Love


(da Music Box, il mio romanzo. Un capitolo estivo)

Rimini è stata la prima città dell'amore. Andavamo tutti gli anni nello stesso posto, la pensione Roma. Sempre le prime due settimane di settembre. Perciò, una vacanza dietro l'altra, si erano formate delle amicizie, anche se poi, durante gli altri undici mesi e mezzo, non è che ci scrivessimo, o ci telefonassimo. A Natale i miei genitori spedivano un cartoncino di auguri ai padroni della pensione Roma, il signore e la signora Bacchi. E i Bacchi a loro volta spedivano gli auguri a noi. Credo li spedissero anche a tutti gli altri pensionanti, che questa spesa fosse una parte della loro politica di marketing, che volessero “fidelizzare i clienti”; comunque, a mia madre e a mio padre faceva sempre piacere ricevere i loro auguri.
Nadia veniva da Cinisello. Non avevo idea di dove fosse, sta’ Cinisello. Nadia veniva al mare con la sorella, una secchiona che stava tutto il tempo per conto suo sotto l'ombrellone a leggere, e rivolgeva la parola solo a mio fratello. Poi c'era sua mamma, una donna appariscente con un'acconciatura conica che a me sembrava ridicola. Quando qualcuno gli chiedeva di suo marito rispondeva che doveva lavorare, il padre di Nadia era l’assenza, ma anche, in un certo senso, l’essenza: del Nord capitalista iperproduttivo. La moglie ne parlava come se fosse un dirigente. Ma se era davvero un dirigente, dico io, come mai mandava la famiglia alla pensione Roma anziché al Paris, proprio lì di fronte, dall'altra parte della strada, che era alto il doppio e aveva la piscina?
Nadia era più vecchia di me. Lo era sempre stata, ovviamente, sempre qualche anno avanti, fin da quando c’eravamo conosciuti. Ma fu solo nell’estate del 1979 che la cosa assunse un'importanza determinante. L’imprevedibile, ardente estate del ’79.
Il primo giorno successe una cosa. Nadia venne al nostro ombrellone - io me ne stavo lì con i miei genitori in attesa di fare il bagno, mio fratello in spiaggia non ci veniva mai, dormiva fino a tardi, la sera se ne andava in giro con dei suoi misteriosi amici - e mi invitò a fare una passeggiata. Disse che voleva raggiungere il faro, laggiù...
Stava lì, in piedi, in attesa di una risposta; aveva addosso un due pezzi giallo e succhiava un ghiacciolo dello stesso colore. Vidi le sue labbra danzare, in controluce, le vidi pronunciare sulla punta del gelato quella parola, che per il resto della mia vita non potrò fare a meno di associare ad una ventata che spira all'improvviso, in una giornata afosa, ti prende di sorpresa e ti trascina via: “F-a-r-o”.
Ad un tratto, mi resi conto che Nadia, la Nadia che conoscevo da almeno sei estati, era ben tornita. Che aveva seni prosperosi, due zucche rotonde coperte da altrettanti triangolini color zafferano. Che era bionda!
In quanto a me, dimostravo più della mia età. Fu questo, credo, a salvarmi. Cioè, non la facevo sfigurare troppo, se la portavo in giro. Perché, in verità, Nadia aveva mille amori, alla spiaggia. Molto diversa dalla Nadia versione 1978. Tutti quei tipi già maggiorenni che volevano offrirle un gelato, accompagnarla a comperare quelle collanine che le piacevano tanto, mentre la sorella non la cagavano neanche di striscio…
Gli anni precedenti, quando i miei genitori uscivano per la loro solita passeggiata dopocena, io, a differenza di mio fratello "il fantasma", andavo con loro. Mi piaceva; andavamo a giocare ai videogiochi, o al cinema all’aperto. Però non avevo tanto tempo da passare con Nadia, né con nessun altro.
Il giorno della passeggiata al faro, Nadia mi fece un discorso serio. Disse che lei la sera non aveva il permesso di allontanarsi dalla pensione, e quindi avrei potuto stare con lei, “se mi faceva piacere.”
“Ma, scusa, non vengono i tuoi amici?”, le ho detto. Intendevo quelli che le stavano attorno in spiaggia.
“Figurati – rise, amara - Loro vanno in discoteca!”
Così, quando papà e mamma sono scesi (li aspettavo in cortile, fin che si preparavano per uscire) e mi hanno fatto cenno di andare, io, sentendomi un po’ in imbarazzo, ho risposto che veramente preferivo rimanere lì.
“E perché?”, disse mio padre. Sembrava stupito, più di mamma. Stavo per rimangiarmi quelle parole quando Nadia è sbucata alle sue spalle, con i lunghi capelli sciolti e tutto il resto.
“Buonasera – ha detto ai miei con un tono mai sentito prima in bocca sua – Dove andate di bello?"
Poi mi ha preso sottobraccio: "Ho chiesto a Luca di farmi compagnia. Vero che me lo lasciate qui?"
Che sfacciata. Ma loro si sono messi a ridere, e ci hanno augurato buona serata. Quando sono arrivati al cancello, mio padre è tornato sui suoi passi, battendosi la fronte (il gesto che faceva di solito per comunicare che aveva dimenticato qualcosa di fondamentale). Ha tirato fuori dal portafoglio delle banconote, me le ha messe in mano. Mi deve aver dato anche una specie di pacca su una spalla, prima di dileguarsi nella notte con mia madre aggrappata al suo braccio, la notte che pulsava oltre il giardinetto della pensione Roma, al ritmo eccitante della riviera romagnola… Ovvero: essenzialmente a tempo di valzer.

Mi dava fastidio che mi avesse trattato così platealmente come un ragazzino. Perché i genitori non capiscono quando è il momento di essere cool? Ma non c’era il tempo di meditare. Nadia si era messa un vestito azzurro. L’aria era calda, satura di profumi tipo crépes, sandalo, gas di scarico e mare. In più, l'odore dei capelli appena lavati, e una fragranza sconosciuta sul decolté.
Mi guidò in fondo alla strada, oltre il Paris, oltre un villino per le vacanze, fino ad un ex locale in stile saloon, ormai a ridosso della campagna, con un patio coperto dove la gente prima ballava, ma poi il locale aveva chiuso e adesso rimaneva solo quel patio a cui si accedeva da un buco nella rete metallica che circondava la costruzione. Nadia sembrava conoscere quel passaggio. A me ricordava altri passaggi segreti della mia vita, che sempre avevano condotto a posti interessanti.
Ci siamo seduti su un dondolo addossato alla parete, in fondo. In quel punto era quasi impossibile che qualcuno dalla strada ci vedesse. Comunque stavano calando le tenebre, senso di mistero.
“Tutto bene?” mi ha chiesto.
“Perché?”
“Sembri un po' scocciato.”
“Io? No, figurati.”
“Ti dispiace di non essere uscito con loro? Ho sbagliato?”
“Ma figurati. Piuttosto: non vuoi andare a bere qualcosa, da qualche parte?” Pensavo che avevo in tasca 2.000 lire.
“Se vuoi…”.
Ma non si muoveva.
“Sembri così diverso – ha detto - Gli anni scorsi non stavi mai zitto, mi piaceva così tanto starti ad ascoltare..."
Ho cominciato a raccontarle un film di Dario Argento, il genere di discorsi che avevamo fatto sempre. Pensavo anche di raccontarle del Mostro Rosso, ma dopo un po' Nadia mi ha chiesto se mi piaceva il profumo che si era messa. Io ho detto sì, buono. Poi mi ha chiesto che ne pensavo del vestito. Anche il vestito mi sembrava a posto. Mi ha detto che era di seta, "ah – ho esclamato – bello!", e lei è scoppiata a ridere forte.
“E ci credi, anche? Tocca, dai.”
Ho toccato. Non sapevo come fosse fatta la seta, o comunque, non ci avevo mai fatto caso. "Senti che liscio", ha insistito, prendendomi la mano, appoggiandosela su una coscia. In effetti, era molto liscio. Di un liscio particolare, che più lo toccavo più sentivo un calore, allo stomaco…
Ad un certo punto ho cominciato a tremare come una foglia.
“Dai, calmati” mi ha sussurrato all'orecchio. Premeva la mia mano sul suo cuore, sussurrava “senti qua, senti come batte”, la parola “senti” l’avrà ripetuta quaranta volte, ma io non riuscivo proprio a smettere di tremare…

Alle dieci siamo tornati indietro. Così i ladri si lasciano, dopo aver portato a segno un colpo. Senza un saluto. Il giorno dopo per tutto il tempo ho fatto finta di non vederla, anche se lei prendeva il sole sdraiata tre file davanti a noi.
Ma in seguito ci siamo riparlati, è ovvio. Il ghiaccio l'ha rotto lei. Mi ha fatto uno scherzo, mi ha tirato addosso un sacchetto pieno d'acqua. Non che adesso potessi aggregarmi alla sua compagnia. Anzi, quei tipi in genere mi dicevano di girare al largo. Dicevano che “non era roba per me”.
La mattina Nadia andava con loro in fondo alla spiaggia, dietro le cabine, a giocare a pallavolo, credo. Allora io andavo a fare il bagno con mio papà e ridiventavo quello di sempre, senza segreti. Ma il pomeriggio, verso le quattro, passando vicino al mio ombrellone, mi sorrideva in una certa maniera e nello stesso tempo salutava i miei con un “buongiorno”, a cui loro rispondevano “ciao”, e a volte mio padre commentava, non appena si era allontanata: “È passata l’ape regina”.
Io aspettavo un paio di minuti (lunghi minuti, mi aveva pregato di non essere impaziente). Quindi avvisavo che sarei andato a fare una partita a flipper (avevo visto il film Tommy, era plausibile), e mio papà rispondeva: “Divertiti”.
Avevamo appuntamento su una panchina sul lungomare. Ci scambiavamo qualche battuta, Nadia mi prendeva in giro per i capelli. Ci incamminavamo verso il faro, fino allo stabilimento 33 "Enzo". Il bagnino di quella parte di spiaggia ormai ci conosceva, ogni volta che arrivavamo mi strizzava l’occhio.
Nadia diceva che era “un figo”.
Ci sdraiavamo sulla sabbia, che scottava. Mi schiacciava i brufoli. Mi diceva: “E Dario Argento?”.

Alle cinque sempre si alza il vento. Il mare verdeggia sullo sfondo, oltre le file di ombrelloni rossi e azzurri, oltre la linea dorata della spiaggia. Nadia sdraiata sulla pancia, chissà come mai ha freddo. Mi chiede di coprirla, ma con cosa, l’unica cosa disponibile è il mio corpo. Lunghe contrattazioni, alla fine lei acconsente, ho il permesso di distendermi sulla sua schiena. Mi trattengo per non combinare un disastro. Respiro a fondo. Poi corro sotto la doccia a rinfrescarmi, acqua, acqua dolce, fresca, ne bevo a sorsate, a bocca aperta, acqua addosso e dentro di me…
La sera, praticamente ogni sera, è in quel saloon abbandonato, fra finte ruote di carro e finti trofei apaches, un juke box a prendere polvere, con i successi delle estati precedenti: Renato Zero, i Kraftwerk, La Bottega dell'Arte. Il suo tocco arrivava puntuale, il suo magico tocco, il suo tocco come un balsamo, adesso era "come", la parola che mi girava di più nella testa. Avevo continuamente fame di metafore, e scrivevo lunghe poesie.
L'ultima sera mi diede delle istruzioni riguardo alle sue esigenze. Prima, ero andato per tentativi. C'è aria di autunno, nel patio. La gente per strada passeggia con un golf sulle spalle. Il dolore di una separazione, tra noi.

Tornai a casa trasformato. Cominciò il via vai delle lettere. Per Natale, dietro mie pressanti insistenze, allegò anche una sua foto. Era stata scattata al mare, la ritraeva assieme alla madre e alla sorella.
Cominciai anche a leggere un libro che avevo trovato nella biblioteca di casa. Era un manuale di psicologia della coppia in edizione economica, e conteneva un lungo capitolo sui maniaci sessuali. Mi convinsi che quello io ero, perché continuavo a pensare al saloon, alla penombra, alla mano di Nadia… E il tragico era che non potevo parlarne con nessuno, neanche con i miei migliori amici, perché pensavano che mi fossi inventato tutto, e comunque, quando videro la foto di Nadia, fecero una faccia indifferente.
Nel mio quartiere maniaci sessuali non ce n’erano mai stati. Io ero il primo. La solitudine era pesante. Ma, sul finire della primavera, mentre le lettere di Nadia tardavano ad arrivare, o forse si perdevano nel pozzo senza fondo delle Poste Italiane, si diffuse una notizia clamorosa: in giro c’era una maniaca!
A diffondere l’informazione fu Roby, il leader riconosciuto di tutti noi in quella fase. Gli altri dicevano che la maniaca si era fatta fare un servizietto da Roby. Dicevano anche che andava nelle roulottes con gli zingari, i giostrai. Dicevano che la maniaca era una drogata. Che era figlia di un diplomatico. A me queste storie non m’impressionavano. Solo, non capivo perché tutti fossero disposti a credere alle voci su Roby e la maniaca e nessuno ai miei racconti del mare e della Nadia.
Comunque, ero curioso di conoscerla. Volevo confrontarmi con lei. Capire se, da qualche indizio, è possibile accorgersi che una persona ha certe tare, certe inclinazioni.
La maniaca stava esattamente dove Roby diceva l’avremmo trovata, alle passeggiate lungo il fiume. Era una ragazza snella vestita in modo imbarazzante per la città di confine, i jeans scarabocchiati e una striscia di cuoio intrecciato che le stringeva la fronte. Roby faceva il galante, non si era mai rivolto in quel modo ad una femmina. L’unica cosa strana che successe fu che Antonio le offrì una sigaretta, e lei prese a fare dei tiri lunghissimi. Antonio la prendeva in giro, con dei doppi sensi, cose come: "Ma tu tiri sempre così?", e lei rideva, dicendo "dipende..."
Roby si incupì, smise di parlare. Ma Antonio non gli badava, o non se n'era accorto. Pensavamo che per colpa di quell'idiota di sicuro lei ci avrebbe piantati in asso. Ma invece rideva sempre più forte, e si faceva fare il solletico sui fianchi da lui...
In realtà la maniaca era un po’ tocca, e dopo circa un anno sparì dalla circolazione. Comunque quell’incontro non mi rassicurò affatto. Mi chiesi se era veramente così che si diventava. Svampiti e sempre a ridere per delle scemenze. Se era una legge generale.

Finalmente arrivò agosto. Io ero in fibrillazione. Agosto, nella nostra città, fu un mese di fuoco. Piovevano fiamme dal cielo. Sudavo, crescevo, mi allungavo. Cambiavano le spalle, il petto, come già era successo, qualche anno prima, ad un altro membro della famiglia, il mio laconico predecessore amante di Miles Davis. Cambiavano perfino gli zigomi.
Ero così concentrato su di me che non guardavo più la televisione, non ascoltavo la radio. Se anche i Led Zeppelin avessero fatto uscire un nuovo disco, non l'avrei saputo. Se un aereo si fosse schiantato sul Gran Sasso, o se anche, mettiamo, fosse esplosa una bomba in qualche stazione, nascosta lì da qualche bastardo, a far strage di innocenti, mi sarebbe entrato da un orecchio e uscito dall’altro…
Ci mettemmo in marcia il 16 mattina. Quella volta il fratello-fantasma mancava, era andato con la sua compagnia sul Gargano; secondo me nessuno si era accorto della sua assenza, neanche mia madre.
Dopo un po’ l’auto divenne una scatola rovente sull’autostrada. Mio padre canticchiava, mia mamma leggeva la carta geografica. Io sedevo dietro, in silenzio. Con milioni di pensieri che si affollavano nella testa. Da due mesi Nadia non rispondeva alle mie lettere. Perché? Non aveva il telefono (almeno, così mi aveva detto, e del resto sull’elenco non avevo trovato il suo cognome). Le avevo scritto chiedendole conferma del suo arrivo alla pensione Roma. Una brutta sorpresa, non volevo nemmeno prenderla in considerazione. Sapevo che non sarei sopravvissuto.
L’apprendemmo quasi subito, appena arrivati, dal signor Bacchi. Il padre di Nadia, l’essenza metafisica del capitalismo, non aveva potuto accompagnarle, aveva impegni in giro per l'Italia. E loro non se l’erano sentita di prendere il treno. Perché? Mi sembrava che fossero scese altre volte al mare col treno. “Eh – sospirò il signor Bacchi – ma dopo quel macello di Bologna, chi si fida più…”
"Adesso – disse mio padre – in stazione perquisiscono i bagagli."
"Ma lei si fiderebbe a mandare da soli suo figlio e sua moglie… "
"Non so mica se mi fiderei."
"Appunto. E poi si sa come vanno le cose, nel nostro Paese. Mai, li prenderanno, i responsabili!"
Fu questa, credo, l’inizio della mia politicizzazione. E passai le vacanze al mare raccogliendo conchiglie.