Vorrei uscire stasera, ma non ho uno straccio da mettermi...



Alla metà degli anni '70 sui palchi italiani volavano molotov (e lacrimogeni fra il pubblico).
Nel '77 nei pub dove nasceva il punk volavano bottiglie di birra.
Nel 1983 sul palco degli Smiths volavano gladioli appassiti.

Morrissey era tutto, fuorché la banalità espressiva.
E se c'è qualcuno che dice ancora che negli anni '80 non c'era buona musica, si ciucci il suo biberon indie-rock.

E questa è una delle canzone più dolcemente, amorevolmente decadenti che siano mai state scritte.

Freshlyground: Africa in movimento



Ho visto l'altra sera in concerto questo gruppo, i Freshlyground. Si tratta di una band sudafricana (con componenti anche da Zimbabwe e Mozambico), molto famosa in Africa (e con vari concerti all'attivo in Europa). Il tutto nell'ambito della manifestazione "Sulle rotte del mondo". La musica era il pop africano che abbiamo imparato a conoscere almeno dai tempi di Johnny Clegg e della lotta all'apartheid anche attraverso la musica.
Pop africano, quindi afro-beat saltellante, con venature soul e blues e sonorità più specificamente locali, che emergono soprattutto nei cori, nelle voci. Ma questi sono tecnicismi. Musica che trasmette gioia, ecco, e io solitamente questa musica l'assumo col contagocce. Musica positiva suonata da gente che - sia detto senza alcuna tentazione lombrosiana - lo si vede subito che è "bella", che sta dalla parte giusta, che non potrebbe mai mescolarsi ai duri di cuore, agli avidi, ai meschini, ai razzisti.

In quanto alla manifestazione in sé, durata una settimana, troppi spunti per tentare anche solo di condensarli.
Vorrei ricordare però almeno due passaggi dell'intervento di Jean Leonard Touadi, noto giornalista congolese, primo parlamentare italiano proveniente dall'Africa sub-sahariana. Il primo è tragico: "Il fondo del mar Mediterraneo in questi anni è diventato la tomba di 14.000 migranti, che con i loro corpi stanno costruendo lo spazio euro-africano."
Il secondo riguarda l'incontro fra le culture (un dato che esiste da che esiste la storia dell'umanità, in effetti...). Per Touadi esso è ben sintetizzato dalla scuola coloniale, che, "come aveva intuito l'anziano protagonista del romanzo L'ambigua avventura di Cheikh Hamidou Kane, ha reso la conquista dell'Africa perenne, perché ha conquistato le menti" (ci si riferisce qui a quella scuola che insegnava ad esempio agli africani delle colonie francesi che i loro antenati erano i Galli e i loro fiumi la Senna e la Loira).
Ma la conclusione di Touadi non è passatista: il punto non è che bisognava rifiutare quella scuola, che le culture africane precoloniali erano una sorta di Eden meraviglioso, o che sia possibile oggi rinchiudersi nella propria diversità (vera o presunta essa sia), tornare al passato, "sganciarsi" (come direbbe Samir Amin). Oggi siamo tutti necessariamente "personalità in bilico", noi e gli africani. Siamo tutti un po' di questo e un po' di quello. Sospesi fra culture diverse, nell'oceano della globalizzazione. Bisogna prenderne atto e far sì che questo meticciato dia frutti buoni.
Touadi però è ben cosciente che le posizoni di forza hanno la loro importanza, che è diverso per noi "essere anche un po' africani" (ad esempio grazie alla musica) o per un africano voler essere "un po' europeo". Le posizioni di partenza sono diverse, così come sono diverse le opportunità. "Man mano che studiavo, mi accorgevo che mi allontanavo da mia nonna", ha detto ad esempio Touadi. E quando la distanza diventa troppo grande, è più difficile essere "il lievito dentro il pane", anche se sei un noto intellettuale. E', questa, la condizione di molti africani che si sono staccati dal villaggio, dalla famiglia, dal clan. Difficile oggi per loro, specie se hanno vissuto a lungo in Europa, tornare ai loro paesi per essere il lievito delle comunità di origine, che pure ne avrebbero bisogno.
Forse, come diceva Langer, è importante sì "tradire" le proprie radici, per andare verso l'altro, per esporsi all'altro, alla differenza, al nuovo; ma bisogna conservare anche un'appartenenza, non semplicemente "passare dall'altra parte".

Questo non significa che le migrazioni non producano effetti positivi. Lo ha detto ad esempio Maria De Lourdes Jesus, giornalista di Capo Verde, che anni fa conduceva sulla Rai "Nonsolonero", prima trasmissione in Italia sull'argomento. "L'arcipelago di Capo Verde non ha nulla, è nella fascia del Sahel, non ha risorse naturali, non ha acqua. Poteva contare solo sulle sue risorse umane. Così Capo Verde ha fondato il suo sviluppo sull'emigrazione."
E sviluppo, in effetti, a suo giudizio c'è stato, qualsiasi cosa significhi questa parola, come mi sento spesso in dovere di chiosare.
Ricorda un po' l'Italia, tutto questo. Ricorda un po' anche il Trentino.

(Foto: R. Magrone)