Pamuk, Brasov e la città perfetta (1)

Ho terminato ieri sera Neve, di Orhan Pamuk, lo scrittore turco premio Nobel per la letteratura 2006. E' un romanzo lungo, impegnativo, e al tempo stesso molto incalzante, molto ricco di colpi di scena. Ha per protagonista un poeta turco esule in Germania, Ka, il quale ritorna in patria e decide di recarsi nella remota città di Kars, in Anatolia orientale, dove alcune ragazze islamiche si sono suicidate dopo che la scuola ha loro proibito di portare il velo. Al di là dei temi trattati - il contrasto fra religione "militante" e laicità imposta dallo Stato (quello kemalista, realizzato da Ataturk per occidentalizzare la Turchia dopo il crollo dell'impero ottomano), ma anche l'amore e la nostalgia in tutte le loro varianti (compreso l'inganno e la gelosia) - nel romanzo di Pamuk la vera protagonista è la città di Kars, sepolta da una nevicata che per tre giorni la isola dal resto del mondo, accentuando ancora di più la sua distanza e la sua solitudine (ma anche il suo essere microcosmo a suo modo affascinante).
Conosco bene la geografia dei luoghi: sono almeno vent'anni che progetto un viaggio in Anatolia orientale, anche se i casi della vita mi hanno portato a visitare tanti altri posti "strani", ma non questo. Leggere Neve, però, mi ha spinto a chiedermi quale sia la mia Kars, quale sia, insomma, il mio remoto luogo dell'animo, il mio altrove, la mia città perfetta sotto a cieli perfetti, all'incrocio dei venti, nella perfetta congiunzione astrale. Londra, Cochabamba, Bologna, Dar es Salaam, Oporto, Bassano del Grappa, Pechino, Pitigliano, Lima, Merka, Buenos Aires, Sarajevo, Palermo, Colombo, Venezia, Tomar, Parigi?

Di tutti, ce n'è una che svetta nel ricordo-che-non-passa: Brasov.

Brasov è una città rumena, capitale della regione della Transilvania. Adolf Menschendorfer, la descrisse nel suo La città nell'Est, sottolineando il contrasto fra la civiltà urbana, espressione dell'ethos borghese, e l'Est, la dimensione degli spazi aperti e del nomadismo. Decisi di visitarla - senza saperne nulla, nemmeno che cosa ci fosse da vedere - in un'altra stagione della mia vita, una stagione in cui tutto andava bene: avevo terminato il primo anno di università, senza alcun problema, ero libero tutta l'estate (avrei lavorato in autunno, per la raccolta delle mele) e un'amica mi aveva suggerito di comprare un Bige (ticket ferroviario scontato) per Budapest, dicendomi che costava pochissimo. All'epoca - il 1985 - questa parte dell'Europa era ancora oltre la Cortina di Ferro. Si sapeva poco di essa, se non che per andarci ci voleva un visto. Guardai una cartina: vidi che dopo Budapest e la Putza ungherese la ferrovia proseguiva in Romania, arrivando fino in Transilvania. pensai che quello era il momento di realizzare un sogno coltivato da bambino, quando, dopo aver letto il Dracula di Bram Stoker, mi ero imbattuto in un articolo della Domenica del Corriere che narrava le gesta del Dracula storico, il principe rumeno Vlad II "Tepes" (l'impalatore), una sorta di eroe nazionale in Romania per essersi a lungo opposto con successo agli invasori turchi.

Così - assieme ad un amico - mi misi in viaggio. La Romania non era, come oggi, sinonimo di immigrati stupratori. Era un paese comunista governato da un regime poliziesco, quello di Ceausescu (in realtà piuttosto ben visto dall'Occidente perchè inviso a Mosca). Una terra di cui si sapeva quasi nulla tranne che avevano scoperto una straordinaria cura contro l'invecchiamento basata su un fango misterioso, il gerovital (un "pacco" pazzesco, ovviamente).

Andare laggiù da soli, con uno zaino in spalla e un sacco a pelo, era una scelta quantomeno stravagante: fin dalla partenza ci imbattemmo nello stupore dei bigliettai (all'epoca sui treni i biglietti ancora li controllavano) che non riuscivano a capire perché volessimo andare in Transilvania in pieno agosto, anziché a Rimini. Né lo facevamo per turismo sessuale; figurarsi, eravamo romantici fino al midollo (e comunisti, per giunta!). Mai avremmo usato il nostro denaro (che era pochissimo, alla partenza, ma divenne tantissimo in Romania quando facemmo il cambio al nero) per portarci a letto qualche povera ragazza rumena (o ungherese) in cambio magari di un paio di scarpe da 2mila lire (come vedemmo fare a Budapest da un avvocato romano, che girava con una stanga bionda, stile fotomodella per hobby, e ci prese per due allocchi provinciali).

Lo facevamo per andare lontano, questo sì. E se per il Kerouac de Sulla strada lontano era sinonimo di Messico per noi era sinonimo di Est, frontiere, passaporti, militari sui treni, perquisizioni, stelle rosse, "compagni", sol dell'avvenire, e poi, più tardi, con il procedere del viaggio, disillusione, povertà, culto della personalità, fare i conti con l'ideologia, non accettare che sia tutto falso, interrogarsi su ciò che è vero.

Avevo 20 anni, non avevo ancora trovato l'amore (sarebbe successo qualche mese dopo): ero libero, assetato, povero, arrogante, imperfetto, inesperto, intelligente, timido, felice.