Red Shirley: terza età di una rockstar (e i 100 anni della cugina)
Il titolo più lungo per un post brevissimo, il trailer di questo film di cui non so molto, se non che Lou Reed, il "re del male", l'autore di "Heroin" e "Venus in furs", la rockstar che ha cantano le perversioni della metropoli più metropoli del mondo, che ha passeggiato sul lato selvaggio, intervista la cugina centenaria sulla sua esperienza di immigrata negli Usa, agli inizi del secolo. A me sembra qualcosa di davvero delicato e toccante. Mi riferisco alla cugina ma anche a Lou.
Rockstar invecchiano. Con grazia. Senza perdere la creatività.
Fonte: l'ottimo www.loureed.it
Marguerite Duras

Ho imparato già qualche cosa. So che a far bella una donna non sono né i vestiti, né le cure di bellezza, né il prezzo degli unguenti, né la rarità e il valore intrinseco degli ornamenti. So che il problema è un altro, ma non so quale sia. Non è quello che credono le donne. Le guardo, nelle vie di Saigon o nelle località sperdute della savana. Ce ne sono di bellissime, bianchissime, tutte curano molto il loro aspetto, soprattutto nei posti sperduti. Non fanno nulla, cercano di mantenere la loro bellezza, di conservarla per l'Europa, per gli amanti, per le vacanze in Italia, per le lunghe ferie di sei mesi ogni tre anni, quando finalmente potranno raccontare quello che succede quaggiù, questa vita in colonia così strana, parlare di com'è servizievole questa gente, di quanto sono bravi i boys, della vegetazione, dei balli, delle ville bianche, tanto vaste che ci si perde, dove abitano i funzionari nominati nelle località sperdute. Aspettano. Si agghindano per niente. Si risparmiano. Nell'ombra delle ville si conservano per dopo, credono di vivere in un romanzo, con i grandi armadi pieni di vestiti da non sapere che farne, e che esse collezionano, come collezionano la fuga di quei giorni d'attesa. Alcune impazziscono. Altre vengono piantate per una servetta che sa tacere. Piantate. Questa parola, quando le colpisce, ha un suono spaventoso, il suono di uno schiaffo. Alcune si uccidono.
Questo mancare delle donne a se stesse sempre l'ho sentito come un errore.
Non c'era da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C'era fin dal primo sguardo o non era mai esistito. Era l'immediata intesa sessuale fra due persone o non era niente.
L'amante, Feltrinelli, trad. Leonella Prato Caruso
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Washing of the water
Così profondo, così ampio, mi porteresti sulla tua schiena a fare una cavalcata? Se dovessi cadere, mi inghiottiresti giù nel profondo?
Fiume, mostrami come galleggiare
Mi sento come se stessi affondando
Pensavo che me la sarei cavata
Ma qui in quest'acqua
i miei piedi non toccano il fondo
(...)
Andando via, via verso il mare
Fiume profondo, puoi sollevarmi e portarmi?
Oh scivola attraverso il cuore della terra
fino a quando il sole non lascia il cielo
Fiume, fiume portami in alto
fino a quando il trasporto dell'acqua non farà andare tutto bene
Lascia che le tue acque mi raggiungano come lei mi ha raggiunto stanotte...
(Thanks to this site for the translation)
Apartheid italiano

Una piccola lezione di storia alla luce dei fatti recenti di Rosarno.
L'apartheid in Sud Africa nacque fra la fine degli anni '40 e i primi anni '50 del secolo scorso; dopo la Seconda guerra mondiale, dunque, una guerra combattuta, in ultima analisi, contro un'ideologia razzista elevata all'ennesima potenza.
Ma le basi del sistema erano state poste agli inizi del '900, con una legge chiamata Land Act, varata nel 1913; in base a questa legge i "nativi" (cioé i neri, o Bantu) potevano esercitare diritti di proprietà su una percentuale del suolo sudafricano non superiore al 13% circa. Oviamente si trattava delle aree più povere del Paese, quelle prive di giacimenti minerari e più difficili da coltivare. L'origine dei Bantustan, le famigerate "patrie tribali" dell'apartheid, è questa.
Ora, a cosa servivano i Bantustan? A rinchiudere i neri? A tenerli lontani dalle miniere d'oro e diamanti del Witwatersrand? Dai latifondi dei Boeri? Dalle metropoli "bianche"? Solo in parte. In realtà i neri continuarono ad affluire a migliaia, a milioni, in quelle miniere, in quei latifondi, in città come Johannesburg. Ci arrivavano come lavoratori migranti. Lavoratori privi di ogni diritto legato alla cittadinanza (essendo essi, formalmente, cittadini dei Bantustan, delle loro patrie tribali, che nessuna nazione al mondo riconosceva come tali tranne ovviamente il Sud Africa e la vicina Rodhesia). Lavoratori assunti con contratti a termine - questo dalle imprese di maggiori dimensioni, in particolare dalle industrie minerarie - o semplicemente "in nero", come ancora oggi continuiamo a dire, e significherà pure qualcosa. Lavoratori che quindi, in virtù del loro particolare status, potevano essere espulsi inn qualsiasi momento. Lavoratori a basso costo, ammassati a decine in accampamenti di baracche malsane, ricattabili, resi docili dalla precarietà prima ancora che dalla violenza della coercizione. Lavoratori privi di famiglie al seguito (rimaste nei Bantustan), e dei costi sociali che esse generano, in termini di assistenza sanitaria, diritto allo studio e così via. Lavoratori che, una volta scaduto il loro contratto, venivano rimandati nei Bantustan; spesso a morire di silicosi o di una delle altre malattie contratte lavorando nelle viscere della terra per scavar fuori quella ricchezza che poi approdava in altra forma nei mercati europei, facendo la fortuna di realtà come la De Beers o la Anglo American Corporation. Chi sfuggiva alle maglie del sistema - spesso perchè il sistema stesso giudicava, in ultima analisi, che fosse meglio così -andava ad affollare le baraccopoli come Soweto, città-fantasma tollerate proprio in quanto serbatoi di forza lavoro a buon mercato, ma prive di qualsivoglia riconoscimento ufficiale e quindi smantellabili da un giorno all'altro, al minimo indizio di protesta o di rivolta.
Se qualcuno vede qualche analogia fra questa realtà e quella dei migranti clandestini di oggi, che affollano le campagne calabresi o le baraccopoli di tante città italiane, è ovviamente autorizzato a farlo. L'immigrazione clandestina non è una iattura che l'Italia si trova suo malgrado a dover sopportare; è un sistema funzionale ad un certo tipo di economia. Semisommersa, nella migliore delle ipotesi. Mafiosa, criminale, banditesca, nella peggiore. In questo sistema il clandestino è l'anello debole della catena. La sua "appetibilità", agli occhi del datore di lavoro, è data appunta dalla sua debolezza. Una debolezza che i proiettili dei boss o - in maniera meno cruenta ma non più pietosa - gli sgomberi forzati possono, se necessario, ribadire. Una debolezza accentuata dalla attuale legge sull'immigrazione, la Bossi-Fini del 2002, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno, della residenza e cittadinanza italiana solo alle persone che dimostrino di avere un lavoro o un reddito sufficienti per il loro mantenimento economico. L'uomo, questa entità complessa e per tanti versi misteriosa, questo impasto di vissuto, ereditarietà, emozioni, idee, passione, questa straordinaria "macchina desiderante", come veniva definita un tempo, ridotto alle sue funzioni economiche, a pura forza lavoro. In questo caso, forza lavoro "cheap".
Pubblicato oggi anche sul quotidiano "Il Trentino".
Bath, o come iniziare il 2010
Iniziato il 2010 con un breve viaggio a Bath, Inghilterra del sud.
Bello viaggiare a gennaio, un lusso il freddo, la luce invernale, crepuscoli e brina e i pochi turisti con lo spumante che ancora gli galleggia nel bianco degli occhi. Gennaio è stato spesso un mese di viaggi, sempre città o luoghi "circoscritti", da vedere a piedi, con calma, o parcheggiando la macchina sul lato di strade poco affollate, Oporto, la Maremma, Salisburgo, Venezia...
Bath, le colline del Somerset, mia figlia divertita dalle diversità fra l'Italia e questi antipodi così prossimi a noi, dove si guida a sinistra e la gente si scompone difficilmente, dove il formaggio non è Asiago ma Cheddar Cheese e nelle case c'è moquette anche in bagno.
Affido questo racconto alle immagini, intanto.

Le strade che salgono verso la Royal Crescent, la spettacolare mezzaluna di case di John Wood (il giovane, credo). In fondo, il campanile della cattedrale.

Ieri l'Inghilterra si è bloccata per la neve. Traffico paralizzato, voli cancellati. In verità, a noi orsi polari delle Alpi non è sembrata una situazione eccezionale...

Ed ecco la Royal Crescent. Sembra un palazzo nobiliare, in realtà sono abitazioni (con un hotel proprio nel centro della mezzaluna). Pare che uno degli appartamenti sia stato comprato da Nicolas Cage...
Comunque, i prezzi di questa città di origini romane, descritta nelle guide come "la Firenze dell'Inghilterra", non sono più alti che a Trento.

Mi piace fotografare le case. Mi piacciono i tetti.

Esterno della cattedrale di Bath. Starway to heaven.
Pomeriggio di gennaio a Wells, cittadina del Somerset. Ricordo di un altro campo da calcio, a Bolzano, sulle rive del Talvera, un altro gennaio, un altro gelido sole, altri crepuscoli, ombre & sogni...

Questa foto solo perché mi ricorda la celebre canzone di Peter Gabriel, illustre cittadino di Bath. Se ne parla anche QUI
Climbing up on Solsbury Hill
I could see the city light...
Ed è così.
Bello viaggiare a gennaio, un lusso il freddo, la luce invernale, crepuscoli e brina e i pochi turisti con lo spumante che ancora gli galleggia nel bianco degli occhi. Gennaio è stato spesso un mese di viaggi, sempre città o luoghi "circoscritti", da vedere a piedi, con calma, o parcheggiando la macchina sul lato di strade poco affollate, Oporto, la Maremma, Salisburgo, Venezia...
Bath, le colline del Somerset, mia figlia divertita dalle diversità fra l'Italia e questi antipodi così prossimi a noi, dove si guida a sinistra e la gente si scompone difficilmente, dove il formaggio non è Asiago ma Cheddar Cheese e nelle case c'è moquette anche in bagno.
Affido questo racconto alle immagini, intanto.
Le strade che salgono verso la Royal Crescent, la spettacolare mezzaluna di case di John Wood (il giovane, credo). In fondo, il campanile della cattedrale.
Ieri l'Inghilterra si è bloccata per la neve. Traffico paralizzato, voli cancellati. In verità, a noi orsi polari delle Alpi non è sembrata una situazione eccezionale...
Ed ecco la Royal Crescent. Sembra un palazzo nobiliare, in realtà sono abitazioni (con un hotel proprio nel centro della mezzaluna). Pare che uno degli appartamenti sia stato comprato da Nicolas Cage...
Comunque, i prezzi di questa città di origini romane, descritta nelle guide come "la Firenze dell'Inghilterra", non sono più alti che a Trento.
Mi piace fotografare le case. Mi piacciono i tetti.
Esterno della cattedrale di Bath. Starway to heaven.
Pomeriggio di gennaio a Wells, cittadina del Somerset. Ricordo di un altro campo da calcio, a Bolzano, sulle rive del Talvera, un altro gennaio, un altro gelido sole, altri crepuscoli, ombre & sogni...
Questa foto solo perché mi ricorda la celebre canzone di Peter Gabriel, illustre cittadino di Bath. Se ne parla anche QUI
Climbing up on Solsbury Hill
I could see the city light...
Ed è così.
Il senso della vita
Posto qui questo prezioso regalo. Mi sembra un degno corollario a ciò che ho scritto sotto. Il momento magico che passa, come un treno nella notte. Non i soldi, non il potere o l'industria o il marketing o la competitività. Una stamberga affacciata sul nulla. Vestiti dozzinali, appariscenti. Sudore, sottovesti, solitudini intercettate, ballando con degli sconosciuti. La rivelazione della vita sulla punta della sigaretta. Il bianco mescolato al nero, il bene in qualche modo, in qualche strano modo, mescolato al male, nulla di veramente puro. La seconda fottuta metà del XX secolo, signori. Il rock 'n' roll. E forse, sempre in qualche strano modo, la libertà.
Pensierini su/di Bauman, la libertà, la solidarietà
"La politica che si ispira alla saggezza postmoderna si orienta verso una continua ri-affermazione del diritto degli individui liberi a perpetuare e garantire le condizioni della loro libertà. Ma per fare questo ha bisogno di essere guidata dal triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà ove solidarietà è la condizione necessarie e il contributo collettivo essenziale alla vitalità della libertà e della differenza. Ma se il mondo postmoderno è capace di generare da se stesso Libertà e Differenza lo stesso non si può dire per la Solidarietà. Ma senza solidarietà nessuna libertà è sicura mentre le differenze e il tipo di politica dell’identità che tendono a generare conducono, non di rado, alla interiorizzazione dell’oppressione."
Qui, a quanto pare, sta il paradosso della postmodernità: per realizzare appieno libertà e differenza essa necessita di solidarietà. Di responsabilità di fronte al volto dell’Altro. L’Altro che ci è sempre straniero. Solo così l’incertezza e l’inquietudine postmoderne potranno - forse - sedarsi.
Così Zygmunt Bauman.
Bauman è preoccupato dagli eccessi della libertà e usa i termini "postmoderno" e "postmodernità" come sinonimi o quasi di "liberalismo", "liberale" e persino di "democratico" (le società liberaldemocratiche sono capaci di generare da se stesse Libertà e Differenza è una frase che funziona altrettanto bene della sua). Il bersaglio potrebbe essere, più concretamente, il "neoliberismo". In Italia, a onor del vero, il neoliberismo tatcheriano e reaganiano non l'abbiamo mai conosciuto. In Italia la destra è un'ambigua espressione del solito, vecchio populismo. Non fa appello all'individuo, o alla mano invisibile del mercato; fa sempre appello al popolo, al Paese, al bene comune.
Del resto, di quale libertà parlavano i neoliberisti? Di quella garantita dal denaro, dalla CIA, dai servizi segreti? Il figlio della Tatcher collaborò all'organizzazione di un colpo di stato in Guinea equatoriale, un avventuriero mercenario molto lontano dall'icona algida e spietata della madre che ha pagato milioni di dollari per tirarlo fuori dalle prigioni e dai processi in cui è stato coinvolto.
Gli alfieri della libertà hanno spesso qualcosa da nascondere; si può essere liberi solo quando/se si rinuncia a qualcosa, non quando si prende/pretende sempre di più, e di più.
In quanto alla solidarietà, è cosa molto concreta e senza colore. Personalmente non so se sarei in grado di praticarla come quei quattro volontari del soccorso alpino che sono stati seppelliti ieri a Canazei. Eccola lì la solidarietà delle terre di montagna: partire mentre il sole tramonta e il pericolo valanghe è classificato 4 su 5 per andare a soccorrere due escursionisti di cui si ignora tutto anche l'identità; e farlo gratis, lasciando a casa famiglie, figli, calore, sicurezze. Sì, non so se sarei in grado di farlo. Indubbiamente, però, la solidarietà è questa. E, di nuovo, al pari della libertà, essa presuppone delle rinunce.
Gli eccessi della solidarietà poi si scontano con un "meno" di libertà, ovviamente. Con una coesione che è anche controllo sociale, spesso implicito, spesso avvertito dalle comunità come assolutamente naturale. Bauman vede anarchia dappertutto, vede l'impero del desiderio, e a volte ricorda certi passaggi (invero deliziosi) dei romanzi di Kundera, la logica dei diritti umani spinta alle sue estreme conseguenze, quando chiunque ha qualche diritto umano da rivendicare, il che produce un "impazzimento sociale" generale, il delirio rivendicazionista che paralizza le città e i centri decisionali.
Ma sembra non tenere in nessun conto la realtà delle valli e dei paesi di cui è pieno il mondo. I meccanismi per ridurre le differenze, per limitare le intemperanze dell'individualismo (nonché le umanissime richieste degli individui, come quella di avere una "buona morte", per restare a un caso di cronaca recente) funzionano eccome, fin troppo bene. Con tutto il bene, appunto (in termini di sicurezza e uguaglianza) e anche con tutto il male (in termini di appiattimento) che ne derivano.
Oggi l'onda lunga della postmodernità si infrange sui bastioni dei nuovi fondamentalismi. Personalmente non ho dubbi: dovendo scegliere fra due poli opposti, meglio Warhol, meglio la crisi del valori, meglio l'anomia della postmodernità delle granitiche certezze dei maestri della fede, degli ayatollah.
La vita reale fortunatamente non è così polarizzata, quantomeno non nelle nostre società democratico-liberali. Dovremmo tenerlo a mente. Dovremmo difendere il carattere sfaccettato, un po' molliccio, un po' "liquido", per usare un aggettivo caro a Bauman, dei nostri mondi. Dovremmo difendere la loro esuberante vitalità così come le loro ombre, le loro cupezze, la loro incessante produzione di interrogativi e dubbi. Invece a me pare a volte che alla gente la libertà - intesa come principio e non come querula, petulante perorazione di prebende, di favori, di deroghe - sia venuta a noia.
La laicità è performativa, mi ha detto una volta Gian Enrico Rusconi. Intendeva dire che produce immediatamente degli effetti nella vita reale. Che è il presupposto per tutto il resto. La precondizione.
Beh, insomma: la libertà e la precondizione. Bauman ne sembra spaventato. Spaventato dall'umanesimo. Spaventato dalla modernità prima ancora che dalla postmodernità. Dalla sostituzione della Legge con l'Uomo. Certo, l'uomo è capace di Auschwitz e di Treblinka, della Tratta degli Schiavi, di Hiroshima. Ma è tutto ciò che abbiamo. L'uomo e la sua libertà. Anche per il dialogo con l'Altro. Per questo si può dialogare con tutti ma è così difficile farlo con chi nega i presupposti stessi del dialogo, ovvero la libertà e ciò che da essa discende (laicità, democrazia ecc.)
Questo è oggi il paradosso più grande che dobbiamo affrontare. Come dialogare con i merdosi Talebani, afghani e magari anche di casa nostra. Un paradosso molto più grande di quello che ci propone la postmodernità, Zygmunt.
Foto: mostra di arte contemporanea ad Hanoi, Vietnam (m. pontoni)
L'amore è assolutista
L'amore è assolutista, non democratico. L'amore è geloso, possessivo, l'amore piglia tutto, anche le briciole. L'amore, come si fa a costruire la politica sull'amore? E se non lo vuoi, questo amore, se rifiuti il suo caldo abbraccio avvolgente? Sei un nemico dell'amore. Quindi un essere spregevole, perché come si fa a non volere l'amore? Nemico dell'amore, nemico del popolo. Una persona di cui è meglio diffidare. Da rinchiudere.
Tutto questo non ha nulla a che fare con le democrazie liberali, basate sulla sana competizione fra schieramenti diversi. Ha a che fare con il fondamentalismo religioso. Ha a che fare con il patriottismo più deteriore, con il paradiso in terra, con le magnifiche sorti e progressive. Quest'ultima uscita del partito dell'amore fa di Berlusconi un perfetto capopopolo komunista.
Tutto questo non ha nulla a che fare con le democrazie liberali, basate sulla sana competizione fra schieramenti diversi. Ha a che fare con il fondamentalismo religioso. Ha a che fare con il patriottismo più deteriore, con il paradiso in terra, con le magnifiche sorti e progressive. Quest'ultima uscita del partito dell'amore fa di Berlusconi un perfetto capopopolo komunista.
Canzone per Natale
C'è il temporale, e nelle case, la luce si fa artificiale...
E questo è quanto, per ora.
I'm Outta Time
Coltivando interessi che non interessano a nessuno, schifando passioni che spingono avanti le persone, fasci di nervi, mascelle taglienti, tutto il corpo proteso nello sforzo, spinte con le braccia e piedi che scalciano, i polpacci sudati, i deodoranti, il potere, ambizioni che ignoro.
E' così che si esce dal tempo, è svoltare l'angolo, un pomeriggio di giugno, o era maggio,? C'erano tutti quei petali sul marciapiede, sì, forse era maggio e il tempo si è disteso, come un disco di pasta.
E' così che si diventa un po' autistici?
I migliori del decennio - secondo "La Repubblica"
Ieri "La Repubblica" ha pubblicato le sue classifiche di libri, film e dischi del decennio, giochino sempre divertente, ammettiamolo.
Mi limito a commentare dischi e libri stranieri, i due settori che frequento di più.
Sul fronte dischi, la palma va a "Kid A" dei Radiohead, seguito da "I'm a bird now" di Anthony. Entrambe i giudizi mi trovano sostanzialmente favorevole. I Radiohead sono stati uno dei gruppi più influenti negli anni '90, e sono traghettati negli anni 2000 rinnovando completamente la loro musica (all'origine un rock di chitarre), gettando un luminoso ponte trasparente fra la riva del rock e quella dell'electro. "Kid A" in questo senso è forse il loro disco più rappresentativo, più ancora di "Ok computer" che all'epoca venne (altrettanto giustamente) osannato. I Radiohead hanno creato uno standard: se dovessi avvicinare qualche gruppo dei 2000 alla loro musica non potrei che pensare ai tedeschi Lali Puna, che mi sarebbe piaciuto vedere in classifica.
In quanto ad Anthony, la sua è la voce del momento. Una voce capace come poche di dare corpo al dolore e alla redenzione. Non a caso, fra i suoi scopritori abbiamo Lou Reed, che lo ha voluto in tour con sé nella prima metà del decennio e poi anche per alcune date di "Berlin" e gli ha fatto reincidere canzoni storiche come "Perfect day" o la velvettiana "Candy says".
Bene anche il sesto posto di "Love and theft" di Bob Dylan, uno dei capolavori della sua discografia, con quella voce come carta abrasiva e una manciata di canzoni memorabili, da "Mississipi" a "Po' boy". Bene anche Eminem con il suo "Marshall Matther" (dopotutto Eminem è l'unico rapper che si tira fuori dal mazzo dei papponi), mentre sugli Strokes di "This is it" ho qualche dubbio: sono stati certamente fra i gruppi più rappresentativi della scena indie rock, e hanno scritto ottime canzoni, ma: 1) i loro dischi sono sostanzialmente identici, senza apprezzabili modifiche o evoluzioni dall'uno all'altro, verrebbe da chiedersi perché "This is it" e non "Rooms on fire", ad esempio; 2) è difficile superare l'obiezione mossa loro da Paul Morley in "Metapop", secondo la quale gli Strokes sono il miglior gruppo rock...degli anni '60!
Al decimo posto, infine, Manu Chao con "Proxima estacion experancia". Notevole anche questa come scelta. E le donne? Due: Amy Whinehouse al terzo posto e Bjork con "Medulla" al nono. Che dire? neanche negli anni 2000 è venuta fuori la nuova Patti Smith.
Le esclusioni: me ne vengono in mente essenzialmente due. Anzi tre. Anzi quattro. Cinque, via. La prima: Mark Lanegan, "Bubblegum", un disco da brividi, stanze spoglie, scale che scricchiolano, sangue sul muro, sogni e incubi. La seconda: "The raven", un po' perché per me Lou Reed non può mai mancare, lui ha scritto il canone e ha tracciato il solco (non a caso, con chi ha suonato negli anni 00? Strokes, Killers, Raconteurs...), un po' perché il disco, specie quello doppio, con i recitati, rappresenta uno degli esempi più felici di connubio rock-letteratura (in questo caso, Edgar Allan Poe). La terza: i Killers. La quarta: Jack White in una qualche sua incarnazione, si chiami White Stripes o Dead Wheater. La quinta: Willard Grant Conspiracy, "Regard the ends".
Per la narrativa straniera il discorso è un po' più breve perché conosco solo due dei romanzi menzionati: "Le correzioni" di Franzen e "Elizabeth Costello" di Coetzee, che io avrei messo al primo e secondo posto, probabilmente (non so in quale ordine), anziché al settimo e ottavo (e del sudafricano avrei aggiunto anche "Vergogna", pubblicato da Einaudi nel 2000, ma probabilmente era uscito già prima in lingua inglese...).
Il romanzo di Franzen è un affresco straordinario, perfettamente bilanciato in ogni sua parte, uno di quei libri che ti fanno dire che, sì, la letteratura è ancora più interessante della vita, dopotutto. Quello di Coetzee è una sorta di romanzo filosofico declinato attraverso una serie di conferenze e saggi della protagonista, la scrittrice Elizabeth Costello, alter ego di Coetzee. Piace soprattutto a chi ha passato molta parte della sua vita frequentando eventi del genere (lezioni universitarie, simposi e quant'altro), ma stupisce come lo scrittore abbia saputo dare a questa materia un taglio (anche) narrativo. Un'opera asssolutamente originale, insomma, davvero degna di un Nobel.
Non so dire del primo classificatosi, "La strada" di Mc Charty, perché non l'ho letto (ancora). L'esclusione più clamorosa? Pamuk, "Neve", uno dei vertici della narrativa contemporanea. In generale forse avrei apprezzato un po' più di fantasia nei compilatori: non so, Houellebecq non è un prosatore perfetto; a volte ripetitivo, disomogeneo, troppo prodigo di prodezze sessuali nelle sue pagine come molti francesi, ma certamente è uno di quegli scrittori che colgono, eccome, lo spirito dei tempi. E poi, un po' provocatoriamente, "Chronicles" di Bob Dylan, una bellissima prova, un approccio obliquo al tema dell'autobiografia che andrebbe valorizzato, a prescindere dal personaggio. Infine, capisco che sarebbe sembrata una scelta tardiva, condizionata dal premio recente, ma Herta Muller con il suo "Il paese delle prugne verdi", ci sarebbe stata eccome in una classifica in cui le donne non abbondano (ma il libro è degli anni 2000 solo per il mercato italiano, in effetti...).
Una nota, infine, sul primo posto nella classifica "Libri italiani: "Gomorra" di Saviano. Un non-romanzo, o una docu-fiction, per dirla con il linguaggio dei video. Un po' come "L'abusivo" di Antonio Franchini , arrivato terzo (con tutto il rispetto per Saviano, che ha scritto un libro "enorme", io forse preferisco Franchini, addirittura il Franchini di "Quando vi ucciderete, maestro", indimenticabile titolo degli anni '90 su un tema caro all'autore ma assai poco bazzicato dai narratori, le arti marziali, la passione per gli sport di combattimento. Con quell'approccio, autobiografia romanzata, diciamo così, si potrebbe scrivere di qualunque cosa).
Io di libri di autori italiani ne leggo pochi; solo per una breve stagione, quella dei cosiddetti cannibali, mi sono avvicinato alla narrativa contemporanea del mio paese. Comunque, se dovessi dare una palma, forse la darei a Elena Ferrante, "I giorni dell'abbandono", pubblicato nel 2002. Secco, forte, sincero fino alla crudeltà.
Mi limito a commentare dischi e libri stranieri, i due settori che frequento di più.
Sul fronte dischi, la palma va a "Kid A" dei Radiohead, seguito da "I'm a bird now" di Anthony. Entrambe i giudizi mi trovano sostanzialmente favorevole. I Radiohead sono stati uno dei gruppi più influenti negli anni '90, e sono traghettati negli anni 2000 rinnovando completamente la loro musica (all'origine un rock di chitarre), gettando un luminoso ponte trasparente fra la riva del rock e quella dell'electro. "Kid A" in questo senso è forse il loro disco più rappresentativo, più ancora di "Ok computer" che all'epoca venne (altrettanto giustamente) osannato. I Radiohead hanno creato uno standard: se dovessi avvicinare qualche gruppo dei 2000 alla loro musica non potrei che pensare ai tedeschi Lali Puna, che mi sarebbe piaciuto vedere in classifica.
In quanto ad Anthony, la sua è la voce del momento. Una voce capace come poche di dare corpo al dolore e alla redenzione. Non a caso, fra i suoi scopritori abbiamo Lou Reed, che lo ha voluto in tour con sé nella prima metà del decennio e poi anche per alcune date di "Berlin" e gli ha fatto reincidere canzoni storiche come "Perfect day" o la velvettiana "Candy says".
Bene anche il sesto posto di "Love and theft" di Bob Dylan, uno dei capolavori della sua discografia, con quella voce come carta abrasiva e una manciata di canzoni memorabili, da "Mississipi" a "Po' boy". Bene anche Eminem con il suo "Marshall Matther" (dopotutto Eminem è l'unico rapper che si tira fuori dal mazzo dei papponi), mentre sugli Strokes di "This is it" ho qualche dubbio: sono stati certamente fra i gruppi più rappresentativi della scena indie rock, e hanno scritto ottime canzoni, ma: 1) i loro dischi sono sostanzialmente identici, senza apprezzabili modifiche o evoluzioni dall'uno all'altro, verrebbe da chiedersi perché "This is it" e non "Rooms on fire", ad esempio; 2) è difficile superare l'obiezione mossa loro da Paul Morley in "Metapop", secondo la quale gli Strokes sono il miglior gruppo rock...degli anni '60!
Al decimo posto, infine, Manu Chao con "Proxima estacion experancia". Notevole anche questa come scelta. E le donne? Due: Amy Whinehouse al terzo posto e Bjork con "Medulla" al nono. Che dire? neanche negli anni 2000 è venuta fuori la nuova Patti Smith.
Le esclusioni: me ne vengono in mente essenzialmente due. Anzi tre. Anzi quattro. Cinque, via. La prima: Mark Lanegan, "Bubblegum", un disco da brividi, stanze spoglie, scale che scricchiolano, sangue sul muro, sogni e incubi. La seconda: "The raven", un po' perché per me Lou Reed non può mai mancare, lui ha scritto il canone e ha tracciato il solco (non a caso, con chi ha suonato negli anni 00? Strokes, Killers, Raconteurs...), un po' perché il disco, specie quello doppio, con i recitati, rappresenta uno degli esempi più felici di connubio rock-letteratura (in questo caso, Edgar Allan Poe). La terza: i Killers. La quarta: Jack White in una qualche sua incarnazione, si chiami White Stripes o Dead Wheater. La quinta: Willard Grant Conspiracy, "Regard the ends".
Per la narrativa straniera il discorso è un po' più breve perché conosco solo due dei romanzi menzionati: "Le correzioni" di Franzen e "Elizabeth Costello" di Coetzee, che io avrei messo al primo e secondo posto, probabilmente (non so in quale ordine), anziché al settimo e ottavo (e del sudafricano avrei aggiunto anche "Vergogna", pubblicato da Einaudi nel 2000, ma probabilmente era uscito già prima in lingua inglese...).
Il romanzo di Franzen è un affresco straordinario, perfettamente bilanciato in ogni sua parte, uno di quei libri che ti fanno dire che, sì, la letteratura è ancora più interessante della vita, dopotutto. Quello di Coetzee è una sorta di romanzo filosofico declinato attraverso una serie di conferenze e saggi della protagonista, la scrittrice Elizabeth Costello, alter ego di Coetzee. Piace soprattutto a chi ha passato molta parte della sua vita frequentando eventi del genere (lezioni universitarie, simposi e quant'altro), ma stupisce come lo scrittore abbia saputo dare a questa materia un taglio (anche) narrativo. Un'opera asssolutamente originale, insomma, davvero degna di un Nobel.
Non so dire del primo classificatosi, "La strada" di Mc Charty, perché non l'ho letto (ancora). L'esclusione più clamorosa? Pamuk, "Neve", uno dei vertici della narrativa contemporanea. In generale forse avrei apprezzato un po' più di fantasia nei compilatori: non so, Houellebecq non è un prosatore perfetto; a volte ripetitivo, disomogeneo, troppo prodigo di prodezze sessuali nelle sue pagine come molti francesi, ma certamente è uno di quegli scrittori che colgono, eccome, lo spirito dei tempi. E poi, un po' provocatoriamente, "Chronicles" di Bob Dylan, una bellissima prova, un approccio obliquo al tema dell'autobiografia che andrebbe valorizzato, a prescindere dal personaggio. Infine, capisco che sarebbe sembrata una scelta tardiva, condizionata dal premio recente, ma Herta Muller con il suo "Il paese delle prugne verdi", ci sarebbe stata eccome in una classifica in cui le donne non abbondano (ma il libro è degli anni 2000 solo per il mercato italiano, in effetti...).
Una nota, infine, sul primo posto nella classifica "Libri italiani: "Gomorra" di Saviano. Un non-romanzo, o una docu-fiction, per dirla con il linguaggio dei video. Un po' come "L'abusivo" di Antonio Franchini , arrivato terzo (con tutto il rispetto per Saviano, che ha scritto un libro "enorme", io forse preferisco Franchini, addirittura il Franchini di "Quando vi ucciderete, maestro", indimenticabile titolo degli anni '90 su un tema caro all'autore ma assai poco bazzicato dai narratori, le arti marziali, la passione per gli sport di combattimento. Con quell'approccio, autobiografia romanzata, diciamo così, si potrebbe scrivere di qualunque cosa).
Io di libri di autori italiani ne leggo pochi; solo per una breve stagione, quella dei cosiddetti cannibali, mi sono avvicinato alla narrativa contemporanea del mio paese. Comunque, se dovessi dare una palma, forse la darei a Elena Ferrante, "I giorni dell'abbandono", pubblicato nel 2002. Secco, forte, sincero fino alla crudeltà.
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Gli Alphaville, profondi anni '80 (ignorate quella scritta del cazzo su sfondo verde).
Jay - Z, anni 2000. Della serie: non si butta mai via niente. Comunque a me questa versione piace.
Questo invece è Bob Dylan, profondi anni '70. Da "The last waltz" di Martin Scorsese, the last concert of The Band.

E questi gli anni '60.
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