Nostalghia - David Sylvian incontra Tarkovsky (1988)



Come posso dire come passa lento...

(matrimonio ovvio e riuscito fra musica e immagini)

DUE: FOLLIA D’AMORE PER DONNA SOLA


E’ uno spazio bianco, quasi spoglio, illuminato da tubi al neon. Dal soffitto pendono tre sacche di sangue, in fondo al palco una vasca da bagno piena d’acqua, sormontata da uno specchio. E’ tutto, a parte un paio di microfoni in evidenza, sulle loro aste, ed altri nascosti, ad amplificare lo sgocciolio del sangue sul pavimento, quando Licia Lanera buca le sacche con uno spillo.
“2.(due)”, della compagnia barese Fibre Parallele, andato in scena al teatro Spazio 14 di Trento nell’ambito della rassegna Black Box (che ha ospitato anche il duo Ricci/Forte – insospettabilmente diviso fra “I Cesaroni” e il teatro d’avanguardia - con “Macadamia nut brittle”), è il monologo straniante e straziato di una donna dai capelli rossi, infilata in un vestito bianco come una sorta di infermiera dark o di tardiva materializzazione di quelle fantasie cannibali che hanno dominato il panorama letterario italiano negli anni ‘90. Le parole scivolano su un tappeto di effetti sonori allucinati, scandendo le tappe di una storia d’amore che affoga nel sangue dell’uomo assalito e massacrato nella sua cucina con un forchettone. Allo spettatore non viene mostrato né uomo, né cucina né forchettone; eppure, quando usciamo, ci sembra di averli visti, così come ci sembra di avere visto i tanti “quadri”, appena abbozzati, di una vita di coppia apparentemente felice, il che depone a favore della sceneggiatura e del testo, della forza dei gesti e delle parole ossessivamente ripetute: le bolle di sapone che trasformano la stanza in una immensa jacuzzi, il concerto di Ivano Fossati, i ricci, situazioni ordinarie, al limite della banalità. Tutto questo fino alla scoperta, da parte dell’uomo, della sua attrazione per un altro (o molti altri?) uomini: detto brutalmente - da lei, dalla donna dai capelli rossi e dalle occhiaie profonde, dalla metà messa da parte, abbandonata - “ti voglio tantissimo bene ma mi piace il cazzo”.
E’ il sogno di una vita in due che si spezza, in due come Ken e Barbie, come Romeo e Giulietta, come un infinito numero di coppie che l’attrice elenca nel finale, la bocca e il vestito sporchi di sangue, mentre il bianco ospedaliero della scena si colora di rosso, subito prima di immergersi, finalmente, nella vasca, a mescolare sangue e acqua. E’ la follia d’amore portata alle sue estreme conseguenze, senza scuse e senza possibilità di redenzione. Dell’uomo, delle sue ragioni, dei suoi pensieri, sappiamo quasi nulla. Sappiamo che guarda video pornografici a tema homosex (la loro scoperta scatena l’omicidio); sappiamo che ha confessato la sua confusione, che le ha chiesto aiuto ma, egoista come tutti gli amanti (cioè come coloro che amano) l’ha anche respinta, più volte. Questo però poco importa. Ad occupare la scena è sempre e soltanto lei, la scena stessa una proiezione del suo spazio mentale, autoreferenziale, claustrofobico, a tratti invaso dall’eco dell’universo mediatico, dall’esplosione un po’ incongrua di canzoni e canzonette. E tuttavia – qui sta la forza della pièce – uno spazio per certi versi noto, o quantomeno riconoscibile. Un dramma “umano, troppo umano” l’ha definito a ragione la critica. Per i due autori – oltre a Licia Lanera, Riccardo Spagnuolo, che ha curato l’allestimento – “una sorta di incubo splatter, costruito sui brutali racconti di noti assassini, uno fra tutti Luigi Chiatti. Ci ha colpito la loro lucidità nel raccontare degli eventi così gravi, la loro leggerezza, l'inconsapevolezza infantile, di fronte agli occhi attoniti dei parenti delle vittime. E’ l'inquietante straniamento di chi ragione non ha.”