“Davvero?” Il giovane imprime al tono della sua voce un brusco cambiamento, lascia che autorità fluisca, constata con soddisfazione che la donna arretra, appoggia le mani dietro la schiena, sul bordo del tavolo. Anche il suo collega è impressionato. C'è sempre qualcosa fuori posto. Sempre. Basta cercarla.
Chiede: “Aveva caldo, prima, eh?”
Posa il cappello sulla mensola, continua a guardare Vera negli occhi. “Sa, a volte le segnalazioni si rivelano infondate, perché‚ dicevano strani giri, ma non c'è alcun giro, qui, che io veda. Solo una donna – una bella donna, mi consenta - che non ha sonno, che ha tanto caldo, proprio come noi...”
Vera indietreggia ancora, si siede sul bordo del divano. Anche questo gesto, dopo, a ricordarlo, non saprà spiegarselo. Forse le era sembrato naturale che l'invasore dovesse stare in piedi, come una statua ben piantata, ben ancorata, e lei giù, in basso, a capo chino, senza guardarlo in volto. Lontano dal fuoco dello sguardo dell'invasore, che brucia, che scuote la casa dalle fondamenta al tetto…
L'anziano va a chiudere a chiave la porta d'ingresso. Controlla la finestra, constatando con sollievo che il divano si trova in una zona d'ombra, così che da fuori non vedranno nulla. Poi se ne sta in disparte, spostando il peso da una gamba all'altra, osserva il collega, lo sente pronunciare delle frasi mentre accarezza i capelli della donna, mentre accenna alla canottiera, mentre si sbottona.

Vera abbandona il suo corpo come si pianta un'auto scassata sul ciglio della strada. Rabbia per quel corpo che non sa difendersi. Un cuore rapido, senza volontà. Aspetta che passi l'invasione con lo sguardo dritto alla finestra, dove la luce si addensa. Concentra la sua attenzione su quella remota porzione di cielo dove i satelliti spia ronzano nell'attesa, e registrano l'accaduto senza emozioni. Il suo sguardo non vacilla e non si oscura e rimane fisso alla finestra per tutta la durata dell'assalto, finché‚ non si sente vuota, finché l'invasione non è passata.
Allora quello giovane si riassetta, va a chiudersi nel bagno. E al suo posto arriva l'anziano, non può certo essere da meno, e dunque assale, di malavoglia assale, assale anche lui, percorrendo la strada già aperta dal primo, mescolando la sua voce a quella degli altri invasori.

Quando è finita il giovane vorrebbe indugiare un poco, sussurrare una parola affettuosa all'orecchio di quell'amante informale. Ma, avvedendosi del suo sguardo, fisso sul rettangolo di nera profondità siderale, conclude che nella testa della donna ci sia semplicemente qualcosa che non funziona, e dunque non ci pensa più. Ubriaca però no. L'alito l'avrebbe tradita.
Dà una pacca sul culo al collega più anziano. Si rimette il cappello, avviandosi verso la porta. Si ferma a metà. Si volta. Si sta chiedendo se e quanto debba lasciare. Ma poi no, perché?
“È stato un piacere”, conclude, sorridendo. Affermazione che giudica brillantemente piena di sottintesi, una perfetta uscita di scena.

Vera rimane sdraiata sul letto, immobile, cercando di riprendere confidenza con il suo corpo, senza osare spostarlo, solo controlla mentalmente che tutte le funzioni vitali girino come al solito, provando meraviglia e orrore per questo.
Dopo qualche minuto solleva il piede verso la luce, dove lo smalto delle unghie risalta scuro sul pallore della pelle.
Tutto questo è successo, pensa. È successo veramente e potrebbe succedere ancora.
Nella luce, finalmente, si ascolta. Ascolta il respiro crescere, fino a riempire tutte le cavità del corpo, e attende che diventi un palpito più doloroso, e vigila affinché il palpito non si rompa in pianto.
Eppure la notte che si affolla attorno a quel corpo scosso dal palpito resta immobile, sospesa. Come se fosse sul punto di posarsi, e non si posa. Fino a quando il palpito non viene ricacciato giù. Fin quando la crisi non è passata.

Anche gli studenti stanno immobili, tutti tranne due.
Riflettono che in fin dei conti non tradiranno la causa di quel paese lontano per un po' di sonno.
Avviandosi, incrociano due divise isolate, che si dirigono verso la piazza. Il più giovane li blocca. Dice: “Tutto bene, ragazzi? Siete stanchi?”
Uno fa “eh, un poco”, ma l'altro, “ci sgranchiamo le gambe, che vi credete, poi torniamo.”
La divisa giovane gli si fa sotto. “Mi raccomando – sussurra, con un filo di voce - niente casino.”
“Siamo liberi cittadini”, ribatte lo studente più spavaldo.
Poi tutti e due gli girano intorno. Alzano le spalle.
Quello giovane li osserva mentre si allontanano, accendendo sigarette. Sorride.
“Sangue caldo. Io lo so!”

Vera si affaccia alla finestra.
Domani, forse a quest'ora, in qualche bar o dentro un'automobile d'ordinanza, qualcuno riderà della sua piccola tragedia notturna, di quel corpo disossato, di quelle ginocchia molli, di quelle unghie dipinte per nessuno e svelate al signore invasore Nessuno.
La luce illumina una figura magra, in canottiera.
Lo studente spavaldo alza la testa, soffia fuori il fumo, verso le stelle silenziose.
“Bella figa”, osserva, tra sé.

In cielo luccicano i satelliti.

Mp - 1988
(Racconto pubblicato sulla rivista "In-edito", Torino)