Una sera a teatro - La follia di Ofelia

Sala raccolta, si chiamava "teatro sperimentale", fino a qualche anno fa, ora è intitolata a un signore che non conosco. File quasi piene, pubblico eterogeneo, a Trento il teatro piace sempre. Si spengono le luci, inizia "La follia di Ofelia", di Michela Embriaco, Multiversoteatro.

Questa non è una recensione. Le recensioni mi hanno stufato da un pezzo, la recensione, come genere, andrebbe decostruito, sovvertito. Questi sono i frammenti che uno si porta a casa, appiccicati alla giacca e nel garbuglio dei capelli, come i coriandoli del pomeriggio, che ho spanto stanotte sul cuscino.

Un flash sull'adolescenza, il gioco delle differenze che si riconoscono, il budello che si gonfia, quel solco insanguinato fra le gambe che lascia una scia rossa dove passa, ma non sempre.

Due giovani uomini aggrediscono una giovane donna in piedi, la spingono, la forzano con i gomiti, gli avambracci, cercano di spostarla, lei resiste, la testa si piega, la violenza.

I corpi, la fisicità. Corpi bianchi, reali, vivi, imperfetti, corpi dentro a mutande e cannottiere bianche, a sottovesti, illuminati a giorno, coraggiosamente esposti, che danzano la maturità sessuale, il conflitto che essa scatena, la concretezza della donna (il suo essere materica, ctonia, avrebbe detto Bachofen), l'astrattezza dell'uomo, e poi le parti si scambiano. Una cravatta su un petto glabro, una benda sugli occhi, corpi avvinghiati su una sedia.

C'è un testo poetico, evocativo, che accompagna le varie scene. Che introduce al tema della follia, ad una donna in piedi dentro ad una vasca che si versa dell'acqua sul capo, con una brocca. Spesso ho trovato i testi ridondanti, inadeguati, ma non stavolta. Stavolta il testo è perfetto, non troppo invadente, non inutile.

Una donna in piedi su una vasca, vestita, si versa dell'acqua sul capo. Si strofina le braccia, cerca un'impossibile pulizia, cerca di lavarsi di dosso i profumi delle amiche che le hanno fatto visita. Poi arrivano i carcerieri, crudelmente la riducono alla ragione e nel farlo, la rimproverano, la deridono. Siamo in un manicomio. Il mondo intero, un manicomio? Sarebbe molto shakespeariano. Lo abbiamo fatto tutti, rimproverare una persona per la sua difformità, per il suo inguaribile "altrove", il suo non-essere ciò che vorremmo fosse, il suo essere solo malata. E' un passaggio che risveglia dei ricordi. Per un istante gratta, ferisce.
Se vi dicono che la sofferenza rafforza, portateli qui.

C'è una sposa spaesata. C'è la fatica del vivere gli amori, del vivere la vita. C'è molta emozione. Giovinezza, anche. Pance, polpacci. Rischio e asperità.

E c'è una possibile via d'uscita, alla fine. Il palcoscenico debolmente illuminato da dei lumini. Una ninna nanna nell'aria. Un uomo/bambino poggia la sua testa nel grembo di una donna. Una possibile riconciliazione. Una possibile via d'uscita, fuori le mura, fuori dalle gabbie dei generi, dalle gabbie generazionali. Possibile, non scontata.
La mente va ad Alda Merini. A Dean Moriarty.