Budda sulle Alpi - visita al museo della montagna di Messner







Qualche giorno fa sono andato a vedere il museo della montagna di Reinhold Messner a castel Firmiano, Bolzano. Le foto qui sopra sono state scattate lì, ovviamente (è vietato, Messner pare sia molto geloso delle immagini che lo riguardano).
Va detto che castel Firmiano/Firmian non è un posto come gli altri: è il più grande castello dell'Alto Adige, collocato in una posizione invidiabile, su un costone da cui si domina tutta la città, ed è il luogo dal quale Silvius Magnago pronunciò nel 1957 lo storico "Loss von Trient" ("via da Trento"), aprendo la stagione che avrebbe portato, 15 anni dopo, al Secondo statuto di Autonomia del Trentino Alto Adige. E pazienza se oggi sotto a castel Firmiano passa la galleria della superstrada per Merano; ai miei tempi il posto lo si raggiungeva attraversando un vecchio ponte ferroviario abbandonato sul fiume Adige (molto romantico, in effetti, anche se c'erano buchi fra un'asse e l'altra da farti cagare sotto) e vicino alle venerabili mura sorgeva la discarica cittadina.
Il museo, in sé, è suggestivo. Suggestivo è proprio la parola. Opere d'arte contemporanea e Buddha sparsi ovunque, senza distinzione fra cose pregevoli e altre deliziosamente pacchiane. Ambienti curati, luci giuste. Un museo zen, un museo-percorso per l'illuminazione. Modernissimo, già oltre l'ubriacatura per i computer e i maxischermi, già oltre l'interattività centrata sui bottoni da schiacciare che per un po' è stata la cifra dominante degli allestimenti. Molto coraggioso, in quanto a contenuti. Coglie il lato mistico della montagna, tralasciando tutte le noiose questioni geografiche, geologiche, naturalistiche. Tecniche, insomma.
Sicuramente vale una gita, anche due. E qui finisce la mia recensione positiva del museo. Perché mi accorgo che ne potrei scrivere anche una negativa, o per lo meno interlocutoria. Sullo stesso museo. E in ossequio al dualismo primigenio incarnato nello yin e yang, lo farò!

La recensione negativa potrebbe partire dicendo che il museo di Reinhold Messner, grande alpinista e scrittore, è in fondo uno stupefacente pateracchio new age. Scarsamente utilizzabile sul piano didattico. Certo, certo: la didattica fa a pugni con la poesia. Infatti, un po' la detesto. Però io non curo musei o mostre.
A Firmian, solo alla questione del "Loss von Trient" (e ovviamente alla storia del castello) sono dedicate, mi pare, un po' di parole. Per il resto, le spiegazioni sono quasi assenti, o se ci sono, si possono tranquillamente bypassare, per abbandonarsi alle gioie dell'esplorazione (il castello è grande ed è quasi tutto visitabile, attraverso passerelle e scale) nonché, a volte (ad esempio nella grotta dei cristalli) della pura contemplazione. Diciamo meglio: le parole sottolineano pensieri, evocano emozioni, suggeriscono stati d'animo. Raramente descrivono, semmai a volte enunciano qualche banalità antropologica del tipo: "In tutte le culture del mondo le montagne sono luoghi sacri...".
Da dove venga quella statua, quella tanka, quale sia il reale significato di tali oggetti, all'interno della loro cultura di riferimento... Ciò resta un mistero.

Riassumendo: il museo di Messner è un'eccitante esperienza sensoriale. Un'esperienza visiva e "fisica" ad un tempo. Apre spazi mentali, costringe a camminare e ad astrarre. Sbilanciato sull'Oriente, a scapito a dire il vero degli altri continenti, Europa compresa, ma soprattutto dell'America latina e dell'Africa. Adatto ai bambini (benedetti siano i musei, per questo).



Al tempo stesso, fa riflettere su quanto antiquate possono essere oggi forme più austere di trasmissione della conoscenza, e il discorso potrebbe spaziare dai musei fino ai libri. Forme basate su parole, frasi, descrizioni, resoconti, argomentazioni. Su percorsi un po' meno criptici, insomma.
Se le targhette esplicative, se i tradizionali tabelloni scompaiono dai musei perché nessuno li legge, perché sono pedanti, desueti, lontanissimi dai gusti dei giovani tirati su a corn flakes iridescenti e cd-rom interattivi, figurarsi che fortuna può avere oggi la parola scritta, che si ripete, pagina dopo pagina, scorrendo da sinistra verso destra, sempre uguale a se stessa (ad una prima occhiata), senza nemmeno una luce, una musichetta, un link, qualcosa che la riconduca alla civiltà dell'immagine e alle sue conquiste.
Certo, ci sono anche altre esperienze cognitive degne di questo nome. Si conosce attraverso le immagini, si conosce con le orecchie, si conosce con il corpo, arrossendo o rabbrividendo di fronte all'ignoto (questi rossori e questi brividi sono parte integrante del fascino dell'esotico). Ma, fatto il pieno di suggestioni, rimane qualcosa di irrisolto. Come il desiderio di un sapere un po' più...strutturato.

Detto ciò, quasi in fondo al museo (chissà perché le note di "Blowin' in the wind" in sottofondo, solo per quella strofa sulle montagne?) mi sono imbattuto in una scritta, che riporto per intero. E' new age, non è firmata, vuol dire nulla, è solo un abuso verbale. Ma suona grandiosa.

IL TRAMONTO E' OVUNQUE
L'abbandono racchiude quanto è custodito, come il gesto vano racchiude la sfida. Oltre a ciò che è percepito dagli altri, esiste anche l'assurdo. Il significato della montagna è dunque racchiuso nella loro (sua? ndr) insignificanza. Così la montagna diviene una trappola per il tempo, anche perché nello spazio remoto è possibile la decelerazione.

Dopodiché, forse non ho capito un cazzo io e questo è un monologo del demone divoratore di senso, come dottoreggia qui l'Espresso, per chi vuol andare a leggere.

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