Philip Larkin - Aubade

Interamente debitore per questo post a http://poesiesenzapari.blogspot.it/


Philip Larkin

AUBADE


Lavoro tutto il giorno, a sera sono brillo.

Alle quattro sto sveglio nel buio muto, fisso.

Gli orli delle tende via via schiariranno.

Frattanto vedo quello che in realtà c’è sempre:

la morte infaticabile, d’un giorno intero più vicina,

che rende ogni pensiero impossibile tranne

come dove e quando dovrò morire io stesso.

Arido interrogarsi: eppure la paura

di morire, d’essere già morto,

lampeggia nuovamente, avvince e terrorizza.



La mente sbianca all’abbaglio. Ma non di rimorso

– il bene non fatto, l’amore non dato, il tempo

strappato e non usato – né disgraziatamente

perché una sola vita può spendersi tutta a riscattare

i suoi inizi sbagliati, e non riuscirci mai;

ma per il vuoto totale ed eterno,

la sicura estinzione alla quale andiamo incontro,

dove saremo persi per sempre. Non essere qui,

né in nessun altro luogo,

e presto. Nulla di più terribile, nulla di più vero.



Ecco un modo speciale di prendersi quella paura

che nessun trucco scaccia. Provò la religione,

quel logoro e vasto broccato musicale

creato a farci credere che non morremo mai,

tutte quelle sciocchezze del tipo Nessun essere pensante

può temere una cosa che non sente, senza accorgersi

che è questo a spaventarci: niente vista, niente suono,

niente tatto o sapore, né odore, niente con cui pensare,

niente da amare e niente a cui legarsi,

l’anestesia dalla quale nessuno si risveglia.



Così rimane ai margini della visione,

una piccola fioca presenza, un freddo immobile

che frena i nostri impulsi fino all’indecisione.

Tante cose potrebbero non accadere mai:

questa accadrà, e il capirlo deflagra furioso

in bruciante paura se ci coglie senza niente

da bere o compagnia. Il coraggio non serve:

vale a non spaventare altri. L’essere forte

non risparmia la tomba a nessuno.

La morte non cambia se frigni o se l’affronti.



Lentamente la luce cresce, la stanza prende forma.

Certo come un armadio sta quello che sappiamo,

che abbiamo sempre saputo, che non si può sfuggire,

ma nemmeno accettare. Una parte dovrà cedere.

Frattanto i telefoni vegliano, pronti a squillare

in uffici ancora chiusi, e l’intero indifferente

intricato mondo in affitto comincia a svegliarsi.

Il cielo è bianco come calce, senza sole.

Il lavoro va fatto.

Postini come dottori vanno di casa in casa.



Traduzione di Francesco Dalessandro

da Collected Poems, Faber and Faber, 1988