Non siamo Singapore

Sempre a proposito di legalità, illegalità, democrazia, nuovo autoritarismo ecc. (di cui scrivevo diffusamente sul post precedente)

certo fa un certo effetto, in un paese in cui si leggono notizie come questa:

"Scuole, parcheggi, strade, case e opere pubbliche costruite con materiale di scarto industriale, rifiuti tossici e sostanze cancerogene. E' quanto emerge dall'operazione della polizia denominata 'Black Mountains' che questa mattina ha portato al sequestro di ben 18 aree disseminate lungo tutto il territorio crotonese fino a Cutro e Isola Capo Rizzuto, aree ad alta densità mafiosa nell'entroterra (...)" ("La Repubblica")

leggere anche che

"(...) il rischio è divenire una versione ingrandita di Singapore, supertecnologici e ipersicuri laddove tutto è prescritto e controllato e sanzionato" (Filippo Facci, "Il Riformista").

No, mi pare che l'Italia non corre il rischio di diventare come Singapore.

Fine della democrazia?

Sui giornali di oggi si confrontano opinioni diametralmente opposte. "La Repubblica" pubblica ad esempio un articolo del direttore di "Famiglia cristiana", don Antonio Sciortino, nel quale si legge che "in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (...) ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco". Poco più avanti don Sciortino cita la tesi della rivista francese "Esprit", per la quale ci staremmo avviando verso la fine del ciclo democratico. "La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell'elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente." Corollario di questa posizione è che nei desideri della gente - i desideri non mediati, i desideri "di pancia" - si esprima il populismo di fondo che alberga da sempre negli italiani (ricordo la prima lezione che imparai alla facoltà di Scienze politiche quando vi approdai da giovane matricola "di sicura fede democratica e antifascista", convinta che fosse diritto dei cittadini esprimersi sempre e comunque su tutto: "Se facessimo un referendum sulla pena di morte oggi in Italia, i sì vincerebbero senz'altro", sentenziò il mio professore di diritto costituzionale. E aveva ragione).

Di tenore diverso un articolo di Filippo Facci sul "Riformista". Riprendendo un intervento di Michele Ainis, Facci sostiene innanzitutto che è finito un ciclo. "Fra gli anni '60 e gli anni '80 l'Italia è stata il paese più libero e felice del mondo: ma era una cambiale in scadenza (...). Ciò che è finito, più che liberalismi e libertarismi estinti in ogni dove, è quel suk latino dove ogni accomodamento e mediazione italiana poteva infine trovare spazio." Per Facci, dunque, l'attuale ondata populista in fondo è soltanto l'applicazione di norme già esistenti e, se mai, fino a oggi disattese: contro i clandestini, contro i "fannulloni", contro chi devasta il patrimonio pubblico, contro chi guida ubriaco ecc. Facci riconosce che alcune misure, come il decreto sulle lucciole, sono "buffonate", e non risolvono minimamente il problema. Ma ritiene, se non ho capito male, che un "giro di vite" fosse necessario e che la minaccia più grave alla libertà sia oggi rappresentata non dall'autoritarismo quanto proprio da un eccesso di libertarismo, di richieste riguardanti la libertà e l'autonomia di individui, piccoli gruppi, "minoranze". Richieste che disgregano la società e alle quali la società risponde rinunciando a un po' di libertà in cambio di maggiore sicurezza (Freud).

A me pare che entrambe le tesi siano a loro modo suggestive. Certamente il governo Berlusconi sta interpretando una domanda di semplificazione che gli giunge da un corpo sociale a cui il pensiero complesso è sempre più estraneo. Se i problemi (poniamo, quello dell'immigrazione) sono difficili da affrontare, pieni di sfaccettature, di risvolti umani (e disumani, come le morti degli immigrati nel canale di Sicilia o il trattamento loro riservato dalle autorità libiche), la risposta al contrario dev'essere semplice, brutale, risolutiva. Don Sciortino pone inoltre il problema della democrazia dal basso, della democrazia come l'articolarsi del dibattito politico e dell'agire politico nelle comunità: è un problema che si avverte anche in territori dove la partecipazione - mediata dai corpi intermedi, come le associazioni, le cooperative, le parrocchie ecc. - è sempre stata molto forte, come ad esempio in Trentino. La convinzione di fondo è che il libero confronto, anche quando è aspro, acceso, porti a un bene superiore per tutti. Che le posizioni estremiste e più pericolose, come il razzismo, si stemperino nel percorso partecipativo, nel dialogo. Questa fede nella "dialettica" forse è molto cristiana ma per me è molto socratica (e molto nobile).

Del resto, non ha tutti i torti anche Facci quando lascia intendere che certe misure non sono né di destra né di sinistra: tutti i cittadini vogliono, almeno a parole, una giustizia efficiente e che punisca i colpevoli (specie quelli che sono protagonisti del fatti di cronaca nera), un'amministrazione pubblica più efficiente (fisco a parte) e così via. E aggiungiamo: a volte purtroppo la dialettica in Italia non porta a un bel nulla se non a un eccesso di retorica. Il nostro è (anche) il paese dell'Azzeccagarbugli.

Due osservazioni, però: la prima è che si fa fatica a prendere sul serio la voglia di rigore di un popolo che da sempre pratica disinvoltamente l'evasione fiscale, l'arte della raccomandazione, la violazione sistematica delle regole del codice della strada, l'abusivismo edilizio ecc. Un popolo insomma che con la corruttella va a braccetto, anche se poi finge di scandalizzarsi.
La seconda è che mi sembra fin troppo facile scaricare le contraddizioni del presente su chi rivendica il rispetto dei diritti individuali (o di alcune minoranze). Ci sono a tutt'oggi questioni importanti riguardanti la parità fra uomini e donne, la tutela della paternità e della maternità, la famiglia (in tutte le sue varianti), la scuola, la sessualità, l'eutanasia, la libertà della ricerca scientifica ecc. che rimangono irrisolte, vuoi per mancanza di volontà politica (a destra come a sinistra), vuoi perché, come dice anche Enrico Rusconi, "l'Italia è il meno laico dei paesi europei". Insomma, non vorrei che si dipingesse ad arte un'Italia "relativista" e "laicista" quando invece essa è tutt'altro: e cioè, ancora, per molti versi, il paese perbenista degli anni '6o e seguenti, dove politici divorziati, risposati o con codazzo di amanti e "amiche" (o "amici") sfilano al Family day e ricevono le benedizioni papali, dove i medici si dichiarano antiabortisti in pubblico e praticano gli aborti in privato (nelle loro cliniche private), dove la droga è vietata dappertutto tranne che nei salotti buoni e così via. Anche questo è il suk latino.