BOB DYLAN, I 70 ANNI



Quando, a Trento, tre anni fa, durante il bis, il palazzo delle Albere sullo sfondo, intonò “Blowin’ in the wind”, quasi non se ne accorse nessuno, talmente stravolta era quella versione rispetto all’originale, incisa nel lontano 1963. Nessuno gridò “rivogliamo il nostro Bob Dylan”, come pare sia successo in Cina, qualche settimana fa (cosa curiosa, che i cinesi reclamino un “nostro Bob Dylan”). Questo il destino di un artista che in fondo ha sempre fatto quello che voleva, proprio come tutti i grandi artisti. Senza coltivare il suo mito, ma anzi decostruendolo e reinventandolo ad ogni cambio d’abito. Dylan compie 70 anni, e se uno va a vedere in qualche sito peer to peer, di quelli che i giovani internauti utilizzano per scambiarsi la musica gratuitamente, scoprirà che non c’è molto, che i cantanti più gettonati sono altri. E questo è un segno del tempo che passa. Ma lui non se ne cura: impegnato da anni in un “never ending tour”, una tourné senza fine in giro per il mondo, ovunque lo chiamino, sembra avviato a ripercorrere i passi dei suoi miti di gioventù, quei giganti del folk e del blues che hanno continuato imperterriti a cantare fin che avevano fiato in corpo, incuranti delle mode, delle stagioni che si susseguono.
Ai suoi esordi riportò in auge la canzone di protesta, che in America aveva una lunga tradizione, ma che sembrava essersi assopita. Per farlo, appena arrivato a New York dal Minnesota, andò al capezzale di Woody Guthrie, il menestrello dei lavoratori oppressi che stava morendo in solitudine in un ospedale della Grande Mela. In seguito scandalizzò i puristi del folk sposando l’elettricità, i ritmi serrati del rock. E questo rimarrà il suo contributo più grande alla cultura popolare del ‘900: avere introdotto il rock alla poesia, l’oscura ed entusiasmante poesia di quegli anni, la poesia della beat generation, di Allen Ginsberg (che compare in questo video, anche se defilato) e compagnia. Così, una musica nata fondamentalmente per fare ballare i ragazzi entrò nell’empireo delle arti. E le cose non furono più le stesse. Nel ’68, mentre imperversava la protesta, era già altrove: già lontani i tempi in cui fustigava i signori della guerra e profetizzava la caduta di una “dura pioggia”, la pioggia atomica. Ma il piglio profetico, biblico, è rimasto, anche dopo.
E’ venuta la crisi del suo primo matrimonio, il Dylan che, a modo suo, raccontava il “privato”, come si diceva allora, è venuto il ritorno di fiamma all’impegno sociale, con la presa in causa del destino di “Hurricane” Carter, pugile nero condannato da una giuria di bianchi per un delitto non commesso, in un’America che ancora coltivava i germi del razzismo. E’ venuta la conversione al cristianesimo, durata due dischi e mezzo. Sono venuti, certamente, tanti soldi.
Infine, le incisioni di oggi, cantate con una voce che non c’è più ma proprio per questo tanto più vera e drammatica, alcune bellissime, come “Love and theft”, altre dimenticabili. E’ venuto anche un libro, “Chronicles vol. 1”, molto intenso e leggibile (nonostante il lontano, ostico precedente di “Tarantula”), che racconta pezzi della sua vita senza soluzione di continuità, che fa rivivere l’America degli anni ’60 e soprattutto il grande amore per la tradizione musicale del suo paese. Sì, perché nel suo essere impermeabile alle mode, Dylan infine anche questo è stato ed è. Un culture della tradizione, uno scrigno che racchiude ciò che non c’è più, che non è stato immortalato in qualche video e quindi non passa su Mtv. Fuori dal tempo, restio a farsi paladino di qualsivoglia causa, coperto ormai da troppe maschere (quelle che ha raccontato il regista Todd Haynes nel suo “I’m not here”, del 2007), Dylan dice di odiare i tanti soprannomi coniati per lui nel corso dei decenni. Così cercheremo di resistere anche noi alla tentazione di affibiargliene uno. Diciamo solo che è stato uno scontroso maestro di stile, a costo di scontentare, periodicamente, i suoi fans. E che certi suoi dischi li puoi collocare accanto non solo ad altri dischi ma ad alcuni dei migliori romanzi della letteratura americana contemporanea, da Hemingway a Kerouac, da Don De Lillo a Jonathan Franzen. E riascoltarli periodicamente.