In Zimbabwe
Landscape
Women
Child in Mutoko's hospital.
Water.
Trees
L'intervento è riuscito. Il liquido cerebrale, accumulatosi nel capo del bambino a causa di infezioni contratte durante la gestazione o subito dopo il parto, viene ora drenato con un catetere nella cavità addominale, dove viene riassorbito dal corpo. Lentamente la situazione ritorna alla normalità.
Grazie a Carlo Spagnolli, Michele Conti, Lia Beltrami, alla Provincia autonoma di Trento e a tutti gli amici dell'ospedale Luisa Guidotti di Mutoko.
Lima. Perù.
A volte, quando la nebbia si dirada, e i colori non sono più solamente il grigio e il marrone, Lima può persino sembrare gradevole, dal 20esimo piano dell'hotel Marriot, mentre un paracadute passa davanti alla finestra, cercando di atterrare sul bordo del Pacifico.
Per il resto, rimane una delle città più orribili che abbia visto in vita mia.
Manchay tre anni fa mi era sembrato l'inferno sulla terra. Un quartiere di 80.000 persone - migranti interni, sospinti qui dalle correnti generate dalla povertà e dall'insicurezza - , cresciuto dentro a una valletta laterale, sulle pendici delle Ande, un deserto come del resto tutta questa parte di costa, polvere e desolazione. Nel frattempo, alcune cose sono cambiate. Adesso c'è una strada asfaltata, la densità di scuole, a giudicare dalle insegne, è molto elevata (scuole private, siamo in America, qui tutto è privato, istruzione, salute, salvezza...)
Se c'è speranza persino a Manchay, c'è speranza ovunque (foto qui sotto: il centro di formazione professionale "Giovanni Paolo II" costruito dalla Pat).
La sera il traffico prende la metropoli d'assedio. La cintura di baraccopoli che la borda, ad ovest, si accende di luci, a est resta l'Oceano. Sul terrazzo del centro commerciale più grande del Perù sta per iniziare un concerto. Le automobili sono quasi tutte di grossa cilindrata, l'America ha qualche problema con le vie di mezzo.
Sono viaggi brevi da cui si ritorna stravolti dal jet-lag. Forse un giorno vedrò anche le cose che vedono i turisti, del Perù. Per questa volta, mi porto a casa un sorriso.
Tagli alla cooperazione allo sviluppo

Pochi aiuti, e interessati. La cooperazione allo sviluppo è ai minimi storici. Tutti i dati e le denunce nel Libro Bianco presentato da Sbilanciamoci!
Tagli del 56% ai fondi del ministero degli Affari Esteri, azzeramento dei fondi per le Ong nel 2009, ricatto ai paesi poveri cui è richiesto di collaborare al rimpatrio degli immigrati irregolari se voglio ricevere aiuti: queste alcune delle scelte del governo Berlusconi per la cooperazione allo sviluppo, documentate nel Libro Bianco 2008 sulle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo in Italia presentato da Sbilanciamoci! a Roma. Il rapporto, giunto ormai alla sua quarta edizione, è frutto di un lavoro collettivo svolto dagli esperti delle organizzazioni aderenti alla Campagna Sbilanciamoci! Che ogni anno denunciano lo stato ormai agonizzante dell'Auto pubblico allo Sviluppo in Italia.
I dati forniti dall’Ocse-Dac per il 2007 relegano l’Italia ancora una volta in una delle ultime posizioni rispetto agli altri Paesi “donatori”. Viene evidenziato infatti come nel 2007, rispetto al 2006, ci sia stato sì un notevole aumento delle risorse stanziate sul canale bilaterale (656 contro 405 milioni di dollari, al netto delle operazioni di cancellazione del debito) e una crescita di oltre il 370% dei contributi volontari alle organizzazioni multilaterali, ma tale incremento non si è purtroppo tradotto in un miglioramento del rapporto Aps/Pil, che anzi registra addirittura una regressione dallo 0,20% allo 0,19%. Se a questo dato sottraiamo le risorse destinate alle operazioni di riduzione e cancellazione del debito dei Paesi più poveri, pratica giusta ma che in realtà non immette risorse reali ma soltanto virtuali, il rapporto scenderebbe addirittura allo 0,16%, ossia il peggiore tra i Paesi dell’Unione Europea se si eccettua lo 0,14% della Grecia. Va del resto ricordato che la crescita delle risorse stanziate nel 2007 rimane comunque ancora lontana dal mantenere gli impegni presi negli ultimi anni a livello internazionale dai diversi governi che si sono succeduti, come ad esempio quelli ribaditi nel Dpef 2008-2011, dove si presentava una tabella di marcia che avrebbe portato l’Italia a raggiungere nel 2008 lo 0,33% del rapporto Aps/Pil e nel 2010 lo 0,51%.
Purtroppo le previsioni per il 2009 e i segnali lanciati in questi mesi dal nuovo governo rendono sempre più evidente l’impossibilità di raggiungere a breve simili obiettivi. Oggi, infatti, la cooperazione italiana vive un momento di estrema crisi, nuovamente dominata dall' ”aiuto legato” (cioè dall'obbligo dei Paesi beneficiari di acquistare beni e servizi dalle imprese italiane), dalla sudditanza alla politica commerciale e del ministero dell'Economia nonché all'export del “made in Italy”, per non parlare dell’ambiguo intreccio, come avviene in Afghanistan, con l'interventismo militare. È una cooperazione “di servizio”, subalterna alla logica di un mondo che nel frattempo è radicalmente cambiato e soprattutto è una “cooperazione senza soldi”, dal momento che Tremonti, con il silenzio complice del ministero degli Affari Esteri, ha tagliato tutto ciò che era possibile tagliare.
Le disposizioni della Finanziaria 2009, infatti, comporteranno una diminuzione della disponibilità finanziaria per la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo (Dgcs) pari al 56% delle risorse economiche previste nella Finanziaria precedente. Si passerà pertanto dai 732 milioni previsti a 321 milioni (con un taglio, quindi, di ben 411 milioni di euro), la gran parte dei quali, peraltro, già impegnati. Ciò significa che per il prossimo anno, se il governo non stanzierà dei finanziamenti straordinari, magari rammentando di dover presiedere il G8, alla cooperazione italiana sarà di fatto impedito di avviare qualsiasi nuova iniziativa. Secondo i calcoli effettuati da Sbilanciamoci! e confermati dalla Dgcs le risorse stanziate per i progetti delle Ong non raggiungeranno i 10 milioni di euro (nel 2007 ne sono stati stanziati 150) e i milioni da destinare alle organizzazioni multilaterali non saranno più di 80. Se queste previsioni verranno rispettate il rapporto Aps/Pil nel 2009 potrebbe scendere addirittura allo 0,1% circa, toccando così i minimi storici della cooperazione allo sviluppo italiana! A questi tagli va aggiunta poi la cancellazione dei finanziamenti all'educazione allo sviluppo e la vergognosa scelta di privilegiare per la cooperazione quei Paesi che hanno stipulato con l’Italia un accordo per il rimpatrio dei loro immigrati irregolari. Questa iniziativa, unita all’abbandono del progetto di riforma della 49/87 che regola la cooperazione allo sviluppo da ormai più di venti anni e alla decisione di non nominare un vice ministro o un sottosegretario con delega alla cooperazione, testimonia il grave disinteresse del governo e del parlamento italiano verso un settore al quale dovrebbe invece competere un ruolo di assoluta centralità nell’ampio panorama della politica estera del nostro Paese. La seconda parte del rapporto è dedicata invece all’analisi di tre aspetti di rilevanza internazionale che nel 2008 hanno dominato il dibattito attorno al futuro della cooperazione e alle strategie per lo sviluppo. Crisi alimentare, efficacia degli aiuti e finanza per lo sviluppo sono stati i temi al centro di altrettanti vertici internazionali rispettivamente che si sono tenuti a giugno a Roma, ad Accra nel mese di settembre, e a Doha a fine novembre. Il Libro Bianco 2008 oltre ad analizzare i risultati ottenuti in questi tre consessi internazionale e a valutarne le immediate conseguenze, si è focalizzato principalmente sulle posizioni e sull’operato della delegazione italiana, non esimendosi anche in questo caso da un giudizio sostanzialmente negativo.
Se non si effettueranno degli interventi rapidi e sostanziali, non solo dal punto di vista economico ma anche, o meglio soprattutto, dal punto di vista di un ripensamento radicale del paradigma della cooperazione allo sviluppo, intesa non più come semplice elemosina ma come elemento fondamentale per intrecciare una nuova tipologia di relazioni internazionali, la cooperazione italiana continuerà a vivere questa situazione drammatica e sinceramente insostenibile per un Paese che nel 2009 ospiterà il G8 e che soprattutto mira a conquistare un profilo internazionale sempre più importante.
Nuove "mazzate" alla cooperazione allo sviluppo?
L’Italia, che era al penultimo posto dopo gli Stati Uniti per la cooperazione allo sviluppo, diventa così ultima, oramai sotto lo 0,1% del PIL, e gli obbiettivi del Millennio sono carta straccia.
Ma non basta: penalizza il Ministero degli Esteri e privilegia quello la Difesa. Toglie fondi alle Ong e alle associazioni e favorisce la cooperazione dei militari (...).
In questi giorni il mondo umanitario si rigira tra le mani il “decreto missioni” – che decide i finanziamenti dei nostri impegni militari all’estero – con non poche sorprese con cui fare i conti. Dopo che la finanziaria ha tolto alla Cooperazione oltre il 56% di quanto previsto dalla manovra 2008 riducendo il budget a circa 320 milioni di euro, una mazzata arriva anche dal decreto legge sui rifinanziamenti agli impegni all’estero, varato dal governo e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale a inizio gennaio. Dalle voci di spesa spariscono completamente gli oltre cento milioni di euro che, nel dl scorso, garantivano fondi alle attività di cooperazione civile. Tutto adesso passa in mano ai militari (...).
Mai contenti - i limiti sociali allo sviluppo
Chiacchierando con Rigoberta Menchù

Anche le situazioni estreme in cui noi siamo vissuti, come popolo guatemalteco originario - il genocidio, i massacri che abbiamo subito - hanno ovviamente inflitto ferite pesantissime, ma la nostra popolazione è ancora viva, continua a guardare verso il futuro e lancia un appello, per preservare l'equilibrio che si sta perdendo. Questa esperienza così drammatica, che è stata vissuta dai guatemaltechi negli ultimi periodi, non ha provocato insomma la loro scomparsa, anzi ha dato loro forza per costruire un futuro diverso. Ad esempio oggi il calendario Maya, che abbiamo custodito gelosamente ed orgogliosamente nel corso dei secoli, sta diventando oggetto della scienza odierna. I Maya ne sono veramente orgogliosi, sanno che al loro interno, nella loro cultura, esiste questa base da cui partire per creare un futuro migliore.
Però i cambiamenti non sono automatici, richiedono dei processi lunghi e difficili. Prendiamo l'esempio della Bolivia: c'è una situazione di estrema povertà, di fame e di miseria; la gente chiede delle risposte immediate, ma queste purtroppo non sono possibili, perchè la realtà attuale è il frutto di una situazione storica. Quindi i governi futuri dell'America Latina saranno governi impopolari, non avranno forse il prestigio e il consenso necessario per risolvere i problemi di diseguaglianza, di violenza, di impunità, del narcotraffico che tocca tutti i Paesi dell'America Latina; è molto difficile.
La crisi economica economico è un dato di fatto a livello mondiale. All'inizio la nostra reazione alla caduta della borsa di wall Street è stata quasi di esultanza, perchè ovviamente per noi paesi poveri Wall Street era vista come un nemico, ma oggi che questa crisi è ovunque, ha delle ricadute pesantissime anche su di noi, ad esempio sul fronte delle rimesse, dei soldi che dagli emigrati negli Stati Uniti arrivano alle famiglie del Guatemala. I soldi che servono a far studiare i figli mancano, quindi questo è già un problema enorme. C'è una grandissima mancanza di lavoro. La gente cerca lavoro soprattutto negli USA dove si illude di trovarlo. E le frontiere sono "dure", lo sappiamo. Poi c'è il problema del Trattato di libero commercio tra gli Stati Uniti e i nostri Paesi; in effetti questo commercio non è libero e eguale, nel senso che chi compera i nostri prodotti? Quindi i problemi che adesso colpiscono i paesi ricchi, i quali si ritrovano con una ridotta capacità di spesa, causeranno tempi duri anche nei paesi poveri come il nostro.
Anche a livello legale, del sistema giuridico, a volte esiste un sottofondo di razzismo, laddove implicitamente il razzismo è consentito e non ci sono precedenti per giudicare. Io sono riuscita a vincere una causa contro la discriminazione e così ho creato un precedente giudiziario non soltanto in Guatemala ma per tutta l'America Latina. Non bisognerebbe, comunque, arrivare a un tribunale, dovremmo essere noi come persone a essere contro questa mentalità razzista.
Cosa pensa dell'elezione di Obama alla presidenza degli Usa?
Sono stata negli Usa negli ultimi giorni della campagna elettorale (soprattutto ho seguito la campagna di Obama) e sono rimasta colpita dalla partecipazione volontaria, attiva, cosciente di masse di giovani, di donne, di gente semplice.
Era veramente una campagna di massa, fatta di gente con entusiasmo, a partire dagli studenti, gente che agiva veramente per convinzione e non perchè si aspettasse un ritorno, delle regalie. E questo ha rotto lo schema delle campagne elettorali anche come vengono condotte in America Latina, nelle quali vince chi ha denaro, chi promette e dà cose.
L'altro elemento molto impattante per il Guatemala è stato vedere che l'85 % dei neri americani hanno votato per Obama. Questo è stato un segno di rottura dalle oppressioni, dallo schiavismo; le persone che non credevano in loro stesse, votando per Obama hanno votato per sè stesse.
Un nero alla Casa Bianca è già la rottura di un paradigma.Obama ha molto potere, potere sulla gente e che gli viene dalla gente, ha il potere che gli viene dalla collaborazione economica, perchè il denaro gli è stato dato dalla gente, e ha il potere che deriva dal voto; Obama quindi è proprio nella condizione perfetta per poter governare.
Come userà questo potere Obama non lo sappiamo, ma immagino che lui abbia la consapevolezza di questa grande storia che ha alle spalle, questa lotta civile che ha portato avanti anche Martin Luter King, che ha sognato un'America diversa. Quindi io credo che lui abbia questa consapevolezza.
Molto dipenderà dalle persone che formeranno il suo staff e speriamo che anche queste persone siano consapevolidel peso storico che Obama ha sulle spalle, perchè a volte non è la figura principale del governo che sbaglia, ma è l'apparato che governa con lui, e noi sappiamo che in America questo apparato è molto forte, molto sofisticato.
Darsi il tempo
Il dibattito in sala è stato interessante, ma devo dire che la cosa che più ho apprezzato è il libro in sé. Tante cose mi piacciono di questo ”Darsi il tempo”. Parto da quelle minori: le citazioni letterarie, da Rimbaud a Musil passando per Ivo Andric. Che dei saggisti (quantunque un po' “sui generis”) leggano anche i romanzieri e i poeti è un buon segno. Diffido di chi legge esclusivamente testi scientifici, a prescindere dalla disciplina (fosse pure la storia o la sociologia), e provo compassione per chi ha tempo solo per i giornali (poi purtroppo c'è molta gente che non legge per niente, né romanzi, né saggi né giornali, e non sa cosa si perde).
Inoltre è davvero apprezzabile la capacità di raccontare – in un libro che comunque vuol fare il punto su una problematica di carattere generale - esperienze vissute in prima persona. Le cose – i paradigmi, i concetti, le teorie – assumono sempre una maggiore vividezza quando sono collegate all'esistenza quotidiana. Bellissimo il racconto della riunione dei rappresentanti delle ong a Londra, appassionanti (e non poteva essere altrimenti) le parti riguardanti le esperienze vissute dagli autori nei Balcani.
E adesso veniamo a quello che personalmente ho trovato più coraggioso in queste pagine, relativamente al “succo”, al messaggio che esse vogliono trasmettere. L'invito a considerare la cooperazione allo sviluppo un'opportunità per capire, prima ancora che per fare. Per capire il mondo com'è, oggi, con le sue reti, i suoi motori, le sue “contraddizioni”, avremmo detto un tempo. Il mondo così come si manifesta nei paesi, nelle realtà in cui i cooperanti vanno a fare cooperazione – in sostanza in Africa Asia, America centromeridionale e alcuni paesi europei - ed insieme il mondo in cui essi stessi vivono, questo qui, il nostro mondo, il Trentino, l'Alto Adige, l'Italia, la Germania, l'Olanda, Londra, gli Stati Uniti. Un Primo mondo - usiamo volutamente una terminologia desueta - che spesso presenta indicatori da Terzo mondo (come già ci ha insegnato ad esempio Amartya Sen), un Primo mondo che delocalizza, che produce la sua ricchezza a Timisoara o in Corea del Nord (30 anni fa sapevamo che erano le multinazionali a fare questo, la novità è che oggi lo fanno anche le pmi), un Primo mondo dai confini incerti e mobili, un Primo mondo, finalmente, che non ha più molto senso definire così, immersi come siamo in un continuum di merci, finanze, emigrati, informazioni. E voli low cost.
Mi piace il coraggio con cui gli autori invitano a rivalutare la parola, il tempo speso a confrontarsi, a discutere, e ciò non per pura passione intellettuale ma perché la comprensione è forse l'unica arma “vergine” che ci è rimasta per combattere povertà e pulizie etniche, narcomafie e circhi mediatici. Ho parlato di coraggio ed in effetti ce ne vuole, perché il mondo della cooperazione non è affatto estraneo agli effetti perniciosi dell'ideologia del fare (anzi, del “fare qualcosa”, come spesso si esprime la gente semplice, per dire che non ha un'idea chiara di come si possano, non so, salvare quei bambini dalla morte per fame, ma tutto è meglio che stare con le mani in mano; e ricordo di avere sentito un signore facente parte di un comitato di valutazione dire una volta che a suo giudizio bisognava concentrarsi a fare “muri", perché agli occhi dei donatori fa sempre un'impressione migliore avere costruito qualcosa di tangibile, come una palazzina). Assillate dalle regole della burocrazia, da cui dipendono per ottenere i finanziamenti pubblici, condizionate dagli input degli stessi mass media, le associazioni finiscono spesso per puntare tutta la loro posta sui numeri: bambini vaccinati, pozzi scavati, container spediti, e così via, e così via, l'importante è che siano migliaia, sempre migliaia. L'importante è non confessare mai un senso di impotenza o un fallimento. L'importante è non accennare a difficoltà che non siano di natura pratica: la scarsità di fondi, innanzitutto, e poi eventualmente la carenza di infrastrutture, il clima avverso, magari addirittura le poche capacità dei beneficiari, la loro cultura insufficiente, persino (come in uno scimmiottamento del peggior colonialismo) la loro indolenza.
Quanto costerebbe, in termini di credibilità, soldi, prestigio sociale (perché comunque la cooperazione procura anche questo, procura considerazione, a volte anche a chi, a casa sua, si rivelerebbe un perfetto incapace) ammettere che le cose sono un po' più complesse, che la relazione con gli “altri” non la si misura solo in termini di progetti e diagrammi e muri e nastri tagliati? Quanto costerebbe confessare, infine, che magari non si è capito niente del posto e della situazione in cui si è andati a operare?
Ecco, del libro mi piace la franchezza con cui si ammette la possibilità di commettere degli sbagli, anche quando si cerca in piena onestà di “fare del bene”. Tutti i cooperanti dovrebbero avere paura delle loro azioni. Invece, anche a me è capitato di vedere all'opera l'arroganza dei donatori, eccome! Persino col classico Panama bianco in testa.
Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutto questo ovviamente non significa che non ci si debba sforzare comunque, con gli strumenti che si hanno a disposizione, tanti o pochi che siano, di costruire un mondo un po' meno peggiore di quello in cui si vive.
In sala poi sono emerse anche altre cose. Devo confessare che alcune - specie se pronunciate con il tono solenne di Ugo Morelli - mi sono sembrate forse un po' scontate: l'identità come un percorso, come un divenire (un bolzanino non fa che interrogarsi tutta la vita sull'identità...), l'invito a rivedere il nostro stile di vita (l'imparammo da Alex Langer, l'imparammo una vita fa, e ci credemmo! Poi si sa com'è finita: lo stile di vita è cambiato, sì, nel senso che volevano le multinazionali, però. E oggi la gente passa il week end intruppata nei megastore).
E poi, se è come dice Tonino Perna, che l'idea originaria di cooperazione è morta a causa del neoliberismo e delle guerre umanitarie, di nuovo a me pare che si ritorni agli anni '80: il neoliberismo c'era già, anzi, era quella la stagione dei capostipiti, Reagan, la Tatcher (e la scuola di Chicago). Le guerre umanitarie invece no, non c'erano ancora, in compenso c'erano un mucchio di guerre a bassa intensità fomentate dalle superpotenze, Usa e Urss. La Guerra fredda , insomma, non era meno sinistra dell'era apertasi con il crollo del Muro di Berlino e la pubblicazione del saggio di Fukuyama sulla fine della storia. Sotto questo profilo, non c'è proprio nulla da rimpiangere. E anche questo, in fondo, rappresenta un problema, per me. Per questo forse, pur considerando i no-global la grande novità degli ultimi 15 anni, non ho mai potuto sentirmi pienamente parte di quel movimento. Perché per molti versi mi sembrava che avessero scoperto l'acqua calda, a Seattle. E poi anche per un'altra ragione: perché ricordavo com'era il mondo prima, prima della caduta del Muro. Non era migliore.
Giustamente e molto opportunamente, Nardelli dice che oggi tutto si tiene, non c'è Sud e non c'è Nord. E' l'interdipendenza, certo, e come tale la conosciamo da un pezzo (ricordiamoci la crisi del petroli del 1972-73); ma Nardelli sottolinea il dato politico piuttosto che quello economico, ed è questa la parte più interessante. Nardelli e Cereghini – e altri autori che il libro cita, come Luca Rastello, ad esempio – propongono un'analisi convincente delle nuove classi dirigenti di tanti paesi non “terzi” o “quarti” ma pienamente inseriti nello scacchiere geopolitico contemporaneo: un po' cacicchi e un po' narcos, un po' benevoli dittatori nazional-popolari un po' mafiosi, padroni di stati e regioni offshore dove si produce tanta parte della ricchezza capitalista contemporanea, dove le immense fortune create dal grande gioco finanziario e dagli altri grandi giochi attorno alle materie prime, ai traffici illeciti, alle guerre vengono a mondarsi dei loro peccati originali, a moltiplicarsi piuttosto che a nascondersi.
E' il volto sinistro della globalizzazione (dal canto mio, amo pensare anche al suo volto "buono", al fatto di poter ascoltare sul mio ipod made in Corea un brano di Lou Reed inviatomi via mail in Bolivia dove mi trovo momentaneamente per lavoro da un amico di Bolzano che l'ha scaricato da un sito neozelandese. Difficilmente sarò mai un consumatore "zero km.").
E' il volto sinistro della globalizzazione, dicevamo, e il libro ce lo restituisce con grande vividezza nelle pagine dedicate all'arrivo dei cooperanti a Prijedor, Bosnia Erzegovina, e alla loro conoscenza con i boss locali, ex-comunisti riconvertitisi alla pulizia etnica non perché nostalgici di un passato che non è mai passato (quello degli odi fra cetnici e ustascia) ma perché perfettamente consapevoli che la guerra è l'occasione migliore per organizzare un gigantesco trasferimento di ricchezze (i beni delle vittime, innanzitutto) nonché soprattutto per riorganizzare lo Stato a loro personale vantaggio (e poco importa se dai piani quinquennali si salta direttamente dentro alla deregulation più selvaggia).
Ed ancora, andando un po' a braccio: dell'intervento in sala di Cereghini bello il passaggio dedicato ai militari; mi è piaciuta la franchezza con la quale – da pacifista – ha detto che “si può collaborare, a certe condizioni”, pur consapevole che questa affermazione suona come una bestemmia per molti del “movimento”. E' quello che ho cercato di dire nel mio libro sulla Somalia, che chissà se mai uscirà: perchè ad esempio in Somalia dell'apparato militare (italiano, nella fattispecie) si è visto il peggio ma anche il meglio: soldati e ufficiali che sono venuti meno ai loro doveri e al loro onore – come denunciato dalla stampa all'epoca, per conto mio un po' strumentalmente – ma anche generali che si sono sforzati di capire, di provare a mediare fra le fazioni in lotta, di svolgere un ruolo almeno in parte politico: non a caso facendo arrabbiare gli americani, per i quali l'unico obiettivo era far fuori Aidid (il cattivone di turno) e farlo nei tempi della CNN. E poi: c'è qualcuno oggi che pensa in tutta onestà che a Srebrenica i Caschi blu non dovevano sparare per impedire il compiersi del genocidio? C'è qualcuno che ritiene che sia stata una buona cosa per l'Europa accettare l'assedio di Sarajevo, aspettare che i morti in quella città salissero a 10.000, aspettare che fossero i bombardieri americani a togliere le castagne dal fuoco? Il che, ovviamente, non significa approvare l'Iraq o la dottrina della guerra prenventiva: significa riconoscere che lo slogan “contro la guerra senza se e senza ma” suona molto bene ma non serve a nulla, e non serve a nulla perché è ideologico, pre-politico, non distingue situazione da situazione, guerra da guerra.
Infine, una nota su un concetto che nel libro emerge, sì, forse, ma non con l'importanza che meriterebbe. Cioè che cooperare è bello. Dà piacere. Risponde probabilmente ad un bisogno psicologico profondo. Di solito, quando lo si ammette, lo si fa con tono colpevole. C'è il timore di far passare il messaggio che i cooperanti si divertono o si inebriano del loro ruolo, del loro potere. Non mi riferisco a questo genere di situazioni, ovviamente. Mi riferisco ad un bisogno umanissimo, un bisogno “onesto”, che è quello di relazione. E forse di avventura: l'avventura data dalla relazione, appunto, dall'andare “altrove”, dal confrontarsi con ciò che è “altro da sé”.
Molti soddisfano questo genere di bisogni in maniere più ovvie, e a casa propria. Altri – una minoranza, certo – cadono vittime dell'impulso che li spinge ad andare nei Balcani quando infuria una guerra o in Africa dove comunque prendersi per lo meno la malaria è nel novero delle possibilità. Non va sottaciuto. Fare operazione di sincerità riguardo ai moventi della cooperazione significa anche confrontarsi con questo genere di...emozioni? E non sono, a parer mio, emozioni di cui ci si debba vergognare.
E mi fermo qua perché altrimenti devo scrivere un libro a mia volta.