Pamuk, Brasov e la città perfetta (5) - down to earth

Foto: il kitsch socialista - Ceausescu

Aldo Busi, nel suo "Seminario sulla gioventù", dice che degli anni della giovinezza non rimane niente, non si ricorda niente. A me sembra vero il contrario. Ogni posto visto, ogni pietra, faccia, pettinatura, vestito, sigaretta, mano. Li senti venire, la notte, l’insonnia li raduna. Sono qui. Non passano mai.

Viaggiavamo nel ventre della notte transilvanica, via da Brasov, lontano dalla città perfetta nel boato del ricordo, destinata a ritornare sottoforma di meta asiatica, ancora più remota, nei miei sogni a venire, per anni e anni e anni, viaggiavamo cullati dal ritmo dell'acciaio sull'acciaio, via da Brasov, indietro verso l'Ovest, l'Occidente, l'Italia, via dai tetti aguzzi e dalle polveri nemmeno tanto sottili, via dalle strade senz'auto e dalle locande, facendo conoscenza con i nostri occasionali compagni di viaggio, divertiti dal libro su Dracula che stavo finalmente leggendo ("è un libro storico", spiegavamo). E in fondo alla notte raggiungemmo il confine.

L'alba si faceva attendere. I doganieri controllarono i passaporti, e con nostro grande stupore ci fecero scendere. No, non potevamo proseguire il viaggio. Perché? Ci spiegarono che avevamo bisogno di un nuovo visto per riattraversare l'Ungheria. "Ma non ci fermiamo, stiamo tornando in Italia!". Niente da fare. Dovevamo tornare indietro, di nuovo tutte le colline e i campi e le anse dei fiumi e le montagne della Transilvania, di nuovo le fabbriche, le miniere, le stazioni, i pali della luce inclinati, il cemento delle periferie, i tubi arruginiti, i depositi, le caserme, indietro fino a Bucarest, dove avremmo richiesto il visto all'ambasciata ungherese. Significava allungare il viaggio forse di una settimana. E nel frattempo avevamo speso tutti i soldi.

Non c'era un'alternativa? Non potevamo fare il visto lì, sul confine? Le guardie rumene si interrogavano. Infine, la sentenza: no, sul treno non si poteva fare. Potevamo forse fare il transit-visa alla frontiera attraversata dalla strada statale, che non si trovava lì, ma in un altro punto del confine, distante, 50, 100 chilometri, più o meno. E come ci si arrivava? Dovevamo dunque prendere un treno locale fino ad Arad, poi un altro fino alla sperduta località di Natlag, e di lì a piedi fino alla frontiera.

Salimmo su una tradotta notturna. La notte non finiva mai. Insetti strisciavano nei campi, pipistrelli si alzavano in volo come nuvole. Il vagone era pieno di operai che si recavano al lavoro, poveri spettri neri. Mi sono svegliato di soprassalto, senza realizzare che mi ero addormentato; ci stavano guardando, quelli seduti, quelli in piedi, tutti con la sigaretta fra le dita nere, tagliate, non so perché, credevo fossero controllori, agitato ho preso fuori di tasca il biglietto e il passaporto allungandoli al primo che mi stava davanti. Mi scrutò interrogativamente. Non erano nessuno, erano solo i pendolari dell'alba, che andavano ad alimentare gli altiforni. Non ci stavano guardando. Stavano pensando ai fatti loro, al paradiso dei lavoratori, agli orti o alle galline, o alla fica, che ne so.

Scendemmo ad Arad. Nella piazza di fronte alla stazione, la solita massima del presidente Ceausescu, sulle magnifiche sorti e progressive. Lasciammo i bagagli in stazione. Prendemmo un altro locale fino a Natlag, il punto di non-ritorno, il paese delle oche.

A Natlag ti controllavano i passaporti appena scendevi dal treno. Era una zona sensibile. Se arrivavi lì, o ci abitavi, a Natlag, o progettavi di scappare, attraverso le paludi. Ci informammo: sì, la frontiera era a pochi chilometri, bisognava attraversare la terra di nessuno. Bastava seguire la strada. Ma servivano delle foto. Avevamo le foto? No? In paese c'era un fotografo.

Natlag una visione rurale nella luce lattiginosa del mattino. Oche e strade sterrate. Trovammo il fotografo, un vecchietto piacevolemente sorpreso della nostra venuta. Aveva una vecchia macchina fotografica montata su un trepiede, delle gigantografie da usare come sfondi. Facemmo queste immagini di viaggio nel tempo, questi scatti professionali del 1940, poi ancora oche, nuvole, pozzanghere, treno, di ritorno ad Arad, a prendere i nostri bagagli, e quindi again sul lento convoglio pendolare, avanti e avanti nella pianura...

Arrivammo per la seconda volta a Natlag. Ci incamminammo sul ciglio della strada, ogni tanto lo spostamento d'aria di un camion, oche e uccelli sulle paludi asciugate dal sole estivo, lì la terra era davvero piatta. In fondo, finalmente, la frontiera ungherese. Sembrava mancasse ancora qualcosa, un turco lo stavano tartassando, più in là, gli facevano il culo, alla fine la sbarra si solleva, sentiamo le fanfare nelle orecchie, "ora ci arrestano", lasciamo la Romania con gli zaini in spalla, addio, addio, addio, addio!
Di là della linea di fuoco c'è un trenino fino a Szeghed, Seghedino. In stazione una coppia dalla Germania Est, dalla DDR in vacanza in Romania, questo gli era toccato in sorte, vacanze in Romania. E poi Budapest, colazione, l'occhio che affoga nel cappuccino, lo scazzo finale, per tutto quel tempo passato assieme, io e Luca, la voce che si alza, nel caos del troppo sonno, nel rumore, il labirinto, rumore di poco sonno nell'orecchio. E ancora, ancora treno, l'Italia, Venezia, ubriachi, sbattendo per il sonno sui vetri, le porte, i portabagagli, i controllori, lo stupore di ritrovarmi nella valle dell'Adige, le nostre montagne, ordinate, terrazzate, infine a casa, tre giorni e tre notti senza dormire.

"E allora?", mi chiesero, appena entrato. "Com'è?".
Avrebbero accettato la mancanza di libertà, la censura, Ceausescu, il kitsch, avrebbero accettato paludi, oche, fare qualche fila, ma non si ripresero quando dissi che erano più poveri di noi. Quindi non era propaganda.
Del resto, alla fin fine, mio padre non era mai stato comunista, ma socialista.
Dormii tutto il giorno. Mia madre mi svegliò per la cena, gridai: "Siamo in Italia?"
Non capivano tanta agitazione.
Scrissi una poesia.
Non so dove l'ho messa. Sono passati quasi 25 anni. Diceva (se ricordo bene, almeno l'inizio):

Tutti i posti stanno vicino al confine

sia di tetti aguzzi o profilo cesariano

sia morto di taglio cesareo

siamo stati fin lì.

Poi scrissi loro delle lettere, e ci perdemmo. Qualche anno dopo, la rivolta, cade Ceausescu, viene ucciso assieme alla moglie, parlano di un tesoro, di ricchezze nascoste, ma in verità lui aveva addosso un cappottino. Secondo me lo fecero fuori perché c'era mezza società rumena collusa. Come con Mussolini. Uccidi il capo per coprire tutti gli altri. Ma Herta Muller nei suoi libri parla di questi altri. Dei piccoli funzionari del partito che estorcevano alle donne favori sessuali per rilasciare un visto o portare avanti una pratica, di studentesse spinte al suicidio da un regime più ottuso che realmente criminale, di gente - come lei - licenziata dalle fabbriche di stato perché non accettava di collaborare con la polizia segreta, la Securitate, e poi di pregiudizi, miserie contadine, frattaglie di animali, prugne verdi, cuoricini d'oro nascosti negli orifizi del corpo e contrabbandati attraverso la frontiera ungherese. No, Ceausescu non aveva fatto l'uomo nuovo. L'uomo rimane la bestia solita, che sappiamo, nonostante i regimi, le ideologie, le religioni, l'uomo generalmente rimane quella cosa lì.

Ho pensato a Brasov dopo aver letto Neve, di Orhan Pamuk. Ambientato in un'altra città né grande né piccola, una città di provincia, fra colline o montagne, recinti di pecore, attraversata da strade più o meno asfaltate. Mi ha accompagnato durante la lezione del ricordo la lettura di un altro libro, Il paese delle prugne verdi, di Herta Muller, pubblicato quest'anno da Keller ed. , una casa editrice di Rovereto. Non c'è nulla di drammatico nel mio ricordo, nulla come il golpe degli attori di Pamuk o il suicidio della Muller.

Ora che ho finito mi accorgo che dovrei mettermi in viaggio.

Però attenzione. Attenzione, attenzione, attenzione. C'è miseria anche di qua. Ci sono trapianti di capelli e scarpe col rialzo, barzellette sui desaparecidos, disprezzo del Parlamento, "Mussolini un grande statista", "italiani brava gente", c'è chi pensa che i rumeni siano mostri e c'è chi sfrutta il loro lavoro come ai tempi di Ceausescu, c'é chi licenzia, chi lascia bruciare gli operai nelle sue fabbriche, chi traffica in donne, chi stupra bambini, c'è chi ha giocato in borsa fino a consumarsi gli indici, c'è chi si è rifatta le tette per il Grande Fratello, c'è chi ritrova pezzi d'uomo nelle reti da pesca e li ributta in mare, c'è chi uccide i parenti e dà la colpa agli albanesi, c'è chi mena la moglie, chi fa il figo con la coca, chi beve l'acqua santa del Po, chi tocca il culo alle hostess, chi non paga le tasse, chi se ne vanta pure, chi commissiona omicidi, chi "è colpa di Saviano!", c'è chi ti imbonisce, chi ti sorride ad alta definizione, chi ti obbliga a vivere anche se vorresti morire, chi ti obbliga a morire anche se vorresti vivere, c'è chi frega sul conto, chi t'incula con garbo, c'è il rifiuto nascosto, la terra avvelenata, la ronda padana, la mosca cocchiera, attenzione, attenzione, c'è anche di qua, di qua della linea.