Pensierini su/di Bauman, la libertà, la solidarietà


"La politica che si ispira alla saggezza postmoderna si orienta verso una continua ri-affermazione del diritto degli individui liberi a perpetuare e garantire le condizioni della loro libertà. Ma per fare questo ha bisogno di essere guidata dal triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà ove solidarietà è la condizione necessarie e il contributo collettivo essenziale alla vitalità della libertà e della differenza. Ma se il mondo postmoderno è capace di generare da se stesso Libertà e Differenza lo stesso non si può dire per la Solidarietà. Ma senza solidarietà nessuna libertà è sicura mentre le differenze e il tipo di politica dell’identità che tendono a generare conducono, non di rado, alla interiorizzazione dell’oppressione."
Qui, a quanto pare, sta il paradosso della postmodernità: per realizzare appieno libertà e differenza essa necessita di solidarietà. Di responsabilità di fronte al volto dell’Altro. L’Altro che ci è sempre straniero. Solo così l’incertezza e l’inquietudine postmoderne potranno - forse - sedarsi.

Così Zygmunt Bauman.

Bauman è preoccupato dagli eccessi della libertà e usa i termini "postmoderno" e "postmodernità" come sinonimi o quasi di "liberalismo", "liberale" e persino di "democratico" (le società liberaldemocratiche sono capaci di generare da se stesse Libertà e Differenza è una frase che funziona altrettanto bene della sua). Il bersaglio potrebbe essere, più concretamente, il "neoliberismo". In Italia, a onor del vero, il neoliberismo tatcheriano e reaganiano non l'abbiamo mai conosciuto. In Italia la destra è un'ambigua espressione del solito, vecchio populismo. Non fa appello all'individuo, o alla mano invisibile del mercato; fa sempre appello al popolo, al Paese, al bene comune.
Del resto, di quale libertà parlavano i neoliberisti? Di quella garantita dal denaro, dalla CIA, dai servizi segreti? Il figlio della Tatcher collaborò all'organizzazione di un colpo di stato in Guinea equatoriale, un avventuriero mercenario molto lontano dall'icona algida e spietata della madre che ha pagato milioni di dollari per tirarlo fuori dalle prigioni e dai processi in cui è stato coinvolto.
Gli alfieri della libertà hanno spesso qualcosa da nascondere; si può essere liberi solo quando/se si rinuncia a qualcosa, non quando si prende/pretende sempre di più, e di più.

In quanto alla solidarietà, è cosa molto concreta e senza colore. Personalmente non so se sarei in grado di praticarla come quei quattro volontari del soccorso alpino che sono stati seppelliti ieri a Canazei. Eccola lì la solidarietà delle terre di montagna: partire mentre il sole tramonta e il pericolo valanghe è classificato 4 su 5 per andare a soccorrere due escursionisti di cui si ignora tutto anche l'identità; e farlo gratis, lasciando a casa famiglie, figli, calore, sicurezze. Sì, non so se sarei in grado di farlo. Indubbiamente, però, la solidarietà è questa. E, di nuovo, al pari della libertà, essa presuppone delle rinunce.

Gli eccessi della solidarietà poi si scontano con un "meno" di libertà, ovviamente. Con una coesione che è anche controllo sociale, spesso implicito, spesso avvertito dalle comunità come assolutamente naturale. Bauman vede anarchia dappertutto, vede l'impero del desiderio, e a volte ricorda certi passaggi (invero deliziosi) dei romanzi di Kundera, la logica dei diritti umani spinta alle sue estreme conseguenze, quando chiunque ha qualche diritto umano da rivendicare, il che produce un "impazzimento sociale" generale, il delirio rivendicazionista che paralizza le città e i centri decisionali.
Ma sembra non tenere in nessun conto la realtà delle valli e dei paesi di cui è pieno il mondo. I meccanismi per ridurre le differenze, per limitare le intemperanze dell'individualismo (nonché le umanissime richieste degli individui, come quella di avere una "buona morte", per restare a un caso di cronaca recente) funzionano eccome, fin troppo bene. Con tutto il bene, appunto (in termini di sicurezza e uguaglianza) e anche con tutto il male (in termini di appiattimento) che ne derivano.

Oggi l'onda lunga della postmodernità si infrange sui bastioni dei nuovi fondamentalismi. Personalmente non ho dubbi: dovendo scegliere fra due poli opposti, meglio Warhol, meglio la crisi del valori, meglio l'anomia della postmodernità delle granitiche certezze dei maestri della fede, degli ayatollah.
La vita reale fortunatamente non è così polarizzata, quantomeno non nelle nostre società democratico-liberali. Dovremmo tenerlo a mente. Dovremmo difendere il carattere sfaccettato, un po' molliccio, un po' "liquido", per usare un aggettivo caro a Bauman, dei nostri mondi. Dovremmo difendere la loro esuberante vitalità così come le loro ombre, le loro cupezze, la loro incessante produzione di interrogativi e dubbi. Invece a me pare a volte che alla gente la libertà - intesa come principio e non come querula, petulante perorazione di prebende, di favori, di deroghe - sia venuta a noia.

La laicità è performativa, mi ha detto una volta Gian Enrico Rusconi. Intendeva dire che produce immediatamente degli effetti nella vita reale. Che è il presupposto per tutto il resto. La precondizione.
Beh, insomma: la libertà e la precondizione. Bauman ne sembra spaventato. Spaventato dall'umanesimo. Spaventato dalla modernità prima ancora che dalla postmodernità. Dalla sostituzione della Legge con l'Uomo. Certo, l'uomo è capace di Auschwitz e di Treblinka, della Tratta degli Schiavi, di Hiroshima. Ma è tutto ciò che abbiamo. L'uomo e la sua libertà. Anche per il dialogo con l'Altro. Per questo si può dialogare con tutti ma è così difficile farlo con chi nega i presupposti stessi del dialogo, ovvero la libertà e ciò che da essa discende (laicità, democrazia ecc.)

Questo è oggi il paradosso più grande che dobbiamo affrontare. Come dialogare con i merdosi Talebani, afghani e magari anche di casa nostra. Un paradosso molto più grande di quello che ci propone la postmodernità, Zygmunt.

Foto: mostra di arte contemporanea ad Hanoi, Vietnam (m. pontoni)

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