Lou Reed a Gardone - here come the bells

Si potrebbe parlare a lungo della location, l'anfiteatro del Vittoriale, la reggia di D'Annunzio, il Garda dietro, le nuvole una striscia che scorre sull'altra riva, mentre la luce si addensa, e poi, ad un certo punto, è andata, c'è solo il palco.

L'attacco dev'essere stato ostico ai più: un vecchio brano dei Velvet, quasi mai eseguito in concerto, che Lou sul disco (il IV, quello dello scioglimento), neanche cantava, lasciando l'onere a Doug Youle, Who loves the sun. Contrasto fra l'incedere scanzonato, i coretti, e il testo: "Chi ama il sole? Chi se ne importa se fa crescere le piante, chi se ne importa di quel che fa se tu mi hai spezzato il cuore. Chi ama il sole? Non tutti..."
Il concerto entra nel vivo con Senselessly cruel, altro titolo misconosciuto da Rock 'n' Roll heart, l'accordo con i promoter, due imprenditori italiani nel ramo dolciario, era che in questo tour proponesse canzoni e sonorità del periodo rock-jazz della seconda metà degli anni '70 (anche se Lou ha interpretato la clausola a modo suo, ovviamente). E qui la band inizia a girare. Lou direttore d'orchestra, suona meno la chitarra rispetto ad altre volte, in compenso lascia spazio ai musicisti, è da secoli che non suona con una band così numerosa, se si esclude il tour di Berlin, che faceva storia a sé, 8 elementi, è da secoli che non sento un sax a un concerto rock, lo strumento sembrava bandito, invece eccolo, a sciorinare il tema di All trough the night. Ma è con Ecstasy che il concerto decolla. Lou è caldo, concentrato, a 69 anni la voce ancora c'è, anche se, certo, è la sua voce, deve piacere, Lou non è Robert Plant o Freddie Mercury. Il violino tesse magie, il contrappunto è della chitarra "rumorista" di Lou, suonata spesso senza plettro, con i polpastrelli. "Ti chiamano Ecstasy, niente ti sta attaccato, né il velcro né lo scotch, neppure le mie braccia, nemmeno se le immergo nella colla."
Ma il vero regalo arriva più tardi, con un riff inconfondibile, di nuovo tratteggiato dal violino. Street Hassle, non era nella scaletta, uno dei brani più ambiziosi, costruito su un tema quasi classico (classico nell'accezione che questa parola può avere per descrivere ad esempio il minimalismo di un Satie), tre movimenti per tre storie esemplari, il tipico approccio amorale di Lou Reed, mutuato da autori come Hubert Selby J., racconto ciò che vedo, non ciò che penso, nessun giudizio. Primo tema: una donna rimorchia un prostituto per le strade di N.Y., e...sha -la-la-la-la, era lussurioso e bellissimo. E quando si preparò ad andare via, nessuno dei due si pentì di nulla. Secondo tema: dialogo fra due tossici, davanti al corpo di una che sembra essere morta di overdose. Decidendo cosa fare di quel corpo.
La musica cala. Lou comanda a bacchetta i musicisti, i pieni e i vuoti, gli assoli quando servono, ma adesso bisogna che le parole si sentano. "Sai, certe persone non hanno scelta, non riescono mai a trovare una voce con cui parlare. Così, accade che seguano la prima cosa che gli permette di continuare ad esistere. E questo si chiama: cattiva fortuna". E baaad luck è un lungo ringhio soffiato in faccia al pubblico - subito prima di attaccare il terzo movimento, il monologo di un innamorato (che potrebbe essere poi lo stesso gigolo' del primo movimento o il tossico del secondo) - con l'orgoglio di chi sa di avere corso dei rischi, per avere infranto dei tabù, per avere portato certe tematiche nella musica popolare, certe storie da strada, certi umori oscuri, come quelli che popolano il set semi-acustico dedicato ai primi Velvet Undeground, Venus in furs (il fantasma di Sacher-Masoch che aleggia sulle acque), Sunday morning, divenuta popolare con 30 anni di ritardo grazie a una pubblicità, ma attenzione, non è un piacevole risveglio, "sunday morning, and i'm falling...", Femme fatale (e qui il fantasma che si materializa è quello indimenticabile di Nico).
Più avanti arriva anche l'elettricità proto-punk di Waves of fear, con un solo di chitarra che non fa rimpiangere Robert Quine, Sweet jane, potente, sempre splendida, con una intro simile a quella di Rock 'n' Roll Animal, il blues di I want to boogie whit you. E forse è questo che vuole, Lou Reed, oggi, essere come uno dei grandi vecchi del blues, che hanno continuato a suonare e a portare sul palco dei giovani talenti fin che avevano fiato in corpo, anche quando erano costretti a suonare seduti (ma non lui, non ancora).
Nel bis, prima un altro brano del repertorio più pop e scanzonato, Charley's girl. Poi, il capolavoro della serata: The bells, dall'album omonimo, uno dei meno popolari, quasi invenduto negli Usa. Pensato per la tromba free-jazz di Don Cherry, sul palco del Vittoriale il pezzo ha un incedere maestoso e possente, mettendo a nudo, come in un'operazione chirurgica, tutte le sue potenzialità melodrammatiche. E' il violino, una volta di più, ad essere protagonista. Il violino e la voce di Lou, disperata, rauca, rabbiosa. Ed è come qualcosa che monta nota su nota, qualcosa che cresce, come un'onda, ed infatti nel brano che conteneva originariamente questo ritornello, Ocean, sono le onde, le onde che arrivano da laggiù, dove si sono formate, "e non fare il bagno stanotte, amore mio, il mare è impazzito, amore mio...", ma in The Bells le onde sono diventate le campane, ed è un attore a sentirle, "l'attore che torna a casa tardi, dopo che lo spettacolo è finito", ed è caduto in ginocchio in piena Broadway, dopo essersi librato nell'aria, e mentre stava lì, sull'orlo del precipizio, le lacrime che spingono dietro agli occhi, all'improvviso ha gridato: "Look! There are the bells! Here come the bells! Here come the bells!" E vorresti non finisse più, e più, e non c'è altro da dire se non il commiato finale, di nuovo una ballata triste del repertorio velvettiano, Tony - Thunder - Smith che batte il tempo col tamburello, "Sometimes i feel so happy, sometimes i feel so sad, sometimes i feel so happy, but mostly, you just make me mad... Linger on, you pale blue eyes, linger on, your pale blue eyes", perché forse è tutto così, e così, le cose o ti spremono il cuore o non sono.

"I love you", così raro, come saluto, in chiusura dei suoi concerti. Torna la percezione dell'arena, del posto dove siamo, tornano le luci e il chiacchiericcio del pubblico, torna la circolarità del tempo, tornano queste prospettive singolari, audaci e dall'oscuro significato.


1 commento:

Alligatore ha detto...

Provo invidia, per problemi ho mancato l'occasione per la seconda volta. Non la terza ...