Le vie della censura: nuovo processo a Orhan Pamuk


Riagganciandomi al post precedente, e a quello di Leonardo (che più ci penso più mi fa incazzare), ecco una notizia fresca sullo scrittore turco Orhan Pamuk, che sarà ospite stasera a "Che tempo che fa" (tempismo perfetto, caro Fazio!).
Scrive Repubblica: "La Turchia più profonda, quella dei nazionalisti e dei servizi segreti, burocratica e antieuropea, non molla Orhan Pamuk. Con una sentenza inaspettata, e dunque precisa nella volontà di colpire il bersaglio, la cassazione ha deciso che lo scrittore dovrà essere nuovamente processato per villipendio allo Stato. Il motivo? Villipendio all'identità nazionale, per una frase pronunciata sui massacri armeni compiuti ai tempi dell'Impero Ottomano" (l'ultimo scorcio dell'Impero, in realtà, già sul punto di crollare sotto i colpi infertigli dalla Prima guerra mondiale).
In pratica la colpa di Pamuk (per la quale aveva già subito un processo) sarebbe quella di avere ricordato, in un'intervista rilasciata ad un giornale straniero, che in Turchia sono stati uccisi un milione di armeni e circa trentamila curdi (curdi di cui fino in epoca recentissima la Turchia nemmeno riconosceva l'esistenza, chiamandoli "turchi di montagna").

Le vie della censura sono infinite. Se ad Alemanno dispiace "Romanzo criminale" perchè presenta i malavitosi in maniera "simpatica", ai turchi dispiace il loro più grande scrittore (leggere "Neve" per credere) perchè rivela qualcosa che tutto il mondo già sa e che solamente le autorità turche nella loro ottusità non vogliono ammettere. Mentre al Papa com'è noto non piacciono film come "Il codice Da Vinci", perché descrivono un Vaticano impegnato a tramalciare; mentre ai musulmani non piacque, all'epoca, Salmar Rushdie, perché nei suoi "Versetti satanici" aveva trasformato il profeta Mahmud in "Mahund". Mentre agli italiani non piace il film libico "Il leone del deserto", che racconta le nefandezze compiute dai nostri in Libia, durante il fascismo. E' così via e così via, all'infinito, c'è sempre una qualche autorità pronta a considerare un libro, un film, un quadro, una dichiarazione pubblica "censurabile", perché offende l'onore della patria, perchè è immorale, perché è diseducativa, perché mette delle strane idee in testa ai giovani (anche Socrate venne condannato alla morte - che si autoinflisse - per questo motivo, perché traviava le giovani menti con i suoi ragionamenti sofisticati...).

La libertà di espressione è prima di tutto una difficile conquista, poi qualcosa di difficile da gestire: obbliga ciascuno a sopportare qualcosa, ci obbliga a sorbirci anche le fiction trash, la tv spazzatura e Emilio Fede. E' una responsabilità che i paesi liberi (qualsiasi cosa significhi oggi, specie in Italia) portano per tutti, specie per quelli dove se pronunci una parola di troppo rischi di sparire, è uno sporco mestiere che ci obbliga a venire a patti anche con l'arte contemporanea, quella che espone in galleria mucche squartate e rane crocifisse. Ma non dobbiamo mai, mai dimenticare che all'origine è stata una conquista, qualcosa per la quale qualcuno si è battuto, e quella battaglia ci consente oggi di leggere Henry Miller o di vedere "Ultimo tango a Parigi" senza dover andare in Francia per farlo.

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