Evviva


Evviva per coloro che non hanno mai inventato niente
per coloro che non hanno mai esplorato niente
per coloro che non hanno mai donato niente.

Aimé Césarie

Succhiare l'ombra, succhiare l'anima

Sono nel cortile interno di un palazzo, potrebbe essere sede di uffici, pubblici o privati. E' inverno. Entrambi tirano lunghe boccate alle loro sigarette. Dalle bocche escono fumo e fiato.
(...) a: poi a volte penso: ma non stavo meglio prima?
s: a chi lo dici.
a: mi godevo ogni minuto. andavo ad arrampicare, mi sembrava di essere...
s: sì sì.
a: mi sembrava di essere un dio, quando arrivavo su. poi tornavo a casa, tutto contento, dalla famiglia, dai bambini...
s: a me lo dici. Sono andato a correre tutti i giorni per un anno...adesso non riesco più a fare niente, non mi importa più.
a: eh, appunto.
s: perché hai bisogno, di quest'altra cosa, la vuoi, ti sei convinto che ne hai bisogno, non puoi stare senza...
a: la tua anima, ne ha bisogno. il tuo cuore.

s. sorride come se avesse aspettato questa affermazione fin dall'inizio. è il più giovane dei due, ma si atteggia a quello più maturo. non sappiamo se lo è davvero o meno. in generale, noi che guardiamo la scena da fuori non riponiamo una grande fiducia nel concetto di maturità.

s: e no, è il contrario. è che ti sei accorto che sei vuoto, che hai un vuoto, qui, prima non lo sapevi, andavi a arrampicare, tornavi a casa, stavi bene, avevi fatto la tua giornata. adesso senti che hai questo vuoto, e vuoi riempirlo, senti che non hai l'anima, vuoi l'anima di un'altra persona, vuoi la sua ombra, vuoi succhiargliela, per poi...ah, adesso ho tappato il buco, qui, ah, adesso non sono più vuoto...

Sono mesi che a. parla di queste cose, con tutti, sta collezionando pareri. ogni volta gli sembra di avere raccolto un pezzetto di verità, è raro imbattersi due volte nello stesso pensiero, pensa.
pensa anche che le parole di s. lo accompagneranno almeno fino a dopodomani. che in ogni modo, come dice s., riempiranno il suo vuoto.

a: nessuno me lo aveva mai detto, in questa maniera.
s: c'è una teoria, che dice che non tutti hanno un'anima. solo il 20 per cento circa delle persone.
a. sì? non è molto.
s: no, infatti. ecco che arrivano.

s. butta la sigaretta per terra, la schiaccia con il piede. Poi solleva la macchina fotografica, porta l'occhio al mirino.

Il tempo lento



Hai guardato l'orologio 5 minuti fa e ti sembra che siano passate ore. E' un'esperienza che abbiamo vissuto tutti. A scuola, aspettando la campanella della fine dell'ora; sul lavoro, mentre scalpiti per uscire, per vedere chi devi vedere, per fare quello che devi fare; all'angolo della strada o davanti ad una stazione, in attesa della persona amata; lasciando girare un programma sul pc, secondi che sembrano ore; vegliando qualcuno che fra poco non ci sarà più. Aspettando.
A volte mi chiedo come facevano i nostri emigranti, quando partivano, quando solcavano i mari, sapendo che anni e oceani li avrebbero tenuti distanti dai proprio luoghi, dai propri cari. Avevano più palle di noi, sicuro. E chi rimaneva, chi aspettava le loro lettere, dal fondo spazzato dai venti di un altro continente, dalle città fumiganti, dal centro della terra in cui scendevano con i loro picconi?
Il tempo lento dei cargo, il tempo lento dei treni locali, il tempo lento di chi non ne può più, di chi deve uscire, di chi deve andare. O tornare.

Einsturzende Neubauten. Ai loro esordi, scassavano i palchi con il martello pneumatico, prendevano a martellate i residui di una civiltà industriale che stava morendo, soppiantana da quella elettronica. Ma hanno scritto anche canzoni dolcissime. Come questa.

River man



Si sedeva al centro del palco e sussurrava le sue canzoni guardando per terra, mentre il pubblico beveva, parlava ad alta voce e faceva rumore ignorando la sua musica.
Essere nato in Birmania non gli era servito.
"Un cane dagli occhi neri bussa alla mia porta, un cane dagli occhi neri mi chiede di più, un cane dagli occhi neri che conosceva il mio nome... sto invecchiando e voglio tornare a casa, sto invecchiando e non ne voglio più sapere."
E' morto a 26 nella casa della madre, vicino Birmingham. Probabile suicidio.
Ha lasciato 3 album, intrisi di poesia.

L'ho ascoltanto stamattina andando al lavoro. Ore 5.45, luna velata da nubi, strade ancora vuote. Ma ero felice, la sua non è solo musica triste, è molto, molto di più.

The passenger



Era cresciuto in una casa-roulotte a Detroit. I compagni di scuola lo prendevano per il culo. Non era leccato come certi cantanti finti di adesso, non posava, non aveva studiato, era un'iguana naturale. Ed era vero.

Anchor



Pensare ad un punto abbastanza lontano della tua vita, essere certi che lì non era ancora iniziato niente. Ancorarsi a quel punto. Una stanza d'albergo, ad esempio. Potrebbe essere Lima. Per funzionare deve situarsi in prossimità. In prossimità dell'evento, non anni e anni prima. Così vicino che potresti immaginare, di lì in poi, una vicenda diversa, un diverso modo di procedere. Qualcosa che abbia ostacolato il corso della storia così come l'hai vissuta realmente, ad esempio, una deviazione: potresti non avere scritto certe cose, potresti non avere detto di sì al tuo capo, potresti non essere tornato, è successo a persone che hai conosciuto bene, è successo cosa? Non si sa, sono venute giù come cometa, nell'Atlantico. Sarebbe potuto succedere a te ed invece è successo a persone che conoscevi, tu sei tornato, hai scritto, sei andato in montagna, hai accettato inviti, hai formulato inviti. Ti sei comportato bene, tutto sommato. Davvero vorresti fosse andata diversamente? E davvero pensavi non ci fosse un prezzo da pagare?
Quel pomeriggio passavano davanti alla tua finestra col parapendio. Era una giornata di sole, oltre il vetro, succede di rado da quelle parti. Dietro il parallelepipedo, dietro la prima fila di grattacieli, l'intera metropoli, su su fino alle baraccopoli cadenti aggrappate ai pendii riarsi, solcate da sentieri di polvere.
Stavi certamente pensando a qualcosa ma non a quella cosa, eri ancora ignaro del dipanarsi degli eventi, eccoti lì. Fermo alla finestra, moderatamente felice. Ti stupisci che non succeda nulla, nulla di veramente doloroso, ma neanche nulla che ti riempia davvero di gioia e aspettativa e estasi. Adesso sei ancorato (questa parola ne richiama un'altra - anchor - , un sito costruito in linguaggio html, i templates erano ancora così primitivi, tra le tante cose che hai imparato, e disimparato, c'è anche l'html).
E' estate, ma presto cederà il passo all'autunno. E' estate, la stanza del Marriott è climatizzata. Hai addosso l'abbronzatura del mare, qualche settimana prima hai bevuto birra fuori da una tavola calda, gestita da tre ragazzi egiziani, fino a sentire l'alcol diffondersi e rilassarti, hai visto passare una persona dall'altra parte della strada ma hai fatto finta di non riconoscerla, è il ricordo più intenso delle ultime settimane. Sei al Marriott, un privilegio. Non hai ancora ripreso a fumare. Non hai ancora assunto l'aria distratta che ti rimproverano. Non sei ancora stato a Londra. Sei integro, ma già sei come Roquetin, sulla spiaggia; guardi il ciotolo che hai tra le mani, chiedendoti se sia duro o molle. Predestinazioni? Zero.

Tra le due luci



Dio fece i due grandi luminari, il luminare maggiore per governare il giorno e il luminare minore per governare la notte, e le stelle. Dio li ha posti nella distesa dei cieli per dar luce alla terra, e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre, e Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno.

Tutti i turisti erano ripartiti, sui loro pulmann. Nel parcheggio rimaneva ormai solo la nostra auto, e il fuoristrada dei gestori del minimarket.
Mangiavamo fichi, uva, su un tavolo all'aperto, bevendo té al gelsomino.
L. leggeva dei passi della Bibbia. Sull'altra sponda del lago, brillavano le luci della Giordania.

C'erano due messaggi sul mio cellulare, che ancora non volevo leggere, li avrei letti più tardi, prima di dormire, forse. Rimandavo il piacere narcisista di essere pensato lontano.

Nei cessi dell'aeroporto di Beira



Era passato a prendermi all'albergo con solo tre quarti d'ora di ritardo. Lo avevo aspettato nell'atrio, seduto su una sedia, al buio, i bagagli posati lì accanto. C'erano delle persone distese a terra, sopra alle loro capulane, che dormivano. Cameriere, cuochi, insomma, lo staff. Avevo provato ad uscire, ad un certo punto, mentre il sole sorgeva all'orizzonte e iniziavo a distinguere le nuvole dallo sfondo del cielo, ma troppe cose strisciavano sui gradini dell'ingresso, ero tornato subito dentro.
"Una gomma bucata", si è giustificato sorridente, appena sceso dalla jeep.
Siamo partiti lasciando lo Zambesi sulla nostra destra, "anch'esso uno dei grandi fiumi della terra, nonostante tutto", per dirla con Conrad, che però qui in Mozambico non c'è mai venuto. Ci aspettavano cinque ore di buona strada asfaltata - a parte qualche buca - fino a Beira, dove avrei preso l'aereo per tornare in Italia.
Attorno, la campagna, i luoghi delle persone che conoscevo. La casa di Monica e Ibra, appena fuori Caia, di muratura, con il pozzo all'esterno, dove venivano ad attingere l'acqua i bambini che abitavano nelle capanne tutt'attorno, quelli che l'altro giorno ci erano venuti a chiamare per mostrarci l'ippopotamo che giocava nel centro del fiume; la boscaglia nella quale sta rintanato il misterioso Jack White, non il chitarrista rock, un bianco venuto lì anni prima dallo Zimbabwe, a mettere su una segheria, per qualcuno addirittura l'assassino di Olof Palme, il primo ministro svedese ucciso da un killer a Copenghagen nel 1986; più avanti il ristorante all'ingresso del parco del Gorongosa, dove qualche anno fa i cooperanti facevano tappa per sfoderare il cellulare e finalmente mettersi in contatto col resto del mondo, Caia ancora isolata, davvero Africa profonda, zanzare, fuochi, alluvioni, mentre ora hanno persino terminato il ponte, con tutti i suoi lampioni, ora si scavalca il fiume in 5 minuti, prima bisognava prendere il traghetto, i camionisti aspettavano anche due giorni, in coda, sulla riva, a bere birra Manica e a comprare un po' di amore per ammazzare la noia.

Mi ero assopito, nella luce lattiginosa del mattino australe, cullato dall'auto e dalle musiche alla radio. Poi a Gorongosa il paesaggio si vivacizza, la terra si solleva all'improvviso in un grande massiccio, era il regno dei leoni, le varie milizie che ci sono passate durante la guerra civile hanno fatto strage della fauna selvatica, solo ora il parco comincia a ripopolarsi. Così, ho cominciato a fare conversazione con il driver, anche se conversazione, con le mie quattro parole di portoghese, è un termine improprio. Abbiamo parlato di politica, in questi paesi spesso c'è più passione politica che da noi, lui non era né per il Governo (Frelimo) né per l'opposizione (Renamo), parteggiava per una terza forza, che però alle elezioni era stata boicottata, aveva potuto presentare i suoi candidati solo in alcune zone del Paese. Quando scrivevo la tesi io parteggiavo per il Frelimo, c'era ancora la guerra, la mia docente aveva iniziato qui in Mozambico la sua carriera, lavorando con Ruth First, una ricercatrice marxista di origini sudafricane uccisa a Maputo in un attentato dei servizi di Pretoria, un pacco che le era esploso in mano all'università Eduardo Mondlane. Era logico stare con il Frelimo, il Frelimo rappresentava l'orgogliosa lotta di un popolo contro il colonialismo prima e contro il regime dell'apartheid poi. Probabilmente ogni forza politica quando sta troppo a lungo al potere si incancrenisce, il potere, quando non è temperato dalle buone leggi, quando lo si dà per scontato, trascina con sé arroganza e abusi.
Poi abbiamo parlato delle nostre famiglie. Lui aveva un figlio a Beira, Nelson; dopo avermi accompagnato all'aeroporto sarebbe passato a trovarlo. Ha tirato fuori il cellulare, mi ha mostrato la foto: non sapevo cosa dire, mi sembrava chiaramente idrocefalo. Il volto dell'uomo era radioso; si vedeva che non stava più nella pelle, anche se mancavano ancora due ore alla città. In quanto alla madre, se ho capito bene, non avevano più buoni rapporti, forse anche a causa del fatto che lui ora lavora lontano, con i cooperanti.

All'aeroporto ho insistito per offrirgli un caffé, al bar del piano di sopra, eravamo in anticipo nonostante fossimo partiti in ritardo. Non ha voluto altro. E' scappato di corsa da Nelson, lasciandomi con i miei pensieri, sulla terrazza, affacciata sulla pista d'asfalto. Sono andato in bagno, mi sono scattato questa foto. Avevo molte ore di viaggio davanti, da Beira a Johannesburg, da Johannesburg sorvolando tutta l'Africa fino a Monaco, da Monaco a Verona. Ero contento di essere solo. O almeno, così mi sembra adesso, da qui; in quel momento provavo probabilmente solo impazienza, mista all'illusione di essere un viaggiatore, non un professionista che aveva appena terminato di fare il suo lavoro. Sono sceso di sotto, agli imbarchi, mi sono piazzato sul divanetto di pelle color vinaccia, da dove potevo tenere d'occhio il tabellone delle partenze, per buttare giù qualche appunto. Subito un uomo è venuto a sedermisi accanto, Era anziano, vestito in t-shirt e pantaloncini, ciabatte logore ai piedi. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo. Gli ho raccontato del progetto che ero andato a filmare a Caia. "Certo, certo..." ha annuito, pensosamente, passandosi i palmi delle mani sulle ginocchia. Gli ho detto anche che il Mozambico mi piaceva, che rimpiangevo ogni volta di non potermi fermare di più. Ha sorriso: la testa tentennava, come ho visto fare, più vistosamente, in Sri Lanka (ma lì il dondolio equivale ad un cenno di assenso).
"Abbiamo molti problemi. Non abbiamo voglia di lavorare."
Il suo umiliarsi di fronte al "bianco" mi metteva a disagio. Se al suo posto ci fossero stati dei turisti italiani, come una volta in Tanzania, quelle figure grottesche che vengono in Africa dicendo di amarla, di esserne adirittura "ammalati", pur detestando tutto degli africani, la loro indole, la loro gestione del tempo, la loro mancanza di tecnologia, avrei ribattutto seccamente che non era vero, che semmai era diversa la concezione del lavoro, e che comunque nessuno aveva il diritto di parlare così. Ma l'uomo era a casa sua, cosa potevo dirgli? Poi mi ha chiesto qualche spicciolo; ha ringraziato ed è uscito subito, curvo, furtivo.

Forti turbolenze nel tratto fino a Joh'burg, sorvolando miniere a cielo aperto, terra rossa disabitata. E lì, ho scoperto che l'aereo che avrebbe dovuto portarmi a Monaco si era rotto; in compenso Lufthansa ci offriva la cena, in uno dei ristoranti del terminal.

Cosa c'è da dire?

(raccontino)

Fermò la macchina di fronte a un ristorante, di fianco alla stazione delle autocorriere. All'interno stavano già facendo le pulizie, ma la notte era calda e alcune persone sostavano ad un tavolino sul marciapiede, affacciato sul parco.
"State chiudendo o si può ancora mangiare?", chiese alla donna che sparecchiava i tavolini.
"Prego".
Si sedettero sotto un amplificatore che diffondeva ad alto volume musica da discoteca passata di moda. Ma quasi subito qualcuno, dall'interno del locale - forse quella che li aveva fatti accomodare - lo spense.
Una gentilezza nei loro confronti? La donna – bionda, di mezza età, magra, il tipo di persona che si muove sprigionando scintille di energia compulsiva - le era sembrata gentile, nonostante l'ora tarda. Si chiese se avesse a che fare con qualcosa che si portavano addosso, un odore buono, un'aura, o se fosse solamente gentilezza innata. Preferiva la prima ipotesi. Quando erano usciti - si stava sistemando i capelli con le mani davanti allo specchio - lei gli aveva detto: "Lascia stare. Sei bellissimo. Come un uomo che ha fatto l'amore per ore".
Anche lei era bellissima, rifletté. Ma se l'avesse vista camminare per strada, se l'avesse incontrata in un ascensore, avrebbe intuito che era stata appena abbracciata, avrebbe capito che la sua pelle sotto al vestito di cotone portava i segni di quegli abbracci, di mani e denti e anche delle pieghe del lenzuolo a cui l’aveva inchiodata?
No, probabilmente no. Un fatto che lo lasciava sempre stupito. Che si potesse passare così in fretta dalle infinite variazioni del piacere alle infinite ovvietà dell'esistenza ordinaria. Invisibili.
Certo, era un vantaggio. Per persone nella loro condizione era indubbiamente un vantaggio.
Al tempo stesso, però, a volte aveva desiderato che in qualche punto dei loro corpi si producesse come...una modificazione, un'incrinatura? Uno spiraglio dal quale far filtrare una luce? Oppure, magari, un buco, un varco, per guardarci dentro, nel rosso, nel vivo della carne, per vedere cos’era successo, cos'era cambiato. Perché, in sere come quella, qualcosa nelle vite di entrambi si modificava. E allora, sarebbe stato giusto che gli altri lo vedessero, in qualche modo. Sarebbe stato come un faro. Avrebbe indicato una strada.

Si riscosse perché all'altro tavolo qualcuno aveva parlato a voce alta. Facevano un brindisi, quattro uomini e due donne, con l'aria perfettamente sveglia e ancora sobria. Pensò per un attimo di voler essere uno di loro; sapeva che è meglio non pensare troppo, mai, e in generale, ma non riusciva a impedirselo, perché gli intervalli fra un incontro e l’altro erano lunghi, a volte anche un mese, o più. Essere un animale notturno senza nessuno ad aspettarlo a casa, un uomo solo che beveva assieme ad altri uomini e donne di una certa età, soli anch’essi, beato dei soldi che aveva nel portafoglio e che gli avrebbero permesso di pagare un altro giro, delle sigarette schiacciate nella tasca. Una vita lontanissima, irraggiungibile. E a conti fatti, forse, nemmeno tanto desiderabile, anche se aveva conosciuto persone che l’avevano vissuta, eccome. Suo padre, ad esempio.

Lei stava scorrendo il menù. Si era raccolta i capelli sulla nuca. Era stanco e appagato ma non ancora sazio. Non lo erano la sua mente e i suoi occhi, perlomeno. L'avrebbe baciata di nuovo, il collo, i piedi, le braccia, l'incavo delle ascelle, cosa aveva trascurato? Non si stancava mai di percorrerla, non si stancava mai di immaginarla frutto da mordere, campo da arare.
Che quando si davano appuntamento potesse essere l'ultima volta, gli veniva in mente solo dopo qualche giorno. Quel genere di tormento, per adesso, poteva aspettare. Ora avrebbero cenato e lui avrebbe gustato le sue parole, i paesaggi che schiudevano sulle sue altre esistenze, quelle che conduceva lontano da lui. Avrebbe sentito la notte estiva alitargli sul collo. Non c’erano più molte auto in giro e ogni suono, ogni sillaba pronunciata, acquistava una sua speciale dignità.

Poi, magari se ne erano accorti tutti. Ne stavano parlando tra loro? Per questo adesso bisbigliavano? E che cosa avrebbero dovuto dire? Cosa c'è mai, da dire?

(da La calda notte degli avatar)


chrome - meet you in the subway

Lady Day



When she walked on down the street
She was like a child staring at her feet
But when she passed the bar
and she heard the music play
She had to go in and sing
it had to be that way
She had to go in and sing
it had to be that way

And I said no, no, no
oh, Lady Day
And I said no, no, no
oh, Lady Day

After the applause had died down
And the people drifted away
She climbed down off the bar
and went out the door
To the hotel that she called home
It had greenish walls
a bathroom in the hall

And I said no, no, no
oh, Lady Day


Quando camminava per la strada
era come una bambina che si guarda i piedi
Ma quando passava davanti al bar
e sentiva suonare della musica
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così
doveva entrare e cantare
doveva per forza essere così

E io dicevo no, no, no
oh, Lady Day
e io dicevo no, no, no
oh, Lady Day

Dopo che gli applausi erano finiti
e la gente se n’era andata
Scendeva le scale del bar
e usciva
verso quell’albergo che lei chiamava casa
aveva muri verdastri
e il bagno nel corridoio

E dicevo no, no, no
oh, Lady Day

(from "Berlin")
Vedi anche: www.loureed.it

Luce. Acque.