Divise

Ci sarebbero due temi di cui occuparsi, oggi, uno locale e l'altro globale. Entrambi hanno a che fare con le divise.
Quello locale è ovviamente l'Afghanistan, il senso della presenza militare, le prospettive per questo paese con o senza truppe straniere.
Quello locale riguarda la grande sfilata degli Schuetzen (le compagnie dei territori dell'ex-Tirolo storico, oggi Euroregione transfrontaliera del Trentino, Alto Adige e Tirol) che si terrà oggi ad Innsbruck.

Sull'Afghanistan ho già detto infilandomi nelle discussioni aperte in altri blog, ad esempio quello di Leonardo. Quindi mi pare giusto dire qualcosa anche qui.
Partiamo da una tesi che penso sia condivisa da molti: la democrazia, la legalità, i diritti civili, la parità fra i sessi ecc. non sono cose che si raggiungono dall'oggi al domani, né sono cose che si esportano sulla canna dei fucili. Vale per esse lo stesso discorso che si fa per lo sviluppo socio-economico, qualunque cosa voglia dire questa parola abusata, "sviluppo": non lo si esporta con la conquista e la sottomissione, qualunque cosa dicano i nostalgici del colonialismo, gli italiani NON furono brava gente e NON portarono la civiltà (quale?) in Etiopia, Somalia o Libia.
Tenuto questo come punto fermo, e prendendo quindi le distanze anche dalle tesi neocon andate di moda negli ultimi 10 anni (tesi a cui perlopiù non credevano gli stessi neoconservatori, probabilmente: diciamo che vennero inventate per giustificare la sete di potere di alcuni di essi e il buon proseguimento degli affari della cricca di Bush jr.), è eticamente corretto e politicamente desiderabile il ritiro delle truppe straniere dall'Afghanistan, come chiede oggi la Lega e parte del mondo della sinistra (Verdi, PRC, pacifisti, ecc.?)
Io penso di no. Penso che negli scenari di crisi si debba restare. Non solo con i soldati. Non solo con la presenza militare che non è per nulla risolutiva (e comunque, come è noto, perché è stato scritto in tutte le salse da Kipling in poi, tra quelle montagne nessun esercito straniero l'ha mai spuntata). Però restare.

Sappiamo che ogni intervento armato in casa d'altri è aleatorio e di dubbia legittimità, anche quando "rivestito" dalle migliori intenzioni. A Gaza o in Tibet ben difficilmente avremo mai i Caschi Blu o la Nato, e già questo crea uno doppiopesismo sospetto.
Ciò non basta però a convincermi del fatto che (per usare un argomento caro ad esempio a leonardo): noi siamo piccoli, un piccolo paese pieno di problemi, perché dovremmo avere la presunzione di andare a risolvere quelli degli altri ecc.
A parte ogni ovvia considerazione sulla differenza fra la seconda guerra in Iraq (fondata su delle bugie e totalmente priva di una gustificazione sul piano del diritto internazionale, a differenza della prima) e la missione in Afghanistan, nata in risposta ad un attacco (e che attacco!) partito da quel paese, ciò che conta è che oggi il mondo è uno. E se è così, non posso non sentirmi responsabile - qui, dal mio piccolo, nevrotico paradiso alpino - di ciò che accade altrove, non posso non sentirmi umanamente vicino a chi soffre e muore in Afghanistan piuttosto che in Congo, in Somalia o nel Caucaso.
Si dirà: il solito superomismo occidentale. Appunto, nessun superomismo. Non so quali siano le cose giuste da fare, credo nessuno abbia la bacchetta magica, ho molte resistenze persino riguardo a che cosa "aiutare a far crescere" in Afghanistan (preferisco questa espressione rispetto ad "esportare"), anche se penso che i diritti umani come individuati dall'Onu alla fine della Seconda guerrra mondiale siano qualcosa.
Quello che so è che anche un pacifista al di sopra di ogni sospetto come Alex Langer, chiese l'intervento armato per rompere l'assedio di Sarajevo, durante le guerre jugoslave. Lo fece usando tutte le prudenze che il linguaggio gli metteva a disposizione, chiese "bombardamenti chirurgici", ovvero non indiscriminati e non sui civili (se avesse potuto avrebbe chiesto di bombardare solo i cannoni e lasciare in vita i cannonieri, probabilmente) ma tant'è, li chiese. Oggi anche quell'illusione è caduta. Sappiamo che per quanto precisi posssano essere i missili intelligenti stragi di innocenti ne possono sempre fare, specie in una guerra dove il nemico si mescola alla popolazione civile (e la tiene in ostaggio). Sappiamo anche che i soldati, la fanteria, i vecchi fantaccini, ci vogliono e ci vorranno sempre, e che queste divise correranno dei rischi mortali, come si è visto qualche giorno fa a Kabul (ma non chiamiamoli martiri, per favore, non scomodiamo la religione ad ogni piè sospinto per mascherare la nostra povertà di linguaggio e la nostra carenza di argomenti "forti").
Tuttavia, insomma, io credo che così come a Sarajevo o a Srebrenica ci fosse gente che doveva essere protetta (e nessuno lo fece, perlomeno fin quando non si mossero gli americani), così c'è oggi gente in Afghanistan che deve essere protetta dai talebani ed aiutata a costruire una democrazia un po' meno imperfetta di quella attuale anche se non necessariamente uguale alla nostra (anzi, spero per gli afghani possa essere migliore della nostra).
Questo è un compito che non spetta solo ai miliari: spetta a tutti. Spetta alla diplomazia, spetta all'economia, spetta al volontariato, spetta alla cooperazione allo sviluppo, spetta alle chiese, spetta alle università ecc. Ma se il mondo non si assume compiti come questo, dopotutto, che ci sta a fare?

La questione Schuetzen è di tutt'altra pasta. Personalmente ritengo che questi "cappelli piumati", la cui unica battaglia combattuta negli ultimi 50 anni è stata quella per ottenere (in Alto Adige) di poter sfilare con i loro fuciletti caricati a salve, siano un residuo del passato. Nel campo del volontariato - un campo particolarmente fertile in queste province - non rappresentano nulla; nulla di paragonabile ai vigili del fuoco volontari, ad esempio, o alle centinaia di associazioni che operano nei paesi in via di sviluppo. In più, gli Schuetzen tirolesi sono oggi gli alfieri del micronazionalismo pantirolese, palesemente ostili nei confronti della popolazione di lingua italiana e di ciò che essa incarna (un Alto Adige/Suedtirol multietnico e plurilingue). Detto questo, la manifestazione di oggi non è una semplice sfilata degli Schuetzen in ricordo dell'insurrezione di Andreas Hofer contro i franco-bavaresi. Per almeno due dei tre soggetti istituzionali coinvolti (i governi del Trentino e del Tirolo austriaco) essa dovrebbe testimoniare la volontà di lavorare assieme, nell'ambito dell'Euregio (organismo che raggruppa i tre territori, con sede comune a Bruxelles) su temi niente affatto nostalgici, anzi, attualissimi: il corridoio ferroviario del Brennero, ad esempio, o l'energia, o la cooperazione interuniversitaria. C'è insomma un modo vetusto, conservatore, "heideriano", di guardare al Tirolo, questa entità storica sconfitta dalla storia con la nascita del confine al Brennero; e c'è un modo innovativo, reso possibile dal superamento dei confini nazionali, che da un lato recupera sì, giocoforza, i tratti identitari del passato - innegabilmente la manifestazione di oggi fa perno sulla controversa figura di Hofer - ma che di fatto punta piuttosto a delineare inedite prospettive di collaborazione fra genti unite da un fatto altrettanto innegabile: il fatto di vivere in montagna. E la montagna ha interessi, equilibri, funzioni e aspettative diverse rispetto a quelle proprie delle grandi pianure (al nord quella bavarese, al sud quella padana), diverse rispetto alle grandi conurbazioni con le loro economie di scala.
Se Dellai e Platter riusciranno a dare un taglio del genere al progetto euroregionale non so: ma certamente, se ci riuscissero, sarebbe un bel passo avanti rispetto alle divise, ai cappelli piumati e alle corone di spine pantirolesi.

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