Music Box



Vabbé, ogni tanto un po' di autopromozione non fa male. Per chi se lo fosse perso quando è uscito (ormai 4 anni fa), il mio "Music box" è ancora ordinabile, ad esempio qui: http://www.fnac.it/Music-box-PONTONI-MARCO/a340968

Questo è l'incipit.


INTRO: FIRST OF THE GANG TO DIE

Stavano costruendo una casa proprio di fronte allo stadio, ormai erano arrivati al quarto piano e da lassù la vista sul prato era perfetta.
Quella sera si prevedeva un concerto fiacco; prima di uscire mi ero caricato ascoltando i Damned, non avrei tirato fuori una lira – se anche l'avessi avuta – per vedere un gruppo italiano che faceva il verso agli Asia o ai Van Halen ultima versione (quella più pop, che sacrificava la chitarra a beneficio delle tastiere). Ma il cantiere rappresentava una buona soluzione.

La primavera avanzava ruggente, nuvole di pollini nell’aria, mentre in cielo "lucevan le stelle", come in quei versi della Tosca di Puccini, mio padre un grande amate della lirica, sono cresciuto con i dischi de "La voce del padrone" arati da puntine di giradischi grosse come denti di forchetta, quelle strofe nelle orecchie, "e olezzava la terra, oh dolci baci, oh languide carezze…".
Intanto sul palco issato su un lato del campo sportivo stava succedendo qualcosa. Il gruppo spalla aveva iniziato a intrattenere il pubblico, composto per tre quarti di ragazze con t-shirt Fruit of the Loom e jeans Fiorucci. Arrivate all'ingresso dello stadio anche altre compagnie oltre alla nostra viravano verso nord; risalivano la massicciata ferrovia e si lasciavano cadere dall'altra parte, per poi infilarsi nel buco ricavato nella palizzata di recinzione. Dopodichè, bisognava solo stare attenti a dove si pestava: sparsi in giro c'erano sacchi di cemento, fil di ferro ritorto, attrezzi vari, una betoniera. Lo scheletro della casa era in piedi, scale comprese. Ovviamente, mancava ancora tutto il resto. In fila indiana, e con qualcuno davanti con una torcia che faceva luce, passando dalle scale interne si poteva arrivare abbastanza tranquillamente fino in cima, sulla terrazza.
"Che folla!", ha detto Roby sbucando all'aperto, cercando di darsi un'aria sciolta e contemporaneamente di farsi largo fra i capannelli seduti che parlottavano. "C'è più gente qui che là…"
Ci siamo sistemati in un angolo, abbiamo aperto il pacchetto di sigarette che avevamo comprato con una colletta. Per guardare verso lo stadio dovevamo stare girati di tre quarti, ma meglio che niente. Difficile distinguere, nel buio, chi c'era e chi non c'era. Dalle voci mi sembrava ci fosse anche la compagnia di Zebedeo, quella che frequentava la Giovanna, il mio sogno proibito (suo padre un carabiniere, siciliano, mica sarebbe stato contento di sapere che lei era lì).

Alle 10 il concerto entrò nel vivo. Una lunga intro di sintetizzatore, salutata con uno scroscio di applausi. A tratti il vento dal fiume spazzava via le note, poi ritornavano, assieme alla voce femminea del cantante.
Lo show è durato poco più di un'ora e mezza. Quando ci siamo rialzati, le gambe ci facevano male e mi si era informicolato un piede. Perciò siamo stati fra gli ultimi a scendere. Riguardo a quello che successe in quei momenti, mentre la band stava concludendo la serie dei bis, non posso dire di averlo visto con i miei occhi. Ripeto, era buio. Ricordo il titolo della canzone, Ultima notte di caccia.
Posso dire con sicurezza che la ragazza non cadde giù dal tetto, come scrisse un giornale. Sul tetto era facile orientarsi, grazie alle luci del concerto e delle case attorno. Cadde scendendo le scale. Forse mise un piede dove pensava di trovare un pianerottolo, e invece c'era il vuoto. Forse qualcuno la urtò senza volere. Forse il suo tipo le aveva lasciato la mano per accendersi una cicca.
Sentimmo delle urla. Ci precipitammo anche noi. Non si capiva dove fosse finita. All'epoca non c'erano ancora i cellulari per cui i ragazzi della sua compagnia dovettero mettersi alla ricerca di un telefono (cabine a gettone nel piazzale dello stadio) per chiamare l'ambulanza, minuti preziosi sprecati.

Venne portata fuori in barella. Saltammo la massicciata e ci dileguammo prima di essere fermati dalla polizia. I giornali montarono una storia infinita. Certi politici ce l'avevano con i concerti, non erano neanche in grado di distinguere un gruppo punk da uno di pop melodico o di blues. Sfruttarono l'occasione per atteggiarsi a moralizzatori...
Io pensavo: quanta gente muore in macchina, andando su e giù da queste montagne, da queste valli che trasudano schnaps? Eppure mica si pensa ad abolire le macchine (o la grappa).
E poi in definitiva la ragazza non era morta a causa del concerto.

Rimase una morte di ordinaria sfortuna, a dispetto delle fantasie popolari. Un incidente come quello che dev'essere capitato a Jeff Buckley mentre faceva il bagno nel Mississipi. Il complesso di mio fratello scrisse una canzone in memoria di Anna. Aveva vaghe sonorità indiane. Assomigliava a Paint it black degli Stones, eccetto che i ragazzi qui non avevano un sitar a disposizione.
Ogni volta che passo davanti a quel condominio – ne hanno costruiti altri, attorno, un fiorire di palazzine per ospitare famiglie di una o due persone, tre è già un record, e la ferrovia è stata spostata, è stata trasformata in una ciclabile, oggi tutti hanno il trip salutista della bici e del jogging - dicevo ogni volta che passo davanti a questa modestia architettonica ci penso, sul serio. Penso alla ragazza sconosciuta ingoiata dalla tromba delle scale. È stata la prima persona alla cui morte sono stato fisicamente vicino. First of the gang to die, canta Morrissey, è tutta la sera che l’ascolto, sul mio stereo, collegato ad un vecchio finale Technics, mentre fuori nevica e il modem non si collega, e in definitiva potrei anche essere in una capanna nei boschi e non in un appartamento di un quartiere di una città di confine di medie dimensioni, gerani ai balconi, portici che si scavano una strada sotto alle antiche case delle corporazioni. Ed è come se cantasse per lei. Solo che Morrissey si riferisce alle vittime degli scontri fra le gang di L.A., a migliaia di chilometri da qui, oltre la neve, le Alpi, le foreste tedesche, l'Atlantico, le grandi, bollenti pianure americane solcate da autostrade a diecimila corsie.

Marco Pontoni, Music Box, Curcu&Genovese, Trento, 2006