OLD STAR

Sotto un cielo ancora parzialmente sereno fece il suo ingresso on stage, salutato da uno scroscio di applausi come acqua in una fontana. Un tempo ci sarebbe stato un boato, un ruggito, l'energia compatta, quasi solida, dal prato verso il palco, lo spostamento d'aria di una bomba quando esplode, l'impatto di un treno merci lanciato a tutta velocità contro un monolite di basalto indistruttibile.
Un tempo così si visualizzava, come un monolite di basalto, l'aiutava a reggere la tensione dei primi minuti, quando il pubblico ai suoi piedi iniziava a saltare o a sbandare, e poteva accadere a volte che una ragazza finisse sotto o la schiacciassero contro le transenne (i roadies dovevano essere veloci a strapparla da lì e metterla al sicuro).
Ci fu anche una stagione in cui tiravano le molotov, la stagione della contestazione in cui, in Europa, incendiarono il palco ad un'altra rockstar, a lui non era dispiaciuto perché odiava quel coglione, ma quando, a Roma, si era visto arrivare i sassi e le bottiglie di vetro dal mare nero di giubbotti di pelle aveva avuto paura e da allora l'inquietudine gli era rimasta. “Basalto nero”, così gli sussurrava il manager all'orecchio, aveva capito che con "roccia" non funzionava, basalto nero, come il coach al pugile seduto nell’angolo, in attesa del prossimo round. Per molti anni la sensazione era stata amplificata dalle droghe, si piantava nel centro del palco davanti all'asta del microfono con la chitarra imbracciata e non si muoveva più per due ore, non concedeva nulla alla scena, non ballava, non si agitava, era diventato il suo tratto distintivo (tutto ciò nella sua età matura, ovviamente), il pubblico l'aveva seguito, aveva imparato ad amare quell'immobilità magnetica, mentre la musica mugghiava tutt'attorno, elettrica, caos controllato e condensato in tre accordi.
Il profilo della città era molto cambiato da allora. C'erano stati i due 11 settembre, quello del 2001, con il quale erano sparite le Torri, e poi quello del 2014, che aveva cancellato il Chrisler e una dozzina di altri grattacieli. Da allora New York non si era più ripresa. Nonostante la Guerra finale, nonostante i programmi di ripopolamento, l'esodo non si era fermato. Nei due anni successivi al secondo attacco la Grande mela aveva perso metà dei suoi abitanti. Il grosso del giro di affari si era trasferito altrove e adesso Manhattan assomigliava un po' di più alla città che lui aveva conosciuto da ragazzo, un luogo losco e vivace, popolato di personaggi deliziosamente squilibrati, di predatori e prede, di gente alla ricerca di qualsivoglia opportunità.
Ma era solo un'impressione. Ad un livello più profondo, sotto la superficie della decadenza scintillante, che generava sempre nuovi eventi e nuove forme d'arte, i suoi occhi esercitati riuscivano a cogliere le reali linee di frattura, il degrado senza rimedio. Anche quel festival, in fondo, rappresentava una risposta debole. Certo, aveva attirato lì 200.000 giovani. Ma se ne sarebbero andati - quasi tutti - non appena l'ultima nota fosse stata suonata. Chi attirava oggi la città? Sbandati, avventurieri, gente che non aveva nulla da perdere. Molti erano anziani, vedovi o donne separate, gente della sua età.
Guardò il bassista alla sua sinistra. Di lui si fidava. Da anni ormai poteva suonare solo con le cuffie e anche così il suono della chitarra gli arrivava ovattato. E quello della band era solo un fragore sullo sfondo, un temporale che saliva e scendeva. Del bassista però si fidava. Riconosceva le note che pizzicava sulle quattro corde del suo strumento dalla posizione delle dita. Era il migliore del gruppo. Assieme avevano suonato di tutto, i pezzi aspri e malvagi degli esordi, le canzoni sull'eroina e sul sadomasochismo, che avevano destato tanto scandalo subendo i colpi gloriosi della censura, che avevano fatto schizzare la sua popolarità alle stelle; poi il periodo orchestrale, quando i testi erano diventati sardonici e allusivi, pervasi da un cupo umorismo gay; quindi i successi dell'età matura, solide composizioni che riassumevano il senso di una carriera e di una vita che nessuno avrebbe immaginato così lunga, nemmeno lui stesso; e ora la produzione recente, quella rarefatta, poetica, venata di malinconia, vero specchio della metropoli e dei suoi abitanti, fotografia del cambiamento e della caduta, su cui si riflettevano gli splendori del passato.
Guardò il pubblico sul prato. Molti passeggiavano, si baciavano, facevano la fila alle fontane. Credevano di conoscerlo, credevano di sapere tutto di lui, perché la sua carriera era stata un diario pubblico, un continuo mettersi a nudo. E invece non sapevano del suo mal di schiena, della scortesia di uno, all’hotel, che evidentemente non l’aveva riconosciuto o non aveva proprio idea di chi fosse. Non sapevano nulla del diventare vecchi, della difficoltà di ricordare i testi delle canzoni.
Sotto al palco, in religiosa attesa, c'erano non più di un paio di migliaia di persone. I fedelissimi, fra cui anche qualche amico d'infanzia con il quale aveva ascoltato Presley, i Drifters e i grandi tenori, quando nel Bronx ci vivevano ancora tanti italiani. Altri ne sarebbero arrivati quando avrebbe attaccato il suo brano più famoso, considerato il vero inno cittadino, il capolavoro letterario-musicale popolato di travestiti e papponi, di spacciatori e puttane, che alla sua uscita aveva fatto gridare al miracolo, la sintesi neorealista di una vita spesa all'ombra dei grattacieli, nelle strade raccontate da Delmore Schwarz e James Leo Herlihy e Don De Lillo e Tama Janowitz e Rick Moody. Ora al posto di quelle ombre c'erano buchi, voragini, cantieri.
Qualcosa tremò sulla sua guancia. Si chiese se a metà concerto avrebbe avuto bisogno di sedersi. La mano cadde pesantemente sullo strumento, facendo esplodere un re maggiore. Uccelli volarono via nel cielo ancora parzialmente sereno.
Si sentì vivo, dopotutto. Un monolite di basalto, nero, indistruttibile, altissimo, si vedeva proprio così, altissimo, dall'alto dei suoi ottant'anni.