Pamuk, Brasov e la città perfetta (3) - come si cambia

Brasov. Non molto diversa da Bolzano (infatti al ritorno, quando mostravamo le foto, ci dicevano: Che cazzo ci siete andati a fare?)

E' così, quando inizi a scavare saltano fuori per caso le cose più disparate, solo due metri più in là. Non ho mai trovato un romanzo che parlasse della Romania di quegli anni, la Romania, di Ceausescu, gli anni '80, l'Occidente ubriaco di Borsa e riflusso, occasionali attentati terroristici di (ancora!) le Brigate Rosse, e a poche decine di chilometri da qui l'Est, la Romania, una dittatura che tutti facevamo finta di non vedere, preoccupandoci (giustamente, o meglio comprensibilmente) del Nicaragua, del Cile, ma ignorando tutto di queste miserie europee, di casa nostra (per non dire dell'Afghanistan).

E poi adesso che ho cominciato a scrivere, mi viene nelle mani questo libro di una certa Herta Muller, classe 1953, Il paese delle prugne verdi, che proprio di questo parla - con stile immaginifico, molto femminile, molto ostico per me - cioé della Romania di Ceausescu, di tutto quello squallore e quell'ipocrisia, assieme a operai bisunti ubriachi appena fuori dalle fabbriche, campi sterpaglia, pulci delle piante, fuligine e cieli, cieli, nuvole, studenti, siccità. E io sono ancora allora, in quel treno, con genitori entrambi vivi che mi aspettano a casa e a cui cerco di telefonare, e l'università che mi aspetta a Bologna, e le mele da raccogliere sugli alberi settembrini, e la birra e la palinka che bevevano là, a litri, e scioglieva la lingua. Come si cambia per non morire, no? Come si cambia per essere sempre al punto di partenza più confusi e insoddisfatti di prima solo che adesso ho visto morire, ho visto qualcuno morire e so com'è, so che hanno lo stesso sorriso stupito in faccia come a scusarsi e a dire: "Tutto qui?"
Ma lo dirò in un'altra occasione, concentriamoci sulla Romania, estate 1985, viaggio a Brasov resuscitato alla memoria dalla lettura del romanzo Neve di Orhan Pamuk.

Sì, insomma, eravamo rimasti che ce ne stavamo andando, via da Budapest, dalle sue architetture asburgiche, dalla sua patina conformista, si va, finalmente, verso l’ignoto che fa tremare le palpebre! Si va col cuore in gola, come gente niente abituata a viaggiare, e il pacchetto di sigarette infilato fra la maglietta e la spalla, a sentirsi più coraggiosi, e basta.
Alla frontiera ungherese era salita una squadra, molto marziale, fucili a vista, avevano frugato dappertutto. Al confine rumeno invece ci accolgono più bonariamente. Un milite estrae dal mio zaino un tascabile di Hemingway. Attimo di imbarazzo. Come la prenderà? “Ah, lo scrittore americano che ha combattuto nella guerra di Spagna”.
Tutti sorridono, approvano con vigorosi gesti del capo. Ma rischiamo subito un incidente diplomatico, quando mostriamo i passaporti.
“Italiani? Discendenti dei Cesari!”. Crediamo sia una frase di scherno, cerchiamo la replica adatta, che combini l’ideologia presente alla storia passata di queste terre.
“Romani imperialisti” ci sembra la più giusta. Nel posto da dove veniamo noi, un’altra terra di confine, prima austriaca, poi italiana, per gli incerti della storia, sarebbero in molti a sottoscriverla. I loro volti esprimono disappunto. “Imperialisti? Civilizzatori!”. Qui, sulla frontiera, ci viene dato un primo saggio della smodata fierezza che i rumeni nutrono nei confronti delle loro parentele con il mondo latino, fierezza nella quale siamo destinati ad inciampare ad ogni passo.

Andiamo verso Brasov, la città nell’Est. Intanto fuori dal finestrino sfila la campagna rumena. Di fronte a noi siede un signore bulgaro, rugoso, sui palmi colline di calli di uno che ha fatto tutta la vita lavori manuali. Attacca una conversazione fatta di pochi vocaboli internazionali e molti gesti, molte mani che sfarfallano davanti alla faccia ad indicare concetti impalpabili. Ci stupisce con la sua cultura. Snocciola in bell’ordine date e nomi di papi morti, guerre, trattati diplomatici. Che razza di contadino è questo? Spia della Stasi? Lupo grigio? Pure, gli guardo le mani e sono quelle che sono. I piedi, le orecchie. Insomma tutto. Ne sa più lui di noi, in quanto a storia moderna. Incredibile.
Nel frattempo la Romania si svela, oltre la fragile barriera del veicolo. Ecco il comunismo. Allora avevo letto nulla, adesso che ho letto Doris Lessing so che ho fatto i suoi stessi pensieri, anche lei, arrivando a 30 anni dalla Rhodesia nel porto di Londra, guardava stupita gli operai dei docks e si chiedeva: "Possibile siano loro? Possibile sia questa la mitica classe operaia destinata ad ereditare la terra?".

Scorrono cortili, casematte, pali della luce come nei film western, tutti inclinati, pericolanti, mezzi marci, fabbriche da cui escono lavoratori neri di sudiciume, mai visto gente conciata così, mio padre tornava dalla fabbrica ripulito, qualche bruciatura del saldatore, ogni tanto, certo... Sfilano stazioni i cui nomi sono sormontati da grandi cartelli con sopra scritte le massime del presidente Ceausescu, come quelle fatte incidere da Mussolini nei marmi della mia città, la stessa tronfia retorica, la stessa pedagogia boriosa, la stessa, identica diffidenza verso il nemico di sempre il nemico di ogni dittatura (e di ogni religione), l'individuo, la testa pensante, la canna risonante.
Il bulgaro organizza una pantomima, sta cercando di comunicarci qualcosa, un concetto, ci impieghiamo cinque minuti a capirlo, ma infine la forza dei gesti ha il sopravvento sull’odiata diversità linguistica, retaggio di un castigo biblico: “Voi giovani, dovete portare il mondo”. Io da un lato sono commosso, da molto tempo nessuno ci dice cose così, a scuola o altrove. Semmai siamo stati avvisati: che dobbiamo stare in campana, che siamo candidati alla disoccupazione, c’è anche un realismo capitalista, oltre che un realismo socialista. Ma deve aver colto un lampo di delusione nei nostri sguardi. Vede i nostri sorrisi sfaldarsi davanti a bicocche rurali, di grande povertà. Si sforza di arginare il diluvio del disincanto. “In Bulgaria le case sono più grandi, sono bigger, bigger. Perché non venite in Bulgaria”.
Ma no, grazie, grazie tante. Un’altra volta, forse. In un’altra vita.
In fondo alla pianura sorgono palazzi senza grazia. Sotto un cielo nerissimo, praticamente temporale, la città si dispone al tramonto. Del resto, in fondo al mio animo malinconico, c’è una bellezza anche nel cemento armato, e ce n'è un'altra nei fiori che crescono sul ciglio delle ferrovie (come il fiore giallo di Ginsberg), e c'è una bellezza particolare nei neon che sfrigolano neri di insetti in qualche bar miserabile e nelle pianure disadorne e negli agosti vuoti e insomma dappertutto dove non luccica scintillante l'industria dello spettacolo.

Piaccia o no, tocca di scendere. Salutiamo il nostro compagno di viaggio e scendiamo a Brasov, unici turisti, almeno per quel giorno, e quel treno.

Ci incamminiamo dunque, nella penombra, in questa esaltante, estrema libertà, di cui far scorta, per tutte le stagioni a venire, ci inoltriamo nel ventre della stazione, torve facce transilvaniche occhieggiano dietro ai piloni, presto siamo già lontano dai binari, si sente solo il rumore del treno che sparisce, inghiottito da incomprensibili distanze, paesi, pianure, Sofia, Istanbul, Ankara, Diyarbakir (Kars?) con dentro il nostro amico bulgaro, ormai in viaggio verso remoti orizzonti orientali, ah, sì, è così. Addio! Addio addio addio addio addio!"

Non ricordo tutto. Credo si prese un tram per il centro. Si domandò in un albergo, era troppo caro, si trovò una stanza in cima ad una scala di legno dietro un angolo, hotel Sport. Ricordava la casa della zia Ines. Piena di tarli e fantasmi. Mi piaceva.
Poi si uscì per cenare.