Il leone del deserto


Ieri il grande pubblico italiano ha potuto vedere per la prima volta - su Sky - il film del 1979, distribuito in Europa nel 1981, "Il leone del deserto", che narra le vicende della resistenza libica al colonialismo italiano durante il fascismo. Il film, parzialmente finanziato da Gheddafi in persona, che ha per protagonista l'eroe libico Omar Al Mukhtar , interpretato da Anthony Quinn, è stato criticato (come sempre avviene per le pellicole di questo genere) per le sue inesattezze e qui e là per le sue manipolazioni storiche (che riguardano più questioni interne alla Libia che il comportamento tenuto dall'Italia in quel paese). A prescindere da questo, a me è sembrato un onesto film di guerra, in stile anni 60-70 (non è Apocalyspe Now, per intenderci, non parla certo un linguaggio innovativo, è "hoolywodiano", come scrive Leonardo in un post di qualche tempo fa). Non è nemmeno una cagata come ha sentenziato qualche critico snob, è semplicemente un film che tratta gli italiani così come in moltissimi film di guerra sono stati trattati i tedeschi, cioè male, come meritano, del resto, perché la "riconquista della Libia" ad opera soprattutto di Graziani fu macchiata da atrocità vergognose, come sanno tutti coloro che hanno letto i libri di Angelo del Boca. E comunque sia, di colonialismo si trattava: cioé di conquista di terre altrui, di rapina, di sopraffazione.
Ora, com'è noto il film, in Italia, venne immediatamente censurato, e non è mai stato oggetto di proiezioni in pubblico (ci provarono a Trento nel 1987, e ovviamente intervenne subito la Digos).
Ora, mi chiedo, chi è quel fariseo che ha deciso di censurare "Il leone del deserto"? C'è chi dice Andreotti (quello che ieri ha mostrato apprezzamento per il discorso pronunciato da Gheddafi), chi l'allora sottosegretario Costa. Di certo è stato qualche esponente della classe dirigente (perlopiù democristiana) dell'epoca, anche se non è chiaro a tutt'oggi l'iter seguito. Ecco, questa è l'Italia, se non si fosse ancora capito. Un paese che per quasi trent'anni ha sottoposto a censura un film che, ripeto, al di là delle cose mostrate, è sostanzialmente un film di guerra come tanti altri, certo emotivamente molto "forte" per i libici, ma anche assai meno cruento di certe pellicole americane sul Vietnam, per esempio. La motivazione è che che getterebbe discredito sulle nostre forze armate (quelle che in Africa usarono i gas asfissianti, quelle che rinchiusero le popolazioni "ribelli" in campi di concentramento-lager in mezzo a deserto, quelle delle esecuzioni sommarie...). E' come se in Inghilterra avessero vietato la proiezione del film "Ghandi" perché raccontava la repressione messa in atto all'epoca dagli inglesi in India (la famosa scena dello sciopero del sale, ad esempio...).
Come stupirsi non solo del dilagare del razzismo, ma anche della fondamentale doppiezza morale dell'italico popolo? Come stupirsi degli accordi presi fra il nostro governo e un dittatore che ha alimentato una buona parte dei conflitti scoppiati in Africa negli ultimi decenni, che ha finanziato banditi truculenti come Charles Taylor, che ha armato la mano del terrorismo internazionale? Come stupirsi dello spauracchio dei barconi dei clandestini continuamente agitato davanti al muso della buona e brava gente dell'operoso Nord est, che risponde votanto Lega a più non posso? Dietro a tutto c'è precisamente questa cultura, la cultura non-cultura degli "italiani brava gente", la cultura non-cultura "ma noi gli abbiamo fatto le strade e i ponti", la cultura non-cultura del fascismo strisciante e delle ipocrisie andreottiane. Ma poi, chissenefrega, l'importante è che nostre imprese facciano buoni affari e la Libia continui a rifornirci di petrolio e gas, no?

Non sono un pacifista ad oltranza, mi pare di averlo già scritto. Secondo me i militari in zone come l'Afghanistan o la Somalia ci vogliono (o ci vorrebbero), anche se bisogna vedere qual è il loro mandato. Non sono nemmeno un ammiratore di Gheddafi, penso si capisca. Ma non sopporto la ragion di Stato, non sopporto l'italico vezzo dei due pesi e delle quattordici misure. E soprattutto non sopporto la censura, perché è la morte dell'intelligenza.

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