Lima. Perù.


A volte, quando la nebbia si dirada, e i colori non sono più solamente il grigio e il marrone, Lima può persino sembrare gradevole, dal 20esimo piano dell'hotel Marriot, mentre un paracadute passa davanti alla finestra, cercando di atterrare sul bordo del Pacifico.
Per il resto, rimane una delle città più orribili che abbia visto in vita mia.



Manchay tre anni fa mi era sembrato l'inferno sulla terra. Un quartiere di 80.000 persone - migranti interni, sospinti qui dalle correnti generate dalla povertà e dall'insicurezza - , cresciuto dentro a una valletta laterale, sulle pendici delle Ande, un deserto come del resto tutta questa parte di costa, polvere e desolazione. Nel frattempo, alcune cose sono cambiate. Adesso c'è una strada asfaltata, la densità di scuole, a giudicare dalle insegne, è molto elevata (scuole private, siamo in America, qui tutto è privato, istruzione, salute, salvezza...)
Se c'è speranza persino a Manchay, c'è speranza ovunque (foto qui sotto: il centro di formazione professionale "Giovanni Paolo II" costruito dalla Pat).


La sera il traffico prende la metropoli d'assedio. La cintura di baraccopoli che la borda, ad ovest, si accende di luci, a est resta l'Oceano. Sul terrazzo del centro commerciale più grande del Perù sta per iniziare un concerto. Le automobili sono quasi tutte di grossa cilindrata, l'America ha qualche problema con le vie di mezzo.


Sono viaggi brevi da cui si ritorna stravolti dal jet-lag. Forse un giorno vedrò anche le cose che vedono i turisti, del Perù. Per questa volta, mi porto a casa un sorriso.