Aspetto

Quando, la sera, milioni di persone rientrano a casa dal lavoro, rientrano a casa solo per evadere di nuovo, con internet, la tv, i telefoni, gli avatar.
Ma io no. Io siedo qui e ti aspetto.

Sei partito un anno fa, hai abbandonato tua moglie. Sei andato in Italia, poi in Francia. Hanno detto di te che vivevi nei boschi, ci sono stata, non era come mi avevano raccontato, non come mi aspettavo, si vede un’autostrada che taglia un fondovalle in due, vigneti da ambo le parti e poi colline boscate, tigli, castagni, querce, e ai piedi di quelle colline aziende agricole, non cadenti case coloniche, non rovine coperte di edera o capitelli spezzati e ai piedi delle colline silos e capannoni, ai piedi delle colline strade serpeggianti e ruspe abbandonate accanto a terrapieni, non era il paesaggio che mi ero aspettata, non aveva nulla a che fare con Into the wild o con Jack London, non c’era niente di selvaggio ma se vuoi scomparire puoi farlo anche nel bosco dietro la fabbrica, se vuoi morire puoi morire anche nel vigneto, morte nel vigneto, sembra il titolo di una poesia, noi leggevamo poesie assieme, tu e io, leggevamo poesie la sera, i classici inglesi, i moderni, anche i francesi, leggevamo poesie, madre e figlio, figlio e madre, guardando scorrere il Tamigi, dalla nostra mansarda, eri già più un uomo che un ragazzo, certamente più un ragazzo che un bambino, conoscevi la poesia, credevi di conoscere la vita ma io sapevo che non conoscevi la vita, sapevo la tua fragilità perché me l’ero portata in grembo, avevo sentito come uno strappo, lì, come un piccolo dolore, quando eri in grembo e non scalciavi, ti succhiavi le dita e il mio ombelico senza scalciare mai, e poi in braccio, l’avevo cullata, in braccio, la tua timidezza, la tua inadeguatezza, il tuo dolce sognante soffrire, quando sei andato in sposo il tuo sorriso sulle foto era insincero, avevi il sorriso insincero dei poeti, i poeti appartengono solo a se stessi e alle loro madri, non alle donne, non agli uffici dove vengono caricati di responsabilità che non sono in grado di affrontare, non ai soldi che avevi in tasca, avevi trentamila euro e quattromila sterline e sei morto di fame, avevi trentamila euro e poco lontano da quella radura un autogrill, un paese, un supermercato, i contadini sapevano che eri lì, i cacciatori ti avevano visto vagare, ti avevano chiesto che cosa facevi, che cosa volevi, di che diavolo avevi bisogno, tu avevi risposto che non avevi bisogno di niente, avevi tirato fuori le banconote dalle tasche del giaccone impolverato, del giaccone pieno di macchie, qualcuna ti era caduta, si era mescolata alle foglie dei tigli e delle querce, avevi detto “vedete? Sono pieno di soldi”, eri ancora pieno di soldi, tua moglie non era rimasta a secco comunque, la donna della tua vita, ti aveva lasciato andare, così mi ha detto, che ti aveva lasciato andare, che non eri felice, la felicità non c’entra nulla, quanto poco ti conosceva, tu eri malato, fragile e malato, oggi non puoi far ricoverare nessuno se non ci mette la sua firma, oggi i malati sono lasciati a se stessi, sei andato in Italia, con il tuo dolce sognante soffrire, sei andato in treno, sei andato a piedi, non sapevi una parola d’italiano, non in Toscana, dov’è pieno di inglesi, come te, sulle montagne del Piemonte, all’ombra di quelle montagne, una città di caserme e strade diritte, lì al massimo capiscono il francese, cosa ci facevi lì, fossi sceso in Sicilia, dov’è caldo, no, al freddo, te ne stavi al freddo, dormivi per strada in una piccola città dalle strade dritte, cosa cercavi, in quella piccola città, forse la luce, era quella luce particolare che ti aveva attirato, non lo sapevi neanche tu, non hai conosciuto nessuno, ti sei fatto curare un ascesso, hai trascurato cose ben peggiori, i polmoni, i bronchi, le masse spugnose, i filamenti, la tosse, hai passato le Alpi, come Annibale, come Rimbaud, sei andato in Francia, un’altra valle, il vino, un lavoro temporaneo in un’azienda, agricoltori, coltivatori, gente semplice, illusione di una vita diversa, un’altra vita, tutti cerchiamo un’altra vita, la vita è la vita, che c’è da dire, non l’avresti accettato mai, sei sempre fuggito, lontano da me, verso di me, verso di me, e poi nel prato, dietro la fabbrica, verso di me, che ti tendevo le braccia, una tela cerata per tetto, un cartone per materasso e le lumache dappertutto, viscide mucose brune, i polmoni, il catarro, i filamenti, sei rimasto lì quindici giorni con il tuo dolce sognante soffrire, nell’odore del mosto, dei tini, del marcio, sei rimasto quindici giorni sulle foglie, sapevano che eri lì, gli operai ti avevano visto, i cacciatori ti avevano detto di non mangiare quei funghi, avevi mostrato loro i soldi, tanti soldi, “non ho bisogno di niente”, e poi pare tu abbia aggiunto family problems, ma quelli lì non conoscono l’inglese, chissà cos’hanno capito, hanno capito quello che volevano capire, c’era l’autostrada a un chilometro, di sicuro sentivi il rumore, camion, macchine, autotreni lanciati a tutta velocità verso la costa, la Spagna, l’Italia, attraverso le valli alpine giù giù fino al mare senza misteri, hai trascinato la cerata nel folto del bosco, hai trascinato sulla collina la tua cerata, hai cercato di fissarla a due rami, perché ti facesse da tetto, niente da fare, ti è caduta sopra, ti è caduta sopra mentre respiravi male, ti ha coperto nella notte umida, ti ha coperto nella notte che gelava, mentre respiravi male, nella notte di ottobre, mentre mi chiamavi, nella notte, e sono passati dieci autotreni, cento autotreni, e sono passati altri cento autotreni, nella notte, e poi non respirarvi più.

Quando, la sera, milioni di persone rientrano a casa dal lavoro, rientrano a casa solo per evadere di nuovo, con internet, la tv, i telefoni, gli avatar.
Ma io no. Io siedo qui e ti aspetto. Apro un libro di poesie, leggo e ti aspetto.

(da La calda notte degli avatar, liberamente ispirato a un fatto di cronaca)