Un po' di foto del 2010
California dreamin' (in Sicilia).
Bath.
Me, beginning of the year.
Fiume Zambesi.
In Uganda.
Bath, again.
Il cielo sopra Caia (Mozambico).
Una costa conosciuta che si allontana
(raccontino)
La guardava cantare e vedeva in lei la sua stessa arroganza, tipica dei timidi, la stessa noncurante ambizione, il talento mescolato ad una naturale insofferenza. Vedeva l'uomo trent'anni prima, i capelli sul viso, a proteggersi e a sfidare, solo che il suo talento all'epoca non si esprimeva nel canto ma nella scrittura.
Si vedeva nell'atto di ritirare un premio con la sinistra infilata nella tasca, si vedeva con la camicia azzurra fuori dai pantaloni. Dare del tu ai professori. Andare in giro da solo per strada mangiando una mela o fumando precocemente.
Certo, c'erano anche le differenze. Nel modo di vestire, di impiegare il tempo, lui ne aveva avuto molto di più, a disposizione, anche per annoiarsi. Nei modelli da imitare. Forse, in un diverso stadio della maturità.
Sapeva però che queste sono cose destinate a evaporare, lasciando sul fondo l'intima essenza, quel nucleo duro e inattaccabile che non si scioglie, le propensioni alla felicità e all'infelicità, i modi di reagire, insomma, ciò che conta, il precipitato, la base, ciò che rimane in cima alla forchetta.
La vedeva guardarsi attorno, infastidita che una compagna avesse stonato. Ridere con la spavalderia dei ragazzi per le formalità del mondo adulto. Cercare con gli occhi la complicità di un'amica.
Guardava quell'apparizione sul palco, quella voce solista che spiccava sulle altre, come si guarda la riva di una costa conosciuta che lentamente si allontana, stupendosi del tempo passato e passato assieme, stupendosi di più ancora per il fatto che lui, lì, non si sentiva cambiato affatto da quando la portava in giro sulla carrozzella, sotto ai cieli siderali di un altro inverno. O forse non è così, è che i cambiamenti lenti, che sgocciolano giorno dopo giorno, sono come l'agonia dell'aragosta in pentola, li si avverte troppo tardi o troppo alla fine.
La guardava cantare e vedeva in lei la sua stessa arroganza, tipica dei timidi, la stessa noncurante ambizione, il talento mescolato ad una naturale insofferenza. Vedeva l'uomo trent'anni prima, i capelli sul viso, a proteggersi e a sfidare, solo che il suo talento all'epoca non si esprimeva nel canto ma nella scrittura.
Si vedeva nell'atto di ritirare un premio con la sinistra infilata nella tasca, si vedeva con la camicia azzurra fuori dai pantaloni. Dare del tu ai professori. Andare in giro da solo per strada mangiando una mela o fumando precocemente.
Certo, c'erano anche le differenze. Nel modo di vestire, di impiegare il tempo, lui ne aveva avuto molto di più, a disposizione, anche per annoiarsi. Nei modelli da imitare. Forse, in un diverso stadio della maturità.
Sapeva però che queste sono cose destinate a evaporare, lasciando sul fondo l'intima essenza, quel nucleo duro e inattaccabile che non si scioglie, le propensioni alla felicità e all'infelicità, i modi di reagire, insomma, ciò che conta, il precipitato, la base, ciò che rimane in cima alla forchetta.
La vedeva guardarsi attorno, infastidita che una compagna avesse stonato. Ridere con la spavalderia dei ragazzi per le formalità del mondo adulto. Cercare con gli occhi la complicità di un'amica.
Guardava quell'apparizione sul palco, quella voce solista che spiccava sulle altre, come si guarda la riva di una costa conosciuta che lentamente si allontana, stupendosi del tempo passato e passato assieme, stupendosi di più ancora per il fatto che lui, lì, non si sentiva cambiato affatto da quando la portava in giro sulla carrozzella, sotto ai cieli siderali di un altro inverno. O forse non è così, è che i cambiamenti lenti, che sgocciolano giorno dopo giorno, sono come l'agonia dell'aragosta in pentola, li si avverte troppo tardi o troppo alla fine.
Amore nel pomeriggio
(raccontino)
L'amore nel pomeriggio era diverso rispetto a quello della notte e diverso anche rispetto a quello della mattina. La luce di marzo entrava nella camera passando attraverso i doppi vetri e le tende, era la luce lattiginosa di marzo, passava attraverso le nuvole, spandeva chiarore diffuso, la luce di marzo li rivelava.
Nella camera entravano anche i suoni. Era la vita della città di fuori, tutt'attorno, si allargava in cerchi concentrici, rifrangendosi sulle pendici delle montagne: due donne che si salutavano in cortile, l'autobus, un colpo di clacson, di giovedì il mercato di strada che smobilita con rumore di cassette, di pali di ferro caricati su camion e furgoni, di motori che fanno manovra in spazi limitati. Se avesse fatto attenzione, se avesse avuto gli stessi poteri di Freccia Nera, avrebbe potuto sentire persino il rombo remoto dei treni della zona industriale, oltre il fiume e il cavalcavia dell'autostrada, il tichettio delle tastiere dei computer negli uffici provinciali, l'allegro vociare dei bambini all'uscita dell'asilo e tutto questo significava qualcosa per lui, e qualcosa di diverso per lei.
Lui avrebbe voluto conoscere i suoi suoni, quelli che lei aveva udito da bambina, per anni, quando si svegliava, quando la mamma la vestiva e poi quando aveva imparato a vestirsi da sola, ma non è la stessa cosa, vivere o farselo raccontare, un pensiero irragionevole; per un istante, prima, aveva desiderato essere lei, aveva desiderato acutamente poter rinascere in lei e rivivere la sua vita in quel corpo, da zero, dall'inizio e attraverso le sue infinite scoperte. Nell'arco della bocca, nella curva del collo, nell'incavo del grembo, fino alla punta dei piedi.
A volte gli sembrava che tutta la città si affacciasse, che non fossero soli. Poi si chinava e non ci pensava più, non pensava più a niente tranne a quello che stava facendo, un gesto come...come portare alla bocca il piatto della vita, sì, magari fossero sue quelle parole, invece era certo di averle lette in un libro, ma le sentiva come sue, del resto a questo servono le parole nei libri, sono parole che rivelano, come un certo tipo di luce.
A volte sentiva passi scendere le scale del condominio, di persona anziana, un piede davanti all'altro, oppure voci di bambini impazienti nel salire, stavano al terzo piano e non c'era ascensore. Poi il tempo accelerava. Tutto era liquido, accecante come un lampo. Li passava entrambi.
Più tardi, le cose sembrano sempre diverse rispetto alle ore della notte, quando l'unica luce ad illuminare la stanza è quella della lampada sul comodino. Oggetti riposti in cima all'armadio, un candelabro, delle coppe, un busto di Cristo...
Sdraiati, pelle a pelle, uno nelle braccia dell'altra, sapeva che quelle cose erano lì da trent'anni, sapeva anche che per lei rappresentavano qualcosa di diverso che per lui o forse lei non le vedeva neanche, teneva gli occhi chiusi e ad un certo punto sentiva che le stava schiacciando il braccio, si sollevava per permetterle di sfilarlo da dietro la schiena ma lei non lo sfilava, solo lo sistemava diversamente, lui le posava una mano sul seno, il cuore batteva nella coppa della sua mano.
Se hanno tempo di restare, se parlano, ridono o stanno in silenzio, lentamente ombre si addensano negli angoli. La sera porta altri rumori e se per caso si addormentano - o anche se rimangono immobili - l'ombra alla fine li nasconde.
L'amore nel pomeriggio era diverso rispetto a quello della notte e diverso anche rispetto a quello della mattina. La luce di marzo entrava nella camera passando attraverso i doppi vetri e le tende, era la luce lattiginosa di marzo, passava attraverso le nuvole, spandeva chiarore diffuso, la luce di marzo li rivelava.
Nella camera entravano anche i suoni. Era la vita della città di fuori, tutt'attorno, si allargava in cerchi concentrici, rifrangendosi sulle pendici delle montagne: due donne che si salutavano in cortile, l'autobus, un colpo di clacson, di giovedì il mercato di strada che smobilita con rumore di cassette, di pali di ferro caricati su camion e furgoni, di motori che fanno manovra in spazi limitati. Se avesse fatto attenzione, se avesse avuto gli stessi poteri di Freccia Nera, avrebbe potuto sentire persino il rombo remoto dei treni della zona industriale, oltre il fiume e il cavalcavia dell'autostrada, il tichettio delle tastiere dei computer negli uffici provinciali, l'allegro vociare dei bambini all'uscita dell'asilo e tutto questo significava qualcosa per lui, e qualcosa di diverso per lei.
Lui avrebbe voluto conoscere i suoi suoni, quelli che lei aveva udito da bambina, per anni, quando si svegliava, quando la mamma la vestiva e poi quando aveva imparato a vestirsi da sola, ma non è la stessa cosa, vivere o farselo raccontare, un pensiero irragionevole; per un istante, prima, aveva desiderato essere lei, aveva desiderato acutamente poter rinascere in lei e rivivere la sua vita in quel corpo, da zero, dall'inizio e attraverso le sue infinite scoperte. Nell'arco della bocca, nella curva del collo, nell'incavo del grembo, fino alla punta dei piedi.
A volte gli sembrava che tutta la città si affacciasse, che non fossero soli. Poi si chinava e non ci pensava più, non pensava più a niente tranne a quello che stava facendo, un gesto come...come portare alla bocca il piatto della vita, sì, magari fossero sue quelle parole, invece era certo di averle lette in un libro, ma le sentiva come sue, del resto a questo servono le parole nei libri, sono parole che rivelano, come un certo tipo di luce.
A volte sentiva passi scendere le scale del condominio, di persona anziana, un piede davanti all'altro, oppure voci di bambini impazienti nel salire, stavano al terzo piano e non c'era ascensore. Poi il tempo accelerava. Tutto era liquido, accecante come un lampo. Li passava entrambi.
Più tardi, le cose sembrano sempre diverse rispetto alle ore della notte, quando l'unica luce ad illuminare la stanza è quella della lampada sul comodino. Oggetti riposti in cima all'armadio, un candelabro, delle coppe, un busto di Cristo...
Sdraiati, pelle a pelle, uno nelle braccia dell'altra, sapeva che quelle cose erano lì da trent'anni, sapeva anche che per lei rappresentavano qualcosa di diverso che per lui o forse lei non le vedeva neanche, teneva gli occhi chiusi e ad un certo punto sentiva che le stava schiacciando il braccio, si sollevava per permetterle di sfilarlo da dietro la schiena ma lei non lo sfilava, solo lo sistemava diversamente, lui le posava una mano sul seno, il cuore batteva nella coppa della sua mano.
Se hanno tempo di restare, se parlano, ridono o stanno in silenzio, lentamente ombre si addensano negli angoli. La sera porta altri rumori e se per caso si addormentano - o anche se rimangono immobili - l'ombra alla fine li nasconde.
La carta e il territorio
Sono un estimatore di Michel Houellebecq e sono andato subito a leggermi il suo ultimo romanzo, interessante fin dal titolo, "La carta e il territorio".
La carta, anzi le carte, sono quelle della Michelin, che proiettano un giovane artista, Jed Martin, nell'olimpo della celebrità. Il romanzo ruota attorno a questo personaggio - tipico, solitario anti-eroe houellebecqiano - seguito, com'è costume dello scrittore francese, praticamente dalla nascita alla morte, forse perché, è cosa nota, non si può dire di nessuno che abbia avuto una vita fortunata fin quando non è spirato.
Il contraltare di Jed Martin non è rappresentato tanto dalla sua amante - bellissima manager russa in carriera che ad un certo punto lo molla perchè il lavoro la richiama in patria (l'amore, per Houellebecq, è sempre scacco e sconfitta, in questo caso una resa senza condizioni alle logiche dell'economia globalizzata) - ma dallo stesso scrittore, ovvero Houellebecq, del quale Jed Martin decide di realizzare un ritratto. Nella parte finale del romanzo Houellebecq viene ritrovato morto - diciamo di più, ucciso in maniera raccapricciante, fatto a striscioline con un attrezzo cururgico e sparso sul pavimento di casa a comporre una sorta di quadro a la' Pollock - il che innesca una digressione "gialla" fino alla scoperta dell'assassino (che non è un estremista islamico, come forse qualcuno si aspetterebbe visti i trascorsi dello scrittore...).
L'epilogo è affidato nuovamente a Jed Martin, che del tutto disilluso sulle possibilità offerte dai rapporti umani in genere, e parimenti del tutto disinteressato agli effetti del successo, si lascia invecchiare in una sorta di splendido isolamento, lasciando dietro di sé, alla sua morte, un'ultima opera, dedicata alla natura che circonda la sua abitazione. C'è spazio anche per un ultimo sguardo gettato dall'artista, ormai molto anziano, sui cambiamenti intervenuti nel frattempo nella società: forse non l'apocalisse che si aspettava, invece un lento slittamento, la colonizzazione delle campagne da parte di persone che di radici piantate nella terra non ne hanno, giovani new age, turisti "verdi" ecc.
C'è chi ha trovato questo romanzo (premio Goncourt in Francia) più debole dei precedenti (perlomeno di alcuni di essi), meno riuscito anche sul piano formale. Personalmente mi semba un'opera felice, che presenta elementi di continuità con il passato ma anche alcune discontinuità. Manca ad esempio la particolarissima "fantascienza" che caratterizzava "Le particelle elementari" e anche l'ultimo "La possibilità di un'isola". Manca il sesso, che condiva abbondantemente le opere del passato, sia come elemento salvifico o perlomeno consolatorio (minato dall'incedere delle età e dunque caduco), sia come metafora dell'incomunicabilità (anche generazionale).
C'è, invece, di nuovo il rapporto padre-figlio, sempre straziante; c'è la vecchiaia in quanto anti-vita, posto che la vita, nel mondo moderno, è tutt'uno con giovinezza, salute, corpo, disponibilità, ambizione, fun (o con le loro rappresentazioni). C'è l'eutanasia, nulla di romantico, nulla a che vedere con un diritto faticosamente conquistato: una pratica discreta, asettica, anch'essa asservita alle logiche del mercato. Ci sono i marchi, i brand. Ci sono, come sempre, interessanti digressioni cultural-filosofiche, qui legate al mondo dell'arte, soprattutto; evidentemente l'autore francese se le può permettere (come se le poteva permettere Kundera), dal momento che i suoi libri comunque vendono e quindi lettori ne hanno. Per fortuna.
Torno su una delle peculiarità dei romanzi di Houellebecq: seguire i personaggi durante tutto l'arco della loro vita. Nel suo penultimo lavoro il protagonista (in realtà un clone) esce dallo spazio chiuso e protetto nel quale alcuni eletti, in un ipotetico futuro, vivono, in assoluta solitudine (anche sessuale), per addentrarsi in un mondo popolato di bruti e arso dagli effetti dei cambiamenti climatici. L'epilogo non era consolatorio: arrivato sulla riva di un mare semiprosciugato, il viandante non trovava nulla, nessuna risposta, nessuna compagnia. Avrebbe probabilmente atteso di disseccarsi lì, sul bagnasciuga chimico.
In questo "La carta e il territorio" la fine è più interlocutoria: la solitudine dell'uomo è sempre dominante, l'impossibilità dell'amore una certezza, il disincanto con cui i diversi personaggi vengono, ognuno a suo modo, a patti, indiscutibile; ma ci rimangono i video girati da Jed Martin, per anni, meticolosamente, nei boschi all'interno della sua tenuta. Il trionfo di un vegetale comunque estraneo alla vita così come noi la conosciamo ma che in qualche modo, testardamente, è (e ricordiamoci che Houellebecq è un estimatore di Lovecraft, altro sguardo lanciato su un universo parallelo caotico ed estraneo).
Ed ecco l'incipit:
“Da qualche settimana si era messo a parlare alla sua caldaia. E la cosa più inquietante – ne aveva preso coscienza due giorni prima – era che adesso si aspettava che la caldaia gli rispondesse. L’apparecchio produceva è vero rumori sempre più vari: gemiti, ronzii, schiocchi, sibili di tonalità e di volume differenti; ci si poteva aspettare che un giorno o l’altro arrivasse al linguaggio articolato. Era, insomma, la sua più vecchia compagna.”
Non sono affatto ironico quando scrivo “Qualche volta aveva l’ipermercato tutto per sé – e gli pareva fosse un’approssimazione abbastanza buona della felicità”. In senso letterale deve essere intesa questa frase. Il luogo del consumo è ambiguo come ogni residuo mitologico. E’ la favola che l’umano continua a desiderare: quella che fa paura, dove c’è il lupo.
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Michel Houellebecq
ALTRI CONFINI
Alcuni scatti da Gerusalemme, Ramallah (West Bank) e Galilea.
Pietre vive, albe, mondi che si sfiorano in una terra che non mi illudo certo di avere compreso in pochi giorni e che forse non comprenderei in dieci secoli. E quando non si è sicuri, quando in gioco c'è così tanto, forse l'unica cosa da fare è sforzarsi di stare accanto a chi, in un modo o nell'altro, cerca di costruire percorsi di pace, o quantomeno i presupposti (magari fragili, e tuttavia tangibili) per un dialogo possibile, di là dalle divisioni secolari, dalle occupazioni, dai razzi e dai lutti.
Quanto al resto, la sera dello Shabbath, una terrazza affacciata sul Muro, il senso di essere in uno di quei posti dove si fa il nodo, dove tutto confluisce, dove le parole pesano sul serio. Un tramonto sul monte delle Beatitudini, quando i turisti se ne sono andati, quando il silenzio è cosa solida e parla. Un kibbutz annegato nell'oscurità della notte, e dal belvedere, a pochi chilometri, il confine libanese, le luci di un villaggio controllato dagli Hezbollah.
"Li osserviamo da qui - ci ha detto la nostra guida - ; in questo periodo stanno costruendo diverse nuove case. Ci fa piacere, perché se costruiscono forse vuol dire che non pensano a fare la guerra a noi".
Non pretendevo di capire cosa fosse giusto o sbagliato, sotto a quel cielo infinito. Sentivo solo una cosa: avrei voluto fermarmi lì. Aggregarmi a quei ragazzi - ebrei, musulmani, drusi, cristiani, o più semplicemente esseri umani, senza etichettature, qualcuno di loro senza neanche fedi da osservare - che sperimentavano il teatro sul confine, provando a vivere assieme, "come in una sorta di Grande fratello al contrario", mi ha detto uno, dove lo scopo non è eliminare gli altri ma resistere, condividere la cucina e il tetto, sopportarsi, diventare, nel vero senso della parola, amici.
Fuori dal cerchio magico c'è la cronaca, con le sue miserie e le sue tragedie.
Alba a Gerusalemme.
Mondi si sfiorano.
Mare di Galilea.
Ramallah.
Gerusalemme est.
Pietre vive, albe, mondi che si sfiorano in una terra che non mi illudo certo di avere compreso in pochi giorni e che forse non comprenderei in dieci secoli. E quando non si è sicuri, quando in gioco c'è così tanto, forse l'unica cosa da fare è sforzarsi di stare accanto a chi, in un modo o nell'altro, cerca di costruire percorsi di pace, o quantomeno i presupposti (magari fragili, e tuttavia tangibili) per un dialogo possibile, di là dalle divisioni secolari, dalle occupazioni, dai razzi e dai lutti.
Quanto al resto, la sera dello Shabbath, una terrazza affacciata sul Muro, il senso di essere in uno di quei posti dove si fa il nodo, dove tutto confluisce, dove le parole pesano sul serio. Un tramonto sul monte delle Beatitudini, quando i turisti se ne sono andati, quando il silenzio è cosa solida e parla. Un kibbutz annegato nell'oscurità della notte, e dal belvedere, a pochi chilometri, il confine libanese, le luci di un villaggio controllato dagli Hezbollah.
"Li osserviamo da qui - ci ha detto la nostra guida - ; in questo periodo stanno costruendo diverse nuove case. Ci fa piacere, perché se costruiscono forse vuol dire che non pensano a fare la guerra a noi".
Non pretendevo di capire cosa fosse giusto o sbagliato, sotto a quel cielo infinito. Sentivo solo una cosa: avrei voluto fermarmi lì. Aggregarmi a quei ragazzi - ebrei, musulmani, drusi, cristiani, o più semplicemente esseri umani, senza etichettature, qualcuno di loro senza neanche fedi da osservare - che sperimentavano il teatro sul confine, provando a vivere assieme, "come in una sorta di Grande fratello al contrario", mi ha detto uno, dove lo scopo non è eliminare gli altri ma resistere, condividere la cucina e il tetto, sopportarsi, diventare, nel vero senso della parola, amici.
Fuori dal cerchio magico c'è la cronaca, con le sue miserie e le sue tragedie.
Alba a Gerusalemme.
Mondi si sfiorano.
Mare di Galilea.
Ramallah.
Gerusalemme est.
Ritorno alla terra
Credo non fregherà a nessuno, ma finalmente ho recuperato la password e di conseguenza la voglia di tornare a scrivere qui.
Immodestamente, cito Bowie. "The return of the thin white duke...".
Immodestamente, cito Bowie. "The return of the thin white duke...".
Dieci anni dopo (Il Grande Fratello)
Dieci anni fa "Il Grande Fratello" fu indubbiamente una novità. L'idea era intrigante, spiare delle persone - non gente dello spettacolo, persone anonime - che però sapevano di essere spiate. Filmarle 24 ore su 24. Non tanto per catturare la "verità" (quantunque ogni concorrente si affannase a spiegare che dopo un certo tempo passato sotto l'occhio delle telecamere ti dimenticavi della loro presenza); ma per mettere a nudo i cortocircuiti della popolarità mediatica, l'impazzimento delle persone quando possono soddisfare il loro lato narcisistico. Essere spiato; in diretta; dalla televisione. Si può immaginare un'esperienza più potente di questa, oggi?
Sembrava la volgarizzazione di un'idea di Andy Warhol, che, come noto, accendeva la telecamera e chiedeva semplicemente ai suoi attori, alle sue superstar (tutta gente presa dalla strada), di fare qualcosa. Qualunque cosa.
Cosa faresti se sapessi che tutta l'Italia ti sta guardando? Come ti comporteresti? Quale lato di te vorresti mettere in mostra? Quale sarebbe il personaggio che sceglieresti di impersonare, pur fingendo di essere sincero?
Naturalmente le cose non stavano proprio così. Non tutto era permesso nella casa del Grande Fratello. Un copione, dopotutto, esisteva. Via via la trasmissione si riempì di prove, di cazzate. Tutto questo fatalmente la rese sempre meno interessante, un passatempo per coatti. Non si poteva leggere, non si poteva parlare di ciò che accadeva fuori (politica, cultura ecc.), la situazione era falsata in partenza. E poi, la scelta dei protagonisti. Cosa sarebbe successo se nella casa ci fossero stati dei professori universitari, o delle casalinghe di Voghera, anziché dei ragazzi decerebrati?
Ciononostante, la prima edizione del Grande Fratello fu uno spettacolo, uno degli ultimi offerti dalla nostra tv. E Taricone ne fu l'indiscusso mattatore, quello che, come si dice "bucava lo schermo". Quello che il sistema mediatico un po' sembrava volerlo decodificare, demistificare. Oppure solo, quello che non voleva essere fregato, che puntava a resistere, a farcela sulla lunga distanza, e come tutte le persone consce di non essere dotate di straordinari talenti naturali, studiava.
Onore al Guerriero, dunque, come scrive Saviano sul suo FB.
Sulle rotte del mondo due
Fra un paio di mesi ritorna in Trentino Sulle rotte del mondo. Una delle cose più belle a cui ho partecipato l'anno scorso.
E' estate e penso alla neve
Era fondamentalmente buono, aiutava il prossimo. Non voglio dire che fosse un santo, sempre chi aiuta il prossimo soddisfa, al tempo stesso, un proprio bisogno. Lui voleva essere amato, aveva bisogno di essere amato, altri sono mossi da appetiti più brutali (il potere)o più miserabili (la ricchezza), lui chiedeva considerazione, la gente del quartiere andava da lui, gli domandava aiuto, per sbrigare una pratica, per sbloccare qualcosa che si era incagliato nelle ruote della burocrazia, non ha mai chiesto niente in cambio, gli bastava questo, l'essere un punto di riferimento, gli bastava questo per non sentirsi solo e senza amore, non ha mai chiesto niente, neanche un pollo, neanche un sacchetto di castagne, è morto povero in canna e probabilmente solo.
Era stato un marito fedele. Dopo la morte della moglie ha avuto delle storie, una in particolare, che lo ha screditato agli occhi di parecchia gente che comunque, forse, già gli voleva male. Una donna diversa da lui e molto lontana da lui anche sul piano delle idee, della "politica" (la politica per lui aveva avuto una grande importanza, pur non avendola mai praticata sul serio, non aveva il cuore col pelo, non sarebbe sopravvissuto, era un uomo che si scaldava con poco, gli andava subito alla testa, le chiacchiere, le accuse, la rabbia, lo schifo in cui altri vivono immersi, senza avvedersene mai).
Una donna bella e più giovane, che forse si è servita di lui, che forse ha imparato da lui. Non avevo pietà per la sua sofferenza. Avrei potuto cercare di comprenderla. Questa debolezza, questo tarlo... La via dell'umana simpatia è preclusa ai figli di certi padri. Sun-pàtos. Avrei potuo sentire quello che sentiva lui perchè anch'io, nelle mie occasioni,l'ho sentito, anch'io quella tara.
E' comparsa improvvisamente il giorno in cui è stato cremato, il giorno del sole che spunta alle 3 del pomeriggio a riscaldare la neve caduta durante il mattino, il giorno del cielo prima bianco e poi azzurro, il giorno delle catene, il giorno del commiato finale. Una presenza discreta. Ci siamo stretti la mano. Tante volte avevo pensato di telefonarle e per fortuna,almeno questo, non l'ho fatto.
Dopo ha nevicato ancora. Una sera sono rimasto seduto nella panchina fra i palazzi, tutto luccicava, stelle, semafori, mucchi di neve, avrei voluto dormire lì.
Ma si sono anche liberate delle energie, l'ammetto. Qualcosa si è allentato. E' diventato più morbido, in un certo senso.
Dopo, sono successe altre cose. Non è che la vita sia tornata a scorrere. E' che la vita è cambiata. E - anche questo va pur detto - non solamente in peggio.
ROBERTO SAVIANO A TRENTO
Posto anche qui il mio comunicato stampa sulla conferenza di ieri di Roberto Saviano al teatro Santa Chiara di Trento, in chiusura della quinta edizione del Festival dell'Economia. Migliaia di persone all'auditorium e nelle piazze trentine (attrezzate con megaschermi) ad ascoltarlo.
Roberto Saviano, l'autore di "Gomorra", ha chiuso degnamente la quinta edizione del Festival dell'Economia di Trento, spiegando il funzionamento delle economie criminali e i loro intrecci con quella legale. Auditorium Santa Chiara esaurito, come pure le altre sedi dalle quali la conferenza poteva essere seguita, comprese le principali piazze di Trento. In chiusura i saluti del presidente della Provincia autonoma di Trento Lorenzo Dellai, che ha detto - a nome di tutti gli organizzatori - di voler mettere a disposizione l'esperienza del Festival al Sud, per contribuire a realizzare quanto auspicato da Saviano: conoscere, ragionare assieme, dibattere liberamente, per far crescere la "rivoluzione della legalità".
L'ultimo appuntamento del Festival dell'Economia ha regalato molte emozioni e molti spunti di riflessione alle migliaia di persone che l'hanno seguito, dentro e fuori l'auditorium Santa Chiara di Trento. In apertura Giuseppe Laterza "("un editore meridionale - ha sottolineato Saviano all'inizio della sua relazione - e non è banale, perché se costa molto fare cultura in Italia è ancora più costoso al Sud") ha brevemente ripercorso le fortune di "Gomorra", libro stampato originariamente in 4.500 copie che a tuttoggi ne ha vendute oltre 10 milioni in tutto il mondo. Un libro scomodo e affascinante, per il quale Saviano ha pagato con la sua libertà personale, dal momento che poco dopo la pubblicazione è stato costretto ad accettare una scorta e tutte le limitazioni che comporta l'essere costantemente sotto la minaccia dei boss della camorra. "La fortuna di questo libro - ha chiosato Laterza - ci fa riflettere sul potere della parola, e rappresenta la degna conclusione ad un festival dell'economia dedicato al tema della conoscenza, in tutte le sue declinazioni."
Saviano - che si è detto molto contento di essere per la prima volta a Trento, città dove è nata la madre - ha voluto a sua volta iniziare con una parola, "economia".
"I l sottotitolo che avevo scelto per 'Gomorra', ovvero 'Vaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra' all'inizio venne considerato una pessima scelta di marketing. Si pensava che la parola 'economia' non avrebbe aiutato le vendite. Eppure parlare di economie criminali oggi significa parlare di questo, del motore imprenditoriale e finanziario più forte del Paese. 100 miliardi di euro è il profitto annuale realizzato dalle organizzazioni più importanti. Non esiste gruppo imprenditoriale oggi in Italia che possa ottenere un profitto così alto in un tempo così breve. Ma la vera forza di questo sistema è di legare il mercato illegale con quello legale. Il boss è una persona che usa il crimine per fare affari. E dalla crisi economica in poi gli affari sono enormemente aumentati, specie sul versante bancario. I soldi del narcotraffico stanno entrando negli istituti di credito, che hanno bisogno di liquidità. Quando la crisi sarà terminata questo capitali determineranno le scelte finanziarie di quelle banche. Negli ultimi anni le organizzazioni criminali - mafia, camorra, 'ndrangheta - si stanno dando una struttura 'all stars'; in pratica i 'migliori' di loro si confrontano, fanno affari assieme all'estero, soprattutto all'Est. Tutto questo è iniziato già con la caduta del Muro di Berlino: dal mio paese ad esempio sono partiti degli emissari verso la Romania, dove hanno fondato un'impresa, 'Albanova' (il vecchio nome di Casal del Principe); in pochi mesi, mettendo sotto contratto gli ex-funzionari del regime, hanno creato una rete tale per cui le altre imprese che volevano entrare del Paese dovevano passare attraverso di loro per avere le autorizzazioni necessarie per impiantare un'attività in tre mesi anziché in due o tre anni. Faccendieri dei clan sono andati all'Est a comprare di tutto, anche i titoli di Stato. In questo modo, le organizzazioni criminali si comprano stati interi. In Europa."
In tutto questo i soldi generati dal narcotraffico - soprattutto della cocaina - sono determinanti. "Adesso sta emergendo che una delle più grandi compagnie telefoniche europee sarebbe utilizzata per ripulire denaro sporco. Non stiamo parlando di cose lontane o che riguardano solo il Meridione. In via Veneto a Roma - la strada de 'La dolce vita' - c'è un caffé aperto con i soldi del narcotraffico. Lo stesso in piazza di Spagna. E così via. Sono lì, tutti lo sanno. C'è un'inchiesta da cui risulta il tentativo di clan dell'Aspromonte di infiltrarsi nella distribuzione delle mele trentine. Al concerto del 1° maggio, che tutti abbiamo visto in tv, sono stati presi trenta spacciatori. Lo stesso avviene alle partite di calcio. Però tutti questi episodi vengono considerati isolatamente. Se ne occupa il cronista di nera, il giudice meridonale... Si perde il disegno d'insieme, si perdono le connessioni. Poi, a volte succede qualcosa. Ad esempio, il cittadino-lettore comincia a riflettere, a indignarsi. A questo punto si alza qualcuno e dice: chi ne parla infanga il nome dell'Italia nel mondo. Chi ne parla specula sulle disgrazie della sua gente. Insomma, ti dà la colpa di raccontare. I più intelligenti ribattono: è una stupidagine, ci può credere solo Emilio Fede. Poi anche chi vive in quei luoghi comincia a stancarsi di doversi continuamente giustificare, di dire: 'Io non sono mafioso'. Dobbiamo capire che non è con il silenzio che si risolvono i problemi. Anzi. Noi italiani abbiamo insegnato al resto del mondo a combattere la mafia. La nostra legislazione è la migliore. E' esattamente il contario: è stando in silenzio che passiamo per omertosi. E' stando zitti che danneggiamo il nostro Paese."
Saviano ha insistito sull'intreccio fra economia legale e illegale. "Prendiamo le estorsioni. Noi crediamo che funzioni così: arriva qualcuno e punta una pistola in testa a un negoziante, dicendogli, o mi versi la tangente o ti sparo. Sono solo i clan pezzenti che fanno così. La tipica estorsione oggi consiste nel versare una parte del tuo guadagno per avere dei servizi. Se paghi, ad esempio, i camion arriveranno al tuo supermercato in tempo, e viaggeranno con benzina scontata. Per questo denunciare l'estorsione è così difficile: perché accettarne la logica significa ottenere dei vantaggi economici. Quando esplose il caso Parlamat emerse proprio questo: che i prodotti Parmalat erano entrati prepotentemente nei mercati del Sud grazie all'intermediazione criminale."
Questo meccanismo si trasferisce poi dal piano economico a quello politico. "Funziona così con il voto di scambio. Il meccanismo è noto: l'elettore entra nella cabina elettorale con la scheda già segnata e timbrata, ed esce consegnando la scheda che ha ritirato al seggio all'uomo del clan. Ma dietro cosa c'è? C'è l'idea che tu voti qualcuno perché ti dia qualcosa: un parcheggio, una licenza, un posto di lavoro. Tutte cose a cui tu avresti diritto come cittadino. Invece così diventano merce di scambio."
Infine, un accorato appello al rispetto delle regole. "I boss non rappresentano l'antistato. Non si sentono così. Si sentono imprenditori, che rifiutano regole che a loro giudizio frenano l'economia. Sempe dove c'è economia criminale c'è qualcuno che parla contro le regole. Invece la regola è una forma di libertà, non di costrizione. la forza del mio libro è data dalla gente che lo ha letto, gente che capisce che le cose non vanno bene, che inizia a sentirsi 'diversa'. Gente che si rende conto che i poteri che comandano non sono puliti, che questo non è il paese della conoscenza ma delle conoscenze. La grande speranza è che ci si possa unire trasversalmente sul tema della legalità, che è un tema rivoluzionario."
Ed ancora, quasi a suggello del festival dedicato al tema "informazione, scelte e sviluppo": "L'omertà di oggi è non voler conoscere".
Dopo l'intervento di Saviano è salito sul palco il presidente della Provincia autonoma di Trento Lorenzo Dellai, assieme agli altri organizzatori della manifestazione, per un saluto finale, che è anche una rassicurazione: "Come sempre, nei prossimi giorni, ci troveremo per fare un bilancio di queste giornate, ma posso dire fin d'ora che questa edizione del festival è andata molto bene, che Trento con questa manifestazione sente di fare un servizio anche al resto del paese, offrendo stimoli e spunti di conoscenza. Quindi, non ci fermeremo."
Rivolgendosi a Saviano, e ringraziandolo per avere accettato l'invito del Trentino, Dellai ha aggiunto: "L'impegno che possiamo prendere è di mettere il Festival dell'Economia a disposizione anche del Sud del Paese, nelle forme che andremo ad immaginare nel prossimo futuro, per offrire anche noi il nostro contributo alla crescita di una conoscenza libera."
PIU' IMMIGRAZIONE NON E’ UGUALE A PIU’ CRIMINALITA’
Interessante questo appuntamento di oggi sul tema immigrazione-criminalità, con la formula del "Vero-Falso", nuovo format del festival dell'Economia.
Riporto di seguito il mio comunicato.
Più immigrazione uguale più criminalità? Questo il quesito sottoposto alla giuria di studenti universitari nel secondo appuntamento – particolarmente affollato - con “Vero o falso”, il nuovo format del festival dell’Economia. Coordinato da Federico Rampini, inviato di “Repubblica” negli Usa, introdotto da Paolo Pinotti (Centro studi della Banca d’Italia, “lavoce.info), il dibattito ha visto confrontarsi il sociologo dell’università di Bologna Marzio Barbagli e il docente di politica economica dell’università di Parma Francesco Daveri. Si sono ascoltate inoltre le testimonianze di David Card, Franco Pittau, Riccardo Puglisi e Linda Laura Sabbadini.
Tema appassionante e controverso, quello del legame criminalità-immigrazione. Ma la giuria, al termine dell’ampia discussione, non ha avuto dubbi: all'unanimità ha sentenziato che non è vero che a più immigrazione corrisponde più criminalità.
“Il quesito di oggi è probabilmente improponibile per molti dei presenti – ha esordito Rampini – ; teniamo conto però non solo del fatto che autorevoli personalità politiche si sono espresse in questi termini, più immigrazione è uguale a più criminalità, ma anche che il tema è continuamente discusso dall’opinione pubblica un po’ ovunque, anche negli Usa, la società apparentemente più aperta all’immigrazione.”
Pinotti ha ricordato a questo proposito che in Italia, secondo un sondaggio, circa il 60% delle persone dichiara di essere preoccupata della criminalità portata dagli immigrati. Non è una tipicità italiana; la media europea è del 70%. Ma su che cosa si fondano queste paure? In realtà i dati sono pochi, le conoscenze frammentarie. In termini di dati Istat, l’immigrazione è quadruplicata dai primi anni ’90 ad oggi; nello stesso periodo il tasso di criminalità è rimasto pressoché costante. Se guardiamo invece al tasso di incarcerazione, vediamo che la percentuale degli stranieri, sul totale della popolazione carceraria, è del 40% (anche se in totale rispetto alla popolazione italiana gli immigrati – regolari - non arrivano al 5%). Come si conciliano questi due dati? Un’ipotesi è che ci sia discriminazione, ovvero che l’immigrato venga giudicato più severamente o controllato di più rispetto all’italiano. O che alcuni lavori “di manovalanza”, anche nel settore dell’economia criminale, siano passati dagli italiani agli stranieri. Ma sono solo ipotesi. Ciò che si sa è che l’80% degli immigrati oggi in carcere sono irregolari. La percentuale della popolazione italiana che viene denunciata, invece, è pressoché uguale per gli italiani e per gli stranieri regolari.
Barbagli ha esordito ammettendo a sua volta che sulla base dei dati che oggi abbiamo a disposizione, non si può dare una risposta precisa al quesito posto dagli organizzatori del dibattito. Invece sappiamo altre cose: ad esempio che, in Europa, negli ultimi due secoli, la criminalità aumenta solitamente quando cresce la percentuale di popolazione giovane e di sesso maschile sul totale. Negli Usa, i molti studi condotti in passato hanno dimostrato che gli immigrati non commettevano più reati degli autoctoni, con qualche eccezione: una riguardava proprio gli italiani. La crescita di reati commessi dagli immigrati comincia ad emergere, come dato "allarmante", in Europa negli anni ’60, e pare riferita agli immigrati di seconda generazione. “I dati sulla popolazione carceraria invece non sono significativi – ha proseguito Barbagli – perché gli immigrati fanno molto più carcere preventivo degli autoctoni. Bisogna semmai guardare al tipo di reato: gli immigrati, ad esempio, in genere non commettono reati come le rapine in banca, mentre sono molto presenti nelle statistiche sui furti nelle abitazioni. Riguardo al reato di omicidio, invece, la quota sul totale dei denunciati è salita dal 5 al 35% e nel centro-nord al 50%. Questo dato effettivamente ci deve fare pensare. Per una parte notevole di questi omicidi la vittima è un altro immigrato, appartenente allo stesso gruppo di riferimento.”
In realtà, in Italia e in molti altri paesi europei, la criminalità, relativamente a molti tipi di reati, è in calo: secondo Barbagli ciò può essere spiegato innanzitutto con il fatto che è calata, in generale e soprattutto nel nostro Paese, dalla fine degli anni ’80, la popolazione giovanile, quella cioè compresa fra i 15 e i 24 anni, la cui propensione a delinquere è più alta rispetto alle altre fasce di età, specie per alcune classi di reati.
Daverio si è concentrato invece sui dati relativi al centro-nord, per dimostrare che, sì, forse una correlazione fra immigrazione e criminalità c’è. “Esiste una forte correlazione soprattutto per reati come furti, estorsioni e rapimenti, ed è più evidente a partire dal 2000. Ciò vale sia nelle regioni del nord sia in quelle ‘rosse’ del centro-nord. Quindi il punto non è tanto se un rapporto esiste, ma a che cosa è dovuto, se è la migrazione in sé che genera criminalità o se esistono circostanze locali, nei luoghi di accoglienza, che favoriscono l’ingresso dei migranti nel tessuto criminale.” In Spagna, paese di immigrazione recente come l’Italia, questa correlazione non si vede; la crescita dell’immigrazione, anzi il boom dell’immigrazione, non si è accompagnato a una crescita dei reati commessi dagli immigrati. Forse perché in Spagna l’immigrato trova più facilmente un lavoro regolare, e quindi non è “costretto” a commettere dei reati per vivere? E’ un’ipotesi non dimostrata, perché il tessuto economico dei due Paesi è simile. Tuttavia i dati mostrano che l’Italia attira mediamente persone meno alfabetizzate rispetto a quelle che emigrano in Spagna (ad esempio i molti albanesi giunti nel nostro Paese negli anni ’90). “La mia spiegazione dunque potrebbe essere questa: minor alfabetizzazione infatti è solitamente associata a maggiore propensione all’illegalità. Ma perché l’Italia attira soprattutto questa tipologia di immigrati? In parte, certo, perché siamo il Paese di “Gomorra”. Ma soprattutto perché in Italia, anche nel nord, in genere la legalità non viene rispettata – sul piano fiscale, del mercato del lavoro e così via - in primo luogo proprio dagli italiani.” Del resto, ovunque nel mondo, ha chiosato Rampini, l’immigrato clandestino è l’anello debole della catena del mondo del lavoro e il più esposto ad ogni genere di ricatto.
Sono poi seguiti gli interventi dei testimoni. Laura Sabbadini, direttore centrale Istat, ha invitato a leggere gli indicatori correttamente: fra questi non c’è il numero dei detenuti nelle carceri, falsato dal maggiore ricorso alla detenzione preventiva e al minore ricorso alle pene alternative. Altri dati, ad esempio quelli relativi alla vittimizzazione, mostrano che per alcuni reati – e solo alcuni (scippi, rapine) – la componente immigrata è rilevante. Ma le cose cambiano velocemente, a seconda della congiuntura economica, delle politiche di integrazione e/o regolarizzazione e così via. L’evidenza di oggi, insomma, non autorizza a fare previsioni per il futuro. Infine, attenzione a cosa ci mostrano i media, ovvero che gli stranieri compiono reati nei confronti soprattutto degli italiani. Non è così. “Nel caso di stupro, ad esempio, l’evidenza dimostra che gli uomini stranieri stuprano di preferenza donne dello stesso gruppo di riferimento; la maggior parte delle donne italiane, invece, viene stuprata dai loro mariti italiani”.
Pittau, della Caritas Migrantes, ha detto esplicitamente che l’affermazione contenuta nel titolo dell’incontro è falsa, il tasso di criminalità degli immigrati è pressoché uguale a quello degli italiani, ma se togliamo il reato di immigrazione clandestina è addirittura più basso; oltre a ciò, l’Italia in realtà sta meglio di altri paesi considerati più fortunati sul piano della diffusione della criminalità, come il Belgio e l’Inghilterra. “Dirlo chiaramente – ha aggiunto - attenuerebbe l’effetto di ‘assedio da parte della criminalità’ che parte della popolazione italiana avverte.”
Puglisi, dell’Università di Pavia, ha parlato di cosa pensano le persone sull’immigrazione, soprattutto clandestina, in relazione a come i media presentano il tema. Tema che ha una valenza politica forte, e di cui si avvantaggiano generalmente i conservatori, percepiti come più “bravi” a gestire il fenomeno migratorio.
Card, docente a Berkley, ha portato infine la sua testimonianza dalla California, uno degli stati più multietnici al mondo (il 25% della popolazione è immigrata).
Infine, la sentenza, affidata come ieri alla giuria di studenti universitari: all’unanimità è stato deciso che no, è falso che a maggiore immigrazione corrisponda maggiore criminalità.
Riporto di seguito il mio comunicato.
Più immigrazione uguale più criminalità? Questo il quesito sottoposto alla giuria di studenti universitari nel secondo appuntamento – particolarmente affollato - con “Vero o falso”, il nuovo format del festival dell’Economia. Coordinato da Federico Rampini, inviato di “Repubblica” negli Usa, introdotto da Paolo Pinotti (Centro studi della Banca d’Italia, “lavoce.info), il dibattito ha visto confrontarsi il sociologo dell’università di Bologna Marzio Barbagli e il docente di politica economica dell’università di Parma Francesco Daveri. Si sono ascoltate inoltre le testimonianze di David Card, Franco Pittau, Riccardo Puglisi e Linda Laura Sabbadini.
Tema appassionante e controverso, quello del legame criminalità-immigrazione. Ma la giuria, al termine dell’ampia discussione, non ha avuto dubbi: all'unanimità ha sentenziato che non è vero che a più immigrazione corrisponde più criminalità.
“Il quesito di oggi è probabilmente improponibile per molti dei presenti – ha esordito Rampini – ; teniamo conto però non solo del fatto che autorevoli personalità politiche si sono espresse in questi termini, più immigrazione è uguale a più criminalità, ma anche che il tema è continuamente discusso dall’opinione pubblica un po’ ovunque, anche negli Usa, la società apparentemente più aperta all’immigrazione.”
Pinotti ha ricordato a questo proposito che in Italia, secondo un sondaggio, circa il 60% delle persone dichiara di essere preoccupata della criminalità portata dagli immigrati. Non è una tipicità italiana; la media europea è del 70%. Ma su che cosa si fondano queste paure? In realtà i dati sono pochi, le conoscenze frammentarie. In termini di dati Istat, l’immigrazione è quadruplicata dai primi anni ’90 ad oggi; nello stesso periodo il tasso di criminalità è rimasto pressoché costante. Se guardiamo invece al tasso di incarcerazione, vediamo che la percentuale degli stranieri, sul totale della popolazione carceraria, è del 40% (anche se in totale rispetto alla popolazione italiana gli immigrati – regolari - non arrivano al 5%). Come si conciliano questi due dati? Un’ipotesi è che ci sia discriminazione, ovvero che l’immigrato venga giudicato più severamente o controllato di più rispetto all’italiano. O che alcuni lavori “di manovalanza”, anche nel settore dell’economia criminale, siano passati dagli italiani agli stranieri. Ma sono solo ipotesi. Ciò che si sa è che l’80% degli immigrati oggi in carcere sono irregolari. La percentuale della popolazione italiana che viene denunciata, invece, è pressoché uguale per gli italiani e per gli stranieri regolari.
Barbagli ha esordito ammettendo a sua volta che sulla base dei dati che oggi abbiamo a disposizione, non si può dare una risposta precisa al quesito posto dagli organizzatori del dibattito. Invece sappiamo altre cose: ad esempio che, in Europa, negli ultimi due secoli, la criminalità aumenta solitamente quando cresce la percentuale di popolazione giovane e di sesso maschile sul totale. Negli Usa, i molti studi condotti in passato hanno dimostrato che gli immigrati non commettevano più reati degli autoctoni, con qualche eccezione: una riguardava proprio gli italiani. La crescita di reati commessi dagli immigrati comincia ad emergere, come dato "allarmante", in Europa negli anni ’60, e pare riferita agli immigrati di seconda generazione. “I dati sulla popolazione carceraria invece non sono significativi – ha proseguito Barbagli – perché gli immigrati fanno molto più carcere preventivo degli autoctoni. Bisogna semmai guardare al tipo di reato: gli immigrati, ad esempio, in genere non commettono reati come le rapine in banca, mentre sono molto presenti nelle statistiche sui furti nelle abitazioni. Riguardo al reato di omicidio, invece, la quota sul totale dei denunciati è salita dal 5 al 35% e nel centro-nord al 50%. Questo dato effettivamente ci deve fare pensare. Per una parte notevole di questi omicidi la vittima è un altro immigrato, appartenente allo stesso gruppo di riferimento.”
In realtà, in Italia e in molti altri paesi europei, la criminalità, relativamente a molti tipi di reati, è in calo: secondo Barbagli ciò può essere spiegato innanzitutto con il fatto che è calata, in generale e soprattutto nel nostro Paese, dalla fine degli anni ’80, la popolazione giovanile, quella cioè compresa fra i 15 e i 24 anni, la cui propensione a delinquere è più alta rispetto alle altre fasce di età, specie per alcune classi di reati.
Daverio si è concentrato invece sui dati relativi al centro-nord, per dimostrare che, sì, forse una correlazione fra immigrazione e criminalità c’è. “Esiste una forte correlazione soprattutto per reati come furti, estorsioni e rapimenti, ed è più evidente a partire dal 2000. Ciò vale sia nelle regioni del nord sia in quelle ‘rosse’ del centro-nord. Quindi il punto non è tanto se un rapporto esiste, ma a che cosa è dovuto, se è la migrazione in sé che genera criminalità o se esistono circostanze locali, nei luoghi di accoglienza, che favoriscono l’ingresso dei migranti nel tessuto criminale.” In Spagna, paese di immigrazione recente come l’Italia, questa correlazione non si vede; la crescita dell’immigrazione, anzi il boom dell’immigrazione, non si è accompagnato a una crescita dei reati commessi dagli immigrati. Forse perché in Spagna l’immigrato trova più facilmente un lavoro regolare, e quindi non è “costretto” a commettere dei reati per vivere? E’ un’ipotesi non dimostrata, perché il tessuto economico dei due Paesi è simile. Tuttavia i dati mostrano che l’Italia attira mediamente persone meno alfabetizzate rispetto a quelle che emigrano in Spagna (ad esempio i molti albanesi giunti nel nostro Paese negli anni ’90). “La mia spiegazione dunque potrebbe essere questa: minor alfabetizzazione infatti è solitamente associata a maggiore propensione all’illegalità. Ma perché l’Italia attira soprattutto questa tipologia di immigrati? In parte, certo, perché siamo il Paese di “Gomorra”. Ma soprattutto perché in Italia, anche nel nord, in genere la legalità non viene rispettata – sul piano fiscale, del mercato del lavoro e così via - in primo luogo proprio dagli italiani.” Del resto, ovunque nel mondo, ha chiosato Rampini, l’immigrato clandestino è l’anello debole della catena del mondo del lavoro e il più esposto ad ogni genere di ricatto.
Sono poi seguiti gli interventi dei testimoni. Laura Sabbadini, direttore centrale Istat, ha invitato a leggere gli indicatori correttamente: fra questi non c’è il numero dei detenuti nelle carceri, falsato dal maggiore ricorso alla detenzione preventiva e al minore ricorso alle pene alternative. Altri dati, ad esempio quelli relativi alla vittimizzazione, mostrano che per alcuni reati – e solo alcuni (scippi, rapine) – la componente immigrata è rilevante. Ma le cose cambiano velocemente, a seconda della congiuntura economica, delle politiche di integrazione e/o regolarizzazione e così via. L’evidenza di oggi, insomma, non autorizza a fare previsioni per il futuro. Infine, attenzione a cosa ci mostrano i media, ovvero che gli stranieri compiono reati nei confronti soprattutto degli italiani. Non è così. “Nel caso di stupro, ad esempio, l’evidenza dimostra che gli uomini stranieri stuprano di preferenza donne dello stesso gruppo di riferimento; la maggior parte delle donne italiane, invece, viene stuprata dai loro mariti italiani”.
Pittau, della Caritas Migrantes, ha detto esplicitamente che l’affermazione contenuta nel titolo dell’incontro è falsa, il tasso di criminalità degli immigrati è pressoché uguale a quello degli italiani, ma se togliamo il reato di immigrazione clandestina è addirittura più basso; oltre a ciò, l’Italia in realtà sta meglio di altri paesi considerati più fortunati sul piano della diffusione della criminalità, come il Belgio e l’Inghilterra. “Dirlo chiaramente – ha aggiunto - attenuerebbe l’effetto di ‘assedio da parte della criminalità’ che parte della popolazione italiana avverte.”
Puglisi, dell’Università di Pavia, ha parlato di cosa pensano le persone sull’immigrazione, soprattutto clandestina, in relazione a come i media presentano il tema. Tema che ha una valenza politica forte, e di cui si avvantaggiano generalmente i conservatori, percepiti come più “bravi” a gestire il fenomeno migratorio.
Card, docente a Berkley, ha portato infine la sua testimonianza dalla California, uno degli stati più multietnici al mondo (il 25% della popolazione è immigrata).
Infine, la sentenza, affidata come ieri alla giuria di studenti universitari: all’unanimità è stato deciso che no, è falso che a maggiore immigrazione corrisponda maggiore criminalità.
L'identità va decostruita
Non ho ascoltato nulla di straordinariamente nuovo nella relazione di David Putnam ieri nel corso della prima giornata del Festival dell'Economia. Sarà che da Putnam mi aspettavo molto, sarà forse che se sei nato in Alto Adige, dove sei costretto a dichiararti per forza appartenente ad un gruppo linguistico (pena la perdita di diritti concretissimi), il tema dell'identità lo conosci come le sue tasche.
Forse, però, quello che ha detto l'accademico di Harvard - che l'identità è un costrutto sociale, che cambia nel tempo, che va decostruita (o che si decostruisce da sé - per effetto, tra l'altro, delle migrazioni e dei matrimoni misti - non si è ben capito...)- per molte persone rappresenta una novità. Certo, Langer queste cose le diceva in maniera forte, chiara e scomoda 20 e più anni fa (c'era la guerra nella ex-Jugoslavia, la guerra delle identità fratricide): non viene ricordato come uno degli intelletuali più influenti del suo tempo, non è diventato consigliere di Clinton e Obama, gli impedirono persino di candidarsi a sindaco di Bolzano (perchè appunto non si era dichiarato appartenente ad uno dei tre gruppi in cui l'apartheid altoatesino ha diviso la popolazione della provincia).
L'anno scorso ad un incontro "minore" del Festival, quello con Remotti, un antropologo italiano, si erano sentite parole più forti, contro il Moloch dell'identità ; lì però il punto di partenza non erano gli Usa di "Gran Torino" ma il Ruanda del 1994...
Poi, la struttura stessa della relazione di Putnam mi ha lasciato perplesso. Nella prima parte si è detto che in verità nelle società multietniche il capitale sociale è più basso; la gente è diffidente, c'è "l'effetto tartaruga", la creazione di reti amicali è più difficile. Questa l'evidenza empirica delle ricerche condotte negli Usa. Nella seconda parte della relazione, però, Putnam ha detto che le migrazioni (e più in generale il lento scorrere del tempo) comunque cambiano le identità, spostano le soglie e i confini che definiscono i gruppi, e che in definitiva il pluralismo etnico e culturale produce ricchezza e creatività. Il nesso logico fra la prima parte e la seconda era invero un po' labile.
Mi ha anche lasciato freddo l'affermazione secondo la quale, nelle società dove il capitale sociale è più alto, "le persone trovano lavoro in virtù di chi conoscono piuttosto che di cosa conoscono"; tutto vero, ovviamente, però sembrerebbe una fotografia della vituperata Italia dei raccomandati e dei bamboccioni. Solo che Putnam poi ricorda che delle esternalità positive delle reti amicali beneficiano tutti, anche coloro che ne stanno fuori, anche quelli che non partecipano ai barbeque. Vabbé, lui è americano, ha in mente un'altra realtà, quella delle confraternite, dei club, delle lobbies, dell'associazionismo diffuso che tanto impressionò Tocqueville (anche se oggi pare sia in calo).
In ogni modo, tutto fa brodo contro al razzismo. Quindi forse non è il caso di sottilizzare come se si fosse in un'aula universitaria. Dopotutto, questi festival sono eventi popolari. Dire che integrazione non significa omologazione significa dire una cosa importante nei confronti di chi (come quella lettrice che scrive oggi su "L'Adige") ritiene che gli immigrati debbano abbandonare le loro culture di riferimento per diventare compiutamente italiani. "L'identità non è data da Dio, è una costruzione sociale, come il linguaggio che adoperiamo per definire le cose, si può essere americani, buoni americani, pur mantendendo le proprie tradizioni italiane, irlandesi ecc. Anzi, queste stesse tradizioni sono 'americane'." Langer avrebbe detto forse qualcosa di più; avrebbe detto che per unire gruppi diversi sono necessari dei "traditori", che però non si limitano a passare dall'altra parte, che conservano un'appartenenza. Ragionamento molto sofisticato.
Forse, però, quello che ha detto l'accademico di Harvard - che l'identità è un costrutto sociale, che cambia nel tempo, che va decostruita (o che si decostruisce da sé - per effetto, tra l'altro, delle migrazioni e dei matrimoni misti - non si è ben capito...)- per molte persone rappresenta una novità. Certo, Langer queste cose le diceva in maniera forte, chiara e scomoda 20 e più anni fa (c'era la guerra nella ex-Jugoslavia, la guerra delle identità fratricide): non viene ricordato come uno degli intelletuali più influenti del suo tempo, non è diventato consigliere di Clinton e Obama, gli impedirono persino di candidarsi a sindaco di Bolzano (perchè appunto non si era dichiarato appartenente ad uno dei tre gruppi in cui l'apartheid altoatesino ha diviso la popolazione della provincia).
L'anno scorso ad un incontro "minore" del Festival, quello con Remotti, un antropologo italiano, si erano sentite parole più forti, contro il Moloch dell'identità ; lì però il punto di partenza non erano gli Usa di "Gran Torino" ma il Ruanda del 1994...
Poi, la struttura stessa della relazione di Putnam mi ha lasciato perplesso. Nella prima parte si è detto che in verità nelle società multietniche il capitale sociale è più basso; la gente è diffidente, c'è "l'effetto tartaruga", la creazione di reti amicali è più difficile. Questa l'evidenza empirica delle ricerche condotte negli Usa. Nella seconda parte della relazione, però, Putnam ha detto che le migrazioni (e più in generale il lento scorrere del tempo) comunque cambiano le identità, spostano le soglie e i confini che definiscono i gruppi, e che in definitiva il pluralismo etnico e culturale produce ricchezza e creatività. Il nesso logico fra la prima parte e la seconda era invero un po' labile.
Mi ha anche lasciato freddo l'affermazione secondo la quale, nelle società dove il capitale sociale è più alto, "le persone trovano lavoro in virtù di chi conoscono piuttosto che di cosa conoscono"; tutto vero, ovviamente, però sembrerebbe una fotografia della vituperata Italia dei raccomandati e dei bamboccioni. Solo che Putnam poi ricorda che delle esternalità positive delle reti amicali beneficiano tutti, anche coloro che ne stanno fuori, anche quelli che non partecipano ai barbeque. Vabbé, lui è americano, ha in mente un'altra realtà, quella delle confraternite, dei club, delle lobbies, dell'associazionismo diffuso che tanto impressionò Tocqueville (anche se oggi pare sia in calo).
In ogni modo, tutto fa brodo contro al razzismo. Quindi forse non è il caso di sottilizzare come se si fosse in un'aula universitaria. Dopotutto, questi festival sono eventi popolari. Dire che integrazione non significa omologazione significa dire una cosa importante nei confronti di chi (come quella lettrice che scrive oggi su "L'Adige") ritiene che gli immigrati debbano abbandonare le loro culture di riferimento per diventare compiutamente italiani. "L'identità non è data da Dio, è una costruzione sociale, come il linguaggio che adoperiamo per definire le cose, si può essere americani, buoni americani, pur mantendendo le proprie tradizioni italiane, irlandesi ecc. Anzi, queste stesse tradizioni sono 'americane'." Langer avrebbe detto forse qualcosa di più; avrebbe detto che per unire gruppi diversi sono necessari dei "traditori", che però non si limitano a passare dall'altra parte, che conservano un'appartenenza. Ragionamento molto sofisticato.
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festival dell'Economia di Trento; Langer
MINOR - visto al Trento Filmfestival della montagna
Ho visto questo doc al Trento Filmfestival della montagna. Momento di pura poesia. Senza melassa.
C'è il mondo sotterraneo, ctonio, in cui il minatore sprofonda, la terra, i sassi, l'umidità, il fango. E c'è il fuori, la superficie, lo spazio aperto, la montagna, il lago d'Idro sullo sfondo. Ci sono i minatori, disposti come in un quadro, seduti sull'ingresso della casa/dormitorio, le loro personalità sbozzate con precisione artigiana dalle telecamere e dai microfoni, in pochi minuti di conversazione (che devono essere costati ore e ore di "lavoro", la paziente conquista della loro fiducia). C'è il direttore della miniera, 45 anni dedicati alla montagna. C'è il cuoco della casa. C'è la solitudine e le partite a carte la sera, ma anche un riflesso di quel senso di libertà e di "potere" che i minatori per molto tempo hanno respirato qui fra queste montagne dove nacque il primo codice minerario, il Codex Wangianus, che riconosceva ai minatori importanti privilegi.
MINOR (MINATORI)
Regia di Micol Cossali, fotografia/riprese Elena Negriolli, 44', Italia, 2010
Alla fine del 2009, dopo oltre un secolo di storia, ha chiuso la miniera di Marigole in Trentino. Qui, dal 1894, generazioni di minatori hanno cercato ed estratto "l'oro bianco" delle montagne, la barite. Questi uomini hanno vissuto in isolamento sulla cima della montagna, trascorrendo le loro giornate nel ventre della terra e sviluppando una passione per questo mestiere, che ha assunto un particolare senso per le loro esistenze. La chiusura della miniera rappresenta la fine di un'epoca per un'intera comunità.
Il film è co-prodotto dalla Provincia autonoma di Trento - Servizio Attività culturali e Aurelio Laino, Decima Rosa Produzioni.
C'è il mondo sotterraneo, ctonio, in cui il minatore sprofonda, la terra, i sassi, l'umidità, il fango. E c'è il fuori, la superficie, lo spazio aperto, la montagna, il lago d'Idro sullo sfondo. Ci sono i minatori, disposti come in un quadro, seduti sull'ingresso della casa/dormitorio, le loro personalità sbozzate con precisione artigiana dalle telecamere e dai microfoni, in pochi minuti di conversazione (che devono essere costati ore e ore di "lavoro", la paziente conquista della loro fiducia). C'è il direttore della miniera, 45 anni dedicati alla montagna. C'è il cuoco della casa. C'è la solitudine e le partite a carte la sera, ma anche un riflesso di quel senso di libertà e di "potere" che i minatori per molto tempo hanno respirato qui fra queste montagne dove nacque il primo codice minerario, il Codex Wangianus, che riconosceva ai minatori importanti privilegi.
MINOR (MINATORI)
Regia di Micol Cossali, fotografia/riprese Elena Negriolli, 44', Italia, 2010
Alla fine del 2009, dopo oltre un secolo di storia, ha chiuso la miniera di Marigole in Trentino. Qui, dal 1894, generazioni di minatori hanno cercato ed estratto "l'oro bianco" delle montagne, la barite. Questi uomini hanno vissuto in isolamento sulla cima della montagna, trascorrendo le loro giornate nel ventre della terra e sviluppando una passione per questo mestiere, che ha assunto un particolare senso per le loro esistenze. La chiusura della miniera rappresenta la fine di un'epoca per un'intera comunità.
Il film è co-prodotto dalla Provincia autonoma di Trento - Servizio Attività culturali e Aurelio Laino, Decima Rosa Produzioni.
Non un partito ma un popolo
I colpi di coda del regime si colorano di tinte mistiche. E fosche.
Ieri il documento votato dal partito lo dice esplicitamente, quando spiega che il Pdl non è un partito ma un "popolo", che si riconosce nelle "democrazie degli elettori", e dunque non può contemplare il dissenso.
Così Ezio Mauro oggi su Repubblica.
In questo appello al "popolo" come ad un'entità indivisa, priva di sfumature, di conflitti, di interessi divergenti, riposa il germe di ogni totalitarismo. Dalla società corporativa fascista, cementata dal nazionalismo e dalla retorica imperiale, a quella formalmente egualitaria dei regimi comunisti, affratellata da una falsa mistica proletaria. Passando ovviamente per la sua espressione più terribile, quella fondata sul mito della razza ariana. In questo senso, il partito-popolo è speculare al partito-etnia e al partito confessionale (o partito-setta religiosa). Cosa può esserci al di fuori di esso? Il non-popolo, la non-etnia, la non-religione, dunque qualcosa di intimamente perfido, non omologabile, diabolico, "altro". Il male.
L'ultimo berlusconismo ha introdotto non a caso un elemento di suggestione ulteriore, l'amore. Già, perché come si può essere contrari all'amore? Chi è contrario all'amore è a favore dell'odio. Da qui a chiamare gli oppositori "scarafaggi" il passo è breve. E gli scarafaggi abbiamo visto che fine hanno fatto: nel 1994, in Rwanda.
Ma per fortuna in Italia non ci sono in giro tanti machete. E l'Italia non è il teatro di un conflitto esterno fra grandi potenze.
Fuori dal tunnel del berlusconismo, speriamo di trovare, finalmente, una democrazia compiuta.
Ieri il documento votato dal partito lo dice esplicitamente, quando spiega che il Pdl non è un partito ma un "popolo", che si riconosce nelle "democrazie degli elettori", e dunque non può contemplare il dissenso.
Così Ezio Mauro oggi su Repubblica.
In questo appello al "popolo" come ad un'entità indivisa, priva di sfumature, di conflitti, di interessi divergenti, riposa il germe di ogni totalitarismo. Dalla società corporativa fascista, cementata dal nazionalismo e dalla retorica imperiale, a quella formalmente egualitaria dei regimi comunisti, affratellata da una falsa mistica proletaria. Passando ovviamente per la sua espressione più terribile, quella fondata sul mito della razza ariana. In questo senso, il partito-popolo è speculare al partito-etnia e al partito confessionale (o partito-setta religiosa). Cosa può esserci al di fuori di esso? Il non-popolo, la non-etnia, la non-religione, dunque qualcosa di intimamente perfido, non omologabile, diabolico, "altro". Il male.
L'ultimo berlusconismo ha introdotto non a caso un elemento di suggestione ulteriore, l'amore. Già, perché come si può essere contrari all'amore? Chi è contrario all'amore è a favore dell'odio. Da qui a chiamare gli oppositori "scarafaggi" il passo è breve. E gli scarafaggi abbiamo visto che fine hanno fatto: nel 1994, in Rwanda.
Ma per fortuna in Italia non ci sono in giro tanti machete. E l'Italia non è il teatro di un conflitto esterno fra grandi potenze.
Fuori dal tunnel del berlusconismo, speriamo di trovare, finalmente, una democrazia compiuta.
Questioni generazionali
Mi sono sempre sentito dalla parte dei giovani, pur credendo poco a queste categorie basate sui fattori generazionali (quando si finisce di essere giovani? Quand'è che termina l'età della "formazione"? Quand'è che si è definitivamente adulti, cioé maturi? E la maturità ha davvero a che fare con l'età, qualsiasi cosa essa sia? Ne parlo anche nel mio "Music box", usando la musica come medium).
Sul piano psicologico, forse non ho mai superato completamente la stagione dell'università, anche se ho iniziato a lavorare, ho fatto carriera, ho avuto dei figli, ho acceso un mutuo... Sul piano fisico...beh, sto dalla parte dei giovani forse perché i mei anni li porto bene (credo...), o almeno mi sento bene.
Poi ieri sera ho visto un film nel quale un dirigente di 51 anni viene all'improvviso scalzato da un 26enne. Prima reazione: vabbé, è un film americano, in Italia non succederebbe mai, in Italia domina la gerontocrazia.
Seconda reazione: sì, ma se succedesse anche qui? Mio padre per lo meno a 50 anni è andato in pensione, per lui non si è posto il problema di convivere a lungo - nel posto di lavoro - con persone giovani, più fresche, più aggiornate, più motivate. Ma per la mia generazione, condannata a lavorare almeno fino a 65 anni, la cosa è un po' diversa.
Così in astratto, direi che la differenza giovani-adulti, persino giovani-vecchi non esiste. Esistono differenze residuali create dal mercato (il giovane E' un'invenzione del mercato, data gli anni 50' del XX secolo, la sua patria sono gli Usa, il giovane come categoria, target, età sospesa, nasce con James Dean e Elvis Presley, prima si era ragazzi fino al militare e subito dopo adulti, pronti per il matrimonio e la fabbrica). Sul piano dei comportamenti oggi ci sono 50enni/60enni indistinguibili o quasi dai loro figli, e a me non pare una cosa tremenda. Così in astratto, il conflitto generazionale, quello che impazzava nel '68, quello che spingeva tanti ragazzi a sognare di "scappare di casa", non ha più ragione di esistere (prova ne è che tanti "giovani" stanno in famiglia fino a 30 e più anni senza grossi problemi).
Però, chi dice che il mercato del lavoro, la crisi irreversibile del sistema pensionistico ecc. non finiranno con il farlo riesplodere, questo conflitto, in altre forme? Ovvero non per le questioni morali/estetiche/culturali del passato (quanto star fuori la sera, la verginità, i capelli lunghi, la musica, le canne ecc.) ma per le concretissime questioni poste dall'economia?
Il film di ieri si concludeva in maniera consolatoria per i "vecchi": il dirigente (che ha appena avuto una nuova figlia, e deve anche mandare la prima in una costosa università, e questo è esemplificativo: a 50 anni ci si arrabatta ancora con pannolini e orari che impazziscono) viene reintegrato nel suo ruolo, mentre il giovane rampante, licenziato di brutto, va a correre sulla spiaggia ponendosi i soliti quesiti esistenziali (chi sono? cosa voglio nella vita?).
La realtà forse è un po' diversa: è la realtà di tante persone che a un certo punto della loro vita sono stufe di lavorare (anche perchè vengono progressivamente messe ai margini dell'organizzazione aziendale, non tutti sono professori universitari o manager alla Vincenzo Cipolletta) ma devono continuare a scaldare la sedia perché l'età della pensione si è inesorabilmente allontanata. Tutto questo mentre premono alle porte giovani reduci da master e altre esperienze amene in giro per il mondo, costretti ad adattarsi a lavori precari o sottopagati e a volte neanche tanto eccitanti.
Sul piano psicologico, forse non ho mai superato completamente la stagione dell'università, anche se ho iniziato a lavorare, ho fatto carriera, ho avuto dei figli, ho acceso un mutuo... Sul piano fisico...beh, sto dalla parte dei giovani forse perché i mei anni li porto bene (credo...), o almeno mi sento bene.
Poi ieri sera ho visto un film nel quale un dirigente di 51 anni viene all'improvviso scalzato da un 26enne. Prima reazione: vabbé, è un film americano, in Italia non succederebbe mai, in Italia domina la gerontocrazia.
Seconda reazione: sì, ma se succedesse anche qui? Mio padre per lo meno a 50 anni è andato in pensione, per lui non si è posto il problema di convivere a lungo - nel posto di lavoro - con persone giovani, più fresche, più aggiornate, più motivate. Ma per la mia generazione, condannata a lavorare almeno fino a 65 anni, la cosa è un po' diversa.
Così in astratto, direi che la differenza giovani-adulti, persino giovani-vecchi non esiste. Esistono differenze residuali create dal mercato (il giovane E' un'invenzione del mercato, data gli anni 50' del XX secolo, la sua patria sono gli Usa, il giovane come categoria, target, età sospesa, nasce con James Dean e Elvis Presley, prima si era ragazzi fino al militare e subito dopo adulti, pronti per il matrimonio e la fabbrica). Sul piano dei comportamenti oggi ci sono 50enni/60enni indistinguibili o quasi dai loro figli, e a me non pare una cosa tremenda. Così in astratto, il conflitto generazionale, quello che impazzava nel '68, quello che spingeva tanti ragazzi a sognare di "scappare di casa", non ha più ragione di esistere (prova ne è che tanti "giovani" stanno in famiglia fino a 30 e più anni senza grossi problemi).
Però, chi dice che il mercato del lavoro, la crisi irreversibile del sistema pensionistico ecc. non finiranno con il farlo riesplodere, questo conflitto, in altre forme? Ovvero non per le questioni morali/estetiche/culturali del passato (quanto star fuori la sera, la verginità, i capelli lunghi, la musica, le canne ecc.) ma per le concretissime questioni poste dall'economia?
Il film di ieri si concludeva in maniera consolatoria per i "vecchi": il dirigente (che ha appena avuto una nuova figlia, e deve anche mandare la prima in una costosa università, e questo è esemplificativo: a 50 anni ci si arrabatta ancora con pannolini e orari che impazziscono) viene reintegrato nel suo ruolo, mentre il giovane rampante, licenziato di brutto, va a correre sulla spiaggia ponendosi i soliti quesiti esistenziali (chi sono? cosa voglio nella vita?).
La realtà forse è un po' diversa: è la realtà di tante persone che a un certo punto della loro vita sono stufe di lavorare (anche perchè vengono progressivamente messe ai margini dell'organizzazione aziendale, non tutti sono professori universitari o manager alla Vincenzo Cipolletta) ma devono continuare a scaldare la sedia perché l'età della pensione si è inesorabilmente allontanata. Tutto questo mentre premono alle porte giovani reduci da master e altre esperienze amene in giro per il mondo, costretti ad adattarsi a lavori precari o sottopagati e a volte neanche tanto eccitanti.
Espressioni di un viaggio africano
Kundera, ovvero...che razza di libri ci succhiavamo
Sto rileggendo per la...decima volta? "L'insostenibile leggerezza dell'essere" di Milan Kundera. Negli anni '80 fu un caso letterario (complice anche la trasmissione tv "Quelli della notte"). Un libro vendutissimo.
Riprendendolo in mano l'altro giorno ho messo a fuoco il fatto che questo romanzo si apre con due pagine dedicate all'idea dell'eterno ritorno in Nietzsche. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se oggi qualcuno pubblicherebbe un libro così, sperando magari anche di farne un best seller. Voglio dire: è scritto straordinariamente bene, ma oggi, quale tipo di lettore incontrerebbe un romanzo che si apre con una dissertazione su Nietzsche e Parmenide? Quale potrebbe essere il suo target, per dirla prosaicamente? Non voglio dire che oggi il lettore sia più stupido o pigro, però...
Un'altra cosa mi ha colpito: all'inizio della seconda parte, quella dedicata al personaggio di Teresa, l'autore dichiara che uno scrittore non deve avere la pretesa di spacciare i personaggi di un suo romanzo come persone reali. "Non sono certo stati partoriti dal grembo di una donna", ecc.
Questa posizione verrà estremizzata ne "L'immortalità", dove il gioco si farà ancora più scoperto (senza tuttavia diventare pirandelliano).
Di nuovo, non ho potuto fare a meno di stupirmi del coraggio dell'autore - del genio dell'autore - che si fa beffe di una delle regole fondamentali della "fiction". E non ho potuto non pensare di nuovo all'assurdità di un'affermazione che ho letto recentemente, in bocca a non so quale intellettuale, per cui il romanzo starebbe morendo in quanto i lettori oggi hanno fame di vite reali (una volta un editore mi respinse una proposta con la stessa motivazione: "Oggi 'tirano' le biografie romanzate, non c'è più spazio per l'invenzione pura...").
Che sciocchezza. Come non vedere che i personaggi delle commedie umane di Kundera dicono, della vita reale che conduciamo ogni giorno, assai più di tanti "reality"? Come non capire che persino l'arte più astratta - persino un taglio su una tela - può dirci, della nostra realtà (del nostro svegliarci al mattino, del nostro andare a dormire la sera, dei nostri amori, dei nostri odi, dei nostri tostapane, dei nostri smarrimenti) proprio le cose che abbiamo bisogno di sentirci dire? E soprattutto: la realtà non è forse la sua interpretazione/rappresentazione/narrazione?
Riprendendolo in mano l'altro giorno ho messo a fuoco il fatto che questo romanzo si apre con due pagine dedicate all'idea dell'eterno ritorno in Nietzsche. Non ho potuto fare a meno di chiedermi se oggi qualcuno pubblicherebbe un libro così, sperando magari anche di farne un best seller. Voglio dire: è scritto straordinariamente bene, ma oggi, quale tipo di lettore incontrerebbe un romanzo che si apre con una dissertazione su Nietzsche e Parmenide? Quale potrebbe essere il suo target, per dirla prosaicamente? Non voglio dire che oggi il lettore sia più stupido o pigro, però...
Un'altra cosa mi ha colpito: all'inizio della seconda parte, quella dedicata al personaggio di Teresa, l'autore dichiara che uno scrittore non deve avere la pretesa di spacciare i personaggi di un suo romanzo come persone reali. "Non sono certo stati partoriti dal grembo di una donna", ecc.
Questa posizione verrà estremizzata ne "L'immortalità", dove il gioco si farà ancora più scoperto (senza tuttavia diventare pirandelliano).
Di nuovo, non ho potuto fare a meno di stupirmi del coraggio dell'autore - del genio dell'autore - che si fa beffe di una delle regole fondamentali della "fiction". E non ho potuto non pensare di nuovo all'assurdità di un'affermazione che ho letto recentemente, in bocca a non so quale intellettuale, per cui il romanzo starebbe morendo in quanto i lettori oggi hanno fame di vite reali (una volta un editore mi respinse una proposta con la stessa motivazione: "Oggi 'tirano' le biografie romanzate, non c'è più spazio per l'invenzione pura...").
Che sciocchezza. Come non vedere che i personaggi delle commedie umane di Kundera dicono, della vita reale che conduciamo ogni giorno, assai più di tanti "reality"? Come non capire che persino l'arte più astratta - persino un taglio su una tela - può dirci, della nostra realtà (del nostro svegliarci al mattino, del nostro andare a dormire la sera, dei nostri amori, dei nostri odi, dei nostri tostapane, dei nostri smarrimenti) proprio le cose che abbiamo bisogno di sentirci dire? E soprattutto: la realtà non è forse la sua interpretazione/rappresentazione/narrazione?
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Non eroi
Ieri su "Repubblica" c'era un pezzo di Pietro Citati sui medici del CUAMM, che operano in Africa. Casualmente, ieri l'altro ero in un ospedale del CUAMM, in Etiopia. Il pezzo di Citati diceva una cosa abbastanza condivisibile, cioé che mentre l'Italia ci fa vergognare di essere italiani, specie quando andiamo all'estero (e ci scambiano per berluschini o per leghisti), realtà come quella del CUAMM ci riconciliano un po' con il nostro paese. Il pezzo di Citati era infiorettato di citazioni bibliche: io che credente non sono (anche se ho visitato missioni in mezzo mondo), non me la sento di giustificare l'impegno nel sociale con argomentazioni spirituali o teologiche. Penso che per comportarsi bene, generosamente, con il proprio prossimo, non siano strettamente necessarie una fede e una religione (anche se probabilmente queste cose aiutano, gli uomini hanno bisogno di motivazioni superiori per agire rettamente).
Semmai avrei da aggiungere una cosa: le persone che ho incontrato in Africa (e che ho incontrato in passato in circostanze analoghe) non sono propriamente degli eroi. Fanno delle cose eroiche, questo sì: ma non sono eroi/eroine o santi/e. Sono esseri umani, tutti, religiosi e laici. Con le loro passioni e le loro debolezze, con il loro più o meno pronunciato sense of humor, con i loro ego più o meno sovradimensionati.
In un certo senso, li sento anche più vicini. Non c'è bisogno di nuovi eroi. Né di nuovi santi. Non c'è bisogno di unti dal Signore né di partiti dell'amore. Le persone "grandi" a volte sono tremendamente normali, persino piccine. La loro umanità, in ciò, ne esce rafforzata. E così la nostra.
Guardava la Rift valley
20 anni dopo (Raymond Carver)
Che cosa rimane, 20 anni dopo avere scoperto un autore come Raymond Carver? Cos'è che ti rimane impresso, conficcato nel tessuto molle della memoria? Rimane lo stile. Di Carver alla fine rimane questo, è questo che evoca il suo cognome, lo stile asciutto ("tagliavo fino all'osso, poi tagliavo ancora"), anche se poi, un po' dopo la sua morte, è venuto fuori che non era proprio tutta farina del suo sacco, che l'editore ci aveva messo del suo (del resto, ciò è ininfluente).
Ma 20 anni fa non era così. Quando avevi letto "Cattedrale" per la prima volta c'era anche dell'altro che ti aveva colpito. Quell'umanità dolente, incolpevole, ignara di sé, poco incline all'autoanalisi, poco avvezza alle elaborate riflessioni. L'umanità americana di commessi viaggiatori, disoccupati, coppie scoppiate, uomini alle prese con problemi di alcol. Niente di francese, niente sesso sfrenato, niente invettive, parentesi nelle vite di gente qualunque, con modeste ambizioni, un attaccamento alla vita del tutto istintivo, un riflesso condizionato, si direbbe, e sullo sfondo camere anonime come nei dipinti di Edward Hooper, rive di torrenti dove pescare trote iridate in quella luce incerta del crepuscolo che solo gli americani sanno descrivere, il sublime nel paesaggio delle periferie, un filo di fumo che si alza nel turchino, il Kerouac del dottor Sax.
20 anni fa ti aveva impressionato il contenuto più della forma. Empatia. Una comprensione immediata. Un racconto di Carver avrebbe potuto quasi...non cambiarti la vita, non in assoluto, ma spiegartela sì. Avrebbe potuto illuminare il tuo senso del tragico affogato nel quotidiano, il tuo stesso smarrimento, come pure l'epifania racchiusa in un dettaglio di case e appartamenti che hai visto sfrecciare di là dal vetro del treno in corsa, il dolore e il divertimento a cui sentivi di essere destinato, come se tutto fosse già scritto.
Per quello mi fanno ridere coloro che parlano della letteratura come di un genere morto, perché oggi alla gente interesserebbe la vita reale, il reality. Come non vedere che le storie "inventate" raccontate da un grande scrittore sono più reali della vita reale? Come non vedere che è il reality ad essere finto?
Conclusioni
Prima non vedevo le somiglianze, i calchi, il filo rosso dell'ereditarietà. Accecato dal risentimento e forse dai sensi di colpa, in assoluto i peggiori compagni di viaggio. Dicevo sempre che avevo preso da lei. Da mia madre. Niente da lui. Non la sua allegria, non quella che mi sembrava, evidentemente, la sia leggerezza, la sua mancanza di pianificazione, di preveggenza, il rifiuto delle responsabilità connesse al denaro, che non aveva mai.
Adesso, giorno dopo giorno mi sento trascinato nel gorgo delle nostre comuni esistenze, di là dal tempo e dalla morte. C'è chi lo chiama destino, chi portato biologico, il codice inscritto nel filamento del dna. C'è chi la chiama chimica, un altro modo di nominare il mistero.
Vedo sempre ciò che ci allontana, certo; ma adesso vedo anche ciò che ci accomuna, ciò che ci avrebbe potuto avvicinare. L'irrequietezza, l'insoddifazione per il proprio lavoro. Il diprezzo per la mediocrità. Il bisogno di un riconoscimento sociale ed insieme il bisogno di qualcosa che gratifichi lo spirito, una causa per la quale battersi. L'essere sempre "contro", nell'intimo, nel pozzo bilioso dove si aggirano le nostre più cupe pulsioni di libertà e forse, il desiderio di solitudine. Il suo modo di fronteggiarla, la solitudine, di tenere a bada i demoni. Il bisogno di affetto. La difficoltà a dirlo, ed insieme il suo stare disarmato di fronte a qualche donna, "con i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi", avrebbe cantato Dylan, e poi il sottrarsi con un guizzo d'orgoglio, quello che poi lo avrebbe costretto a pentirsi, forse, quello che lo avrebbe costretto agli infiniti ripensamenti notturni.
Questo, vedo anche questo. E vedo la pigrizia, la nemica delle ambizioni. Il piacere provato nell'uscire, per strada, il piacere di camminare, il piacere di svolgere un'attività apparente, che lasci il tempo di pensare ai fatti propri, una certa inclinazione filosofica, mortificata nella società odierna, dove il pensare conta pochissimo rispetto al fare (si veda com'è ridotto il giornalismo, specie quello televisivo). Vedo sprazzi di timidezza, in lui, come in me, ma più sanguigno lui di me, più irruento, emotivo, meno abituato a sopportare, meno capace di venire a patti, entrambi irritabili, ma io ringhio fra me, mi divoro, lui esplodeva, aggrediva.
Questa riflessione è iniziata il giorno della sua scomparsa e non finirà mai.
Adesso, giorno dopo giorno mi sento trascinato nel gorgo delle nostre comuni esistenze, di là dal tempo e dalla morte. C'è chi lo chiama destino, chi portato biologico, il codice inscritto nel filamento del dna. C'è chi la chiama chimica, un altro modo di nominare il mistero.
Vedo sempre ciò che ci allontana, certo; ma adesso vedo anche ciò che ci accomuna, ciò che ci avrebbe potuto avvicinare. L'irrequietezza, l'insoddifazione per il proprio lavoro. Il diprezzo per la mediocrità. Il bisogno di un riconoscimento sociale ed insieme il bisogno di qualcosa che gratifichi lo spirito, una causa per la quale battersi. L'essere sempre "contro", nell'intimo, nel pozzo bilioso dove si aggirano le nostre più cupe pulsioni di libertà e forse, il desiderio di solitudine. Il suo modo di fronteggiarla, la solitudine, di tenere a bada i demoni. Il bisogno di affetto. La difficoltà a dirlo, ed insieme il suo stare disarmato di fronte a qualche donna, "con i miei occhi di magazzino, i miei tamburi arabi", avrebbe cantato Dylan, e poi il sottrarsi con un guizzo d'orgoglio, quello che poi lo avrebbe costretto a pentirsi, forse, quello che lo avrebbe costretto agli infiniti ripensamenti notturni.
Questo, vedo anche questo. E vedo la pigrizia, la nemica delle ambizioni. Il piacere provato nell'uscire, per strada, il piacere di camminare, il piacere di svolgere un'attività apparente, che lasci il tempo di pensare ai fatti propri, una certa inclinazione filosofica, mortificata nella società odierna, dove il pensare conta pochissimo rispetto al fare (si veda com'è ridotto il giornalismo, specie quello televisivo). Vedo sprazzi di timidezza, in lui, come in me, ma più sanguigno lui di me, più irruento, emotivo, meno abituato a sopportare, meno capace di venire a patti, entrambi irritabili, ma io ringhio fra me, mi divoro, lui esplodeva, aggrediva.
Questa riflessione è iniziata il giorno della sua scomparsa e non finirà mai.
Buon compleanno, mr. Lou
Compie 68 anni Lou Reed, poeta e rock n roll animal.
Vorrei essere nato mille anni fa
vorrei avere navigato per mari oscuri
su un grande veliero
andando una terra all’altra,
vesto abito e cappello da marinaio!
Via dalla grande metropoli
dove un uomo non può essere libero
da tutti i demoni di questa città
e da se stesso e da quelli che lo circondano
e so solo di non sapere
so soltanto di non sapere...
John Cale "(I keep a) close watch"
I keep a close watch on this heart of mine
I keep a close watch on this heart of mine
Hokusai - la pescatrice e la piovra
Uno dei dipinti erotici più conturbanti. L'autore è il maestro giapponese Katsushika Hokusai (1760-1849), autore della celebre "Grande onda" e delle 100 vedute del Monte Fuji. Pare che approdando in Europa l'opera abbia creato grande scandalo, forse alimentando l'idea di un Oriente "licenzioso", mentre anche in Giappone come da noi, dopotutto, probabilmente si affidavano all'arte tematiche che altrimenti la società continuava a considerare tabù.
Sia come sia, la potenza della rappresentazione è innegabile.
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Lunedì sera sono arrivati a Trento una decina di bambini da Haiti, con le loro madri. In poco più di 24 ore, da un'isola dei Caraibi, distrutta da un terremoto, ad una città alpina, nel cuore dell'Europa. Dalle umide correnti tropicali al freddo terso ammantato di neve.
La Croce Rossa ha dato loro vestiti invernali. Naturalmente non avevano mai visto vestiti del genere. In generale, non avevano mai visto proprio nulla del genere, compresa la neve che ammanta le nostre montagne.
Romano Magrone ha colto questa immagine.
I bambini sono afflitti da malattie croniche, preesistenti al terremoto, che ora non possono essere curate in patria. Rimarranno per un periodo minimo di sei mesi. Fanno parte di un gruppo più ampio di 130 persone, arrivato domenica in Italia, in base agli accordi presi dalla Croce Rossa internazionale con il governo haitiano e con i Paesi ospitanti. In Trentino è in corso una raccolta fondi per sostenere progetti di solidarietà anche ad Haiti, attraverso associazioni che operano sull'isola.
Per chi fosse interessato, le news sono qui.
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Il freddo delle pecore
- Sai come si chiama, no?
Ho detto: no
- Si chiama il freddo delle pecore. Perché in questa stagione ormai le pecore le hanno già tosate, poi all'improvviso torna il freddo e loro hanno freddo, poverelle, tremano vicine vicine...
Aveva fatto il gesto, nel parlare, di stringersi i gomiti ai fianchi, serrando i pugni. Sembrava una bambina.
Mi sono sdraiata di pancia sulla panca del legs curl. Ho agganciato l'attrezzo con i talloni, stringendo contemporaneamente i manubri. Poi l'ho tirato su. Guardavo i pesi andare e venire davanti al mio naso, una volta due volte, tre volte...
La regolarità dell'esercizio è tutto, la regolarità della respirazione, la ripetizione dei movimenti, ho pensato che tutte le cose piacevoli devono essere così, ripetibili, devono avere un ritmo regolare.
Alla quindicesima ho smesso, è l'esercizio più faticoso, veramente. Ancora una serie, poi mi sarei data ai glutei e infine agli addominali.
Mara tornò con una bottiglietta d'acqua in mano. Sì, sembrava proprio una bambina, o meglio, una ragazzina, aveva 33 anni e un fisico da 19, magro, minuto. Dietro di lei è comparso anche Ares. Come istruttore è svogliato; strano, per essere così giovane, sta quasi sempre di là al bancone, a sfogliare giornali e a guardare il pc, finge di preparare nuove tabelle, secondo me finge, ma quando c'è Mara...
Quando c'è Mara, quando c'è Mara. Quando c'è Mara, quando c'è Mara.
Uscite c'era ancora il vento, freddo, teso. Il temporale era venuto avanti lento, trascinandosi per tutto il pomeriggio, con impercettibili cambiamenti nella luce diffusa del cielo, dall’azzurro camicia al livido biancore, con scuraglie improvvise dietro alle montagne. E adesso tutta quella elettricità e tensioni stava per trovare sfogo, ma non ancora, ho pensato che avrei fatto in tempo ad accompagnarla a casa e forse anche ad arrivare fino a casa mia, prima che piovesse. Che poi forse non avrebbe piovuto affatto.
Ho premuto il tasto sulla chiave. Le porte dell’auto si sono aperte con un rumore caratteristico e il lampeggiare di spie luminose. Mi sono riempita bocca e polmoni di aria umida prima di salire.
All’improvviso, mi sono resa conto che ero stata molto felice, qualche minuto prima. Per due o tre secondi. La felicità mi aveva attraversato dopo l'ultimo esercizio, aveva guizzato fra i muscoli doloranti e le molle della macchina. Felicità per niente, per la doccia che stavamo per fare, perché era venerdì. L’attimo della chiara consapevolezza di essere solo una persona, di appartenere solo a me stessa, di avere, in fin dei conti, il pieno possesso, la piena sovranità su me stessa. Di non appartenere a lei o a lui o ai ragazzi, alle paure che accompagnano ogni momento della mia esistenza, agli obblighi lavorativi e familiari, all’incalzare del tempo, alle infinite indecisioni.
Durava solo qualche secondo, certo, è comprensibile, lo capisco bene, io, capisco bene tutto, non come Mara, che non ha responsabilità su niente e nessuno. Però, se potesse durare di più. Se solo ci fosse il modo di conciliare tutte le cose, tutti gli amori, tutti i desideri che desideriamo e le persone che vorremmo fossero sempre con noi, al punto che vorremmo tenerle in un taschino, il nostro taschino segreto.
Ho fatto una cosa che non faccio mai in pubblico, ho abbracciato Mara, ho sentito il calore del suo corpo e il profumo del sapone sul suo collo. Lei mi ha accarezzato i capelli. Ci siamo baciate. Mi veniva la pelle d'oca.
Poi ho guidato piano fino a casa sua. E quindi ho guidato piano fino a casa mia, in tempo per preparare la cena a mio marito e ai miei figli.
Da La calda notte degli avatar, romanzo di racconti brevi in cerca di editore (lo so, non ci crede nessuno, ma quando ho scelto il titolo DAVVERO ignoravo che si stesse preparando un film intitolato Avatar)
Ho detto: no
- Si chiama il freddo delle pecore. Perché in questa stagione ormai le pecore le hanno già tosate, poi all'improvviso torna il freddo e loro hanno freddo, poverelle, tremano vicine vicine...
Aveva fatto il gesto, nel parlare, di stringersi i gomiti ai fianchi, serrando i pugni. Sembrava una bambina.
Mi sono sdraiata di pancia sulla panca del legs curl. Ho agganciato l'attrezzo con i talloni, stringendo contemporaneamente i manubri. Poi l'ho tirato su. Guardavo i pesi andare e venire davanti al mio naso, una volta due volte, tre volte...
La regolarità dell'esercizio è tutto, la regolarità della respirazione, la ripetizione dei movimenti, ho pensato che tutte le cose piacevoli devono essere così, ripetibili, devono avere un ritmo regolare.
Alla quindicesima ho smesso, è l'esercizio più faticoso, veramente. Ancora una serie, poi mi sarei data ai glutei e infine agli addominali.
Mara tornò con una bottiglietta d'acqua in mano. Sì, sembrava proprio una bambina, o meglio, una ragazzina, aveva 33 anni e un fisico da 19, magro, minuto. Dietro di lei è comparso anche Ares. Come istruttore è svogliato; strano, per essere così giovane, sta quasi sempre di là al bancone, a sfogliare giornali e a guardare il pc, finge di preparare nuove tabelle, secondo me finge, ma quando c'è Mara...
Quando c'è Mara, quando c'è Mara. Quando c'è Mara, quando c'è Mara.
Uscite c'era ancora il vento, freddo, teso. Il temporale era venuto avanti lento, trascinandosi per tutto il pomeriggio, con impercettibili cambiamenti nella luce diffusa del cielo, dall’azzurro camicia al livido biancore, con scuraglie improvvise dietro alle montagne. E adesso tutta quella elettricità e tensioni stava per trovare sfogo, ma non ancora, ho pensato che avrei fatto in tempo ad accompagnarla a casa e forse anche ad arrivare fino a casa mia, prima che piovesse. Che poi forse non avrebbe piovuto affatto.
Ho premuto il tasto sulla chiave. Le porte dell’auto si sono aperte con un rumore caratteristico e il lampeggiare di spie luminose. Mi sono riempita bocca e polmoni di aria umida prima di salire.
All’improvviso, mi sono resa conto che ero stata molto felice, qualche minuto prima. Per due o tre secondi. La felicità mi aveva attraversato dopo l'ultimo esercizio, aveva guizzato fra i muscoli doloranti e le molle della macchina. Felicità per niente, per la doccia che stavamo per fare, perché era venerdì. L’attimo della chiara consapevolezza di essere solo una persona, di appartenere solo a me stessa, di avere, in fin dei conti, il pieno possesso, la piena sovranità su me stessa. Di non appartenere a lei o a lui o ai ragazzi, alle paure che accompagnano ogni momento della mia esistenza, agli obblighi lavorativi e familiari, all’incalzare del tempo, alle infinite indecisioni.
Durava solo qualche secondo, certo, è comprensibile, lo capisco bene, io, capisco bene tutto, non come Mara, che non ha responsabilità su niente e nessuno. Però, se potesse durare di più. Se solo ci fosse il modo di conciliare tutte le cose, tutti gli amori, tutti i desideri che desideriamo e le persone che vorremmo fossero sempre con noi, al punto che vorremmo tenerle in un taschino, il nostro taschino segreto.
Ho fatto una cosa che non faccio mai in pubblico, ho abbracciato Mara, ho sentito il calore del suo corpo e il profumo del sapone sul suo collo. Lei mi ha accarezzato i capelli. Ci siamo baciate. Mi veniva la pelle d'oca.
Poi ho guidato piano fino a casa sua. E quindi ho guidato piano fino a casa mia, in tempo per preparare la cena a mio marito e ai miei figli.
Da La calda notte degli avatar, romanzo di racconti brevi in cerca di editore (lo so, non ci crede nessuno, ma quando ho scelto il titolo DAVVERO ignoravo che si stesse preparando un film intitolato Avatar)
LUI ERA COSI'
Non riesco a non pensare a Salinger. Non so perché, non sono mai stato davvero un suo fan, ho letto Il giovane Holden da giovane come migliaia di altri giovani, e i pesci banana e poco altro (ha scritto poco altro), eppure non riesco a non pensarci. Ma non scriveva da decenni, artisticamente è come se fosse morto negli anni '60, no? Non so, ci sono persone, ci sono figure che sei contento che esistano,e basta, non importa cosa facciano, non importa nemmeno conoscerle o meno, basta sapere che sono lì da qualche parte, e adesso mi spiace, all'improvviso, pensare che i più lo ricorderanno per quella foto straziante rubata all'uscita di un supermercato, tutta la rabbia cieca di un vecchio, tutta l'indignazione di un vecchio stanato, ma lui com'era veramente? Era così. Non solo un ex-scrittore di successo misantropo. Aveva fatto lo sbarco in Normandia, aveva avuto dei figli. E' stato anche così.
(la foto è rubara al blog di Manuela Ardingo, che ringrazio)
Il giovane Holden e il professor Antolini, la citazione
Ecco la citazione esatta, a cui mi riferivo nel post precedente. Mi era rimasta così impressa perché...beh, a parte il meccanismo dell'identificazione, ovviamente, è più o meno quello che avrei voluto mi dicesse un insegnante quando ero al ginnasio, per spronarmi a leggere e a studiare. E forse, in qualche modo, probabilmente obliquo e contorto, me lo avevano anche detto. Ma Salinger lo ha detto meglio. Sempre gli scrittori americani ci hanno detto le cose meglio. Meglio dei nostri insegnanti e meglio di Calvino, Moravia, Silone, Gadda, Pasolini, Morante (e forse solo con la parziale eccezione di Pavese, un altro superdepresso).
Allora, nel suo peregrinare Holden Caulfield è approdato alla casa del professor Antolini, un suo insegnante. Che ad un certo punto dice cosi:
"D'accordo, i professori Vinson. Non appena ti sarai lasciato dietro tutti i professori Vinson, allora comincerai ad andare sempre più vicino, se sai volerlo, e se sai cercarlo e aspettarlo, a quel genere di conoscenza che sarà cara, molto cara al tuo cuore. Tra l'altro, scoprirai di non essere il primo che il comportamento degli uomini abbia sconcertato, impaurito e perfino nauseato. Non sei affatto solo a questo traguardo, e saperlo ti servirà d'incitamento e di stimolo. Molti, moltissimi uomini si sono sentiti moralmente e spiritualmente turbati come te adesso. Per fortuna, alcuni hanno messo nero su bianco quei loro turbamenti. Imparerai da loro...se vuoi. Proprio come un giorno, se tu avrai qualcosa da dare, altri impareranno da te. E' una bella intesa di reciprocità. E non è istruzione. E' storia. E' poesia."
Si interruppe e mandò giù un bel sorso di cocktail. Poi ricominciò. Ragazzi, era proprio partito in quarta."
Il caustico commento di Holden è il perfetto contrappunto adolescenziale al pistolotto del professore. E tuttavia, il pistolotto mantiene tutta la sua verità. Per nulla intaccata dal fatto che un paio di pagine dopo il professor Antolini cerchi di infilarsi nel letto di Holden, facendolo scappare a gambe levate.
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Chi afferrerà i bambini che precipitano dal campo di segale, adesso?
«Se una persona incontra una persona
Che si avvicina in un campo di segale,
Se una persona bacia una persona
Quella persona deve piangere? »
Robert Burns
Qualche anno fa Il giovane Holden era tornato di gran moda, complice Baricco, se non ricordo male. Poi divenne di gran moda dirne male, per far dispetto a Baricco.
Lui, Jerome, viveva isolato, c'è una sola foto in trenta forse cinquant'anni, un vecchio che picchia col pugno sul vetro di un'auto. Nell'era dei Grandi fratelli, manteneva fede al suo voto. Ostinata distanza dalle luci della società dello spettacolo.
Ricordo, della mia lettura giovanile del suo romanzo più celebre, il passaggio del professor Antolini. Non per l'avance gay che chiude l'incontro con Holden, ma per il discorso del professore. Non ho il libro sottomano, non posso citarlo. Ricordo che diceva come a volte nella giovinezza ci si senta male, ci si senta arrabbiati, a disagio o disallineati, e come la lettura di certi libri possa aiutarti, perché ti farà scoprire che non sei solo, non sei l'unico a pensare certe cose, non sei solo. Questo più o meno diceva il professor Antolini al giovane Holden, forse in maniera sincera, forse perchè voleva farselo, forse un po' per entrambe le ragioni.
Non sono queste le parole giuste; del resto ne è passato di tempo...e non l'ho mai riletto.
Ma ricordo ancora cosa ho provato, a 15 anni, leggendo quel passaggio: non sono solo, ho pensato. E tutto sommato, continuo a pensarlo anche adesso (visto che quella dell'adolescenza mi sembra la più vetusta delle categorie. Voglio dire, c'è qualcuno che ha la presuzione di essere davvero cresciuto?).
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Cosa ti fa l'amore
Tornava a casa a piedi attraverso la città deserta, sentiva il rumore dei suoi passi, una sirena distante nella notte umida sotto un cielo come sempre arancione sopra i silos e le ciminiere slanciate, tornava a casa chiedendosi cosa ti fa l’amore, per prolungare ciò che aveva appena finito di vivere, per sentire ancora quell’abbraccio, quel calore, quel ferro straziante, anche adesso che era solo, e dunque, come ti cambia, come ti rovescia e ti rimette assieme, l’amore, come ti senti quando sei innamorato?
E pensava a ciò che lei gli aveva detto poco fa, alle cose che aveva svelato di lui, che gli aveva mostrato con un semplice gesto, come quello di alzare uno specchio, dicendo: “Sei molto sicuro di te”, oppure “Sei un po’ violento”, oppure “Sei vanitoso”, e lui che non aveva mai immaginato di essere sicuro, violento o vanitoso era rimasto sospeso a mezz’aria, su di lei, sospeso sul suo viso perfetto, sui seni piccoli, sulle sue spalle bianche, chiedendosi quale cannocchiale o scandaglio lei avesse usato per vedere quelle cose, e se le avesse trovate davvero o se tirasse a indovinare, ma no, aveva tutta l’aria di chi sa, ne sapeva più lei di lui, senz’altro, o per lo meno sapeva di lui cose che lui stesso aveva sempre ignorato, allora questa è una cosa che l’amore ti fa, l’amore ti rivela a te stesso.
E poi imboccando il viale ventoso che non poteva evitare a meno di attraversare la zona industriale aveva pensato anche ad dolore che aveva iniziato a sentire ancor prima di lasciarla, ancor prima della borsa e del treno, il dolore della separazione che sapeva sarebbe durata almeno una settimana, forse una settimana, o forse di più, non vi erano certezze in proposito, e alle conferme che avrebbe atteso da lei, durante tutto quel tempo, con il telefono, le mail, i simulacri che l’elettronica aveva brevettato per lenire il dolore degli amanti, e questa è un’altra cosa che l’amore ti fa, ti leva la pelle, ti espone in cima a una collina, tutto nudo, rosso e bruciato dai venti e torturato e inconsolato, questa è una cosa che l’amore ti fa, ti spinge a desiderare una conferma quando è lontana, ma una non basta, vorresti avere una conferma per ogni ora che non trascorri assieme a lei, per ogni minuto che vi separa, vorresti una conferma ogni minuto, l’amore ti espone e ti fa sanguinare copiosamente.
E poi, già oltre il parco, in vista di casa, aveva pensato a come il suo corpo si alza e cammina per la stanza dopo avere gravato su quello di lei, aveva pensato a quella sensazione di forza, a come le spalle si drizzano, a come la schiena si drizza e le braccia stanno un po’ lontano dai fianchi come se avesse appena finito di fare uno sforzo fisico come costruire un muro o demolire un muro, aveva pensato alla forza che l’amore infonde, e questa dunque era un’altra cosa ancora, un’altra cosa che l’amore ti fa, quando puoi stringerlo fra le tue braccia, quando puoi stringerle la gola con il palmo della mano, quando puoi accarezzarle i capelli o lasciare segni sui fianchi, questo ti fa l’amore, ti fa sentire come un predatore un esploratore un operaio un minatore, pieno di fierezza e di coraggio, questo ti fa.
Alzò lo sguardo al cielo perché è il cielo il luogo degli innamorati le costellazioni sfavillanti e tutti quei satelliti. Era felice di essere lì e adesso e di vivere, vivere, vivere.
from: "La calda notte degli avatar" (nulla a che fare con il fottuto film dysneiano)
E pensava a ciò che lei gli aveva detto poco fa, alle cose che aveva svelato di lui, che gli aveva mostrato con un semplice gesto, come quello di alzare uno specchio, dicendo: “Sei molto sicuro di te”, oppure “Sei un po’ violento”, oppure “Sei vanitoso”, e lui che non aveva mai immaginato di essere sicuro, violento o vanitoso era rimasto sospeso a mezz’aria, su di lei, sospeso sul suo viso perfetto, sui seni piccoli, sulle sue spalle bianche, chiedendosi quale cannocchiale o scandaglio lei avesse usato per vedere quelle cose, e se le avesse trovate davvero o se tirasse a indovinare, ma no, aveva tutta l’aria di chi sa, ne sapeva più lei di lui, senz’altro, o per lo meno sapeva di lui cose che lui stesso aveva sempre ignorato, allora questa è una cosa che l’amore ti fa, l’amore ti rivela a te stesso.
E poi imboccando il viale ventoso che non poteva evitare a meno di attraversare la zona industriale aveva pensato anche ad dolore che aveva iniziato a sentire ancor prima di lasciarla, ancor prima della borsa e del treno, il dolore della separazione che sapeva sarebbe durata almeno una settimana, forse una settimana, o forse di più, non vi erano certezze in proposito, e alle conferme che avrebbe atteso da lei, durante tutto quel tempo, con il telefono, le mail, i simulacri che l’elettronica aveva brevettato per lenire il dolore degli amanti, e questa è un’altra cosa che l’amore ti fa, ti leva la pelle, ti espone in cima a una collina, tutto nudo, rosso e bruciato dai venti e torturato e inconsolato, questa è una cosa che l’amore ti fa, ti spinge a desiderare una conferma quando è lontana, ma una non basta, vorresti avere una conferma per ogni ora che non trascorri assieme a lei, per ogni minuto che vi separa, vorresti una conferma ogni minuto, l’amore ti espone e ti fa sanguinare copiosamente.
E poi, già oltre il parco, in vista di casa, aveva pensato a come il suo corpo si alza e cammina per la stanza dopo avere gravato su quello di lei, aveva pensato a quella sensazione di forza, a come le spalle si drizzano, a come la schiena si drizza e le braccia stanno un po’ lontano dai fianchi come se avesse appena finito di fare uno sforzo fisico come costruire un muro o demolire un muro, aveva pensato alla forza che l’amore infonde, e questa dunque era un’altra cosa ancora, un’altra cosa che l’amore ti fa, quando puoi stringerlo fra le tue braccia, quando puoi stringerle la gola con il palmo della mano, quando puoi accarezzarle i capelli o lasciare segni sui fianchi, questo ti fa l’amore, ti fa sentire come un predatore un esploratore un operaio un minatore, pieno di fierezza e di coraggio, questo ti fa.
Alzò lo sguardo al cielo perché è il cielo il luogo degli innamorati le costellazioni sfavillanti e tutti quei satelliti. Era felice di essere lì e adesso e di vivere, vivere, vivere.
from: "La calda notte degli avatar" (nulla a che fare con il fottuto film dysneiano)
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Lali Puna
L'avevamo già visto a New Orleans
Ieri, intervistato da Lucia Annunziata sulla situazione di Haiti per la trasmissione tv Rai "In mezz'ora", Bertolaso - che è anche sottosegretario - ha detto: "Oggi si prende atto di un fallimento del sistema".
"Ci sono enormi organizzazioni coinvolte e moltissimo da fare, ma la situazione è patetica, e tutto si sarebbe potuto gestire molto meglio", ha detto ancora il numero uno della Protezione civile, aggiungendo che le autorità haitiane "siano state emarginate" e criticando gli Usa: "Gli americani non possono che avere la leadership di questa emergenza, ma hanno bisogno di un 'Obama dell'emergenza', che evidentemente non sono riusciti a trovare".
"Si viene qui, si dà un po' da mangiare, bere e il problema per loro è risolto, ma è una contraddizione se non si pongono le basi per la vita futura".
(Fonte: Reuters)
C'è da stupirsi? Tutto questo l'avevamo già visto a New Orleans. L'America non è attrezzata per intervenire in queste situazioni. Grande sfoggio di elicotteri e marines in spolvero, e poi? Probabilmente non hanno neanche idea di cosa significhi cooperare, cioé fare assieme. Per quertso Bertolaso lamenta l'esclusione degli haitiani. L'attegiamento è paternalista, sempliciotto, superficiale. Povera Haiti, una volta di più in mano agli yankees...
"Ci sono enormi organizzazioni coinvolte e moltissimo da fare, ma la situazione è patetica, e tutto si sarebbe potuto gestire molto meglio", ha detto ancora il numero uno della Protezione civile, aggiungendo che le autorità haitiane "siano state emarginate" e criticando gli Usa: "Gli americani non possono che avere la leadership di questa emergenza, ma hanno bisogno di un 'Obama dell'emergenza', che evidentemente non sono riusciti a trovare".
"Si viene qui, si dà un po' da mangiare, bere e il problema per loro è risolto, ma è una contraddizione se non si pongono le basi per la vita futura".
(Fonte: Reuters)
C'è da stupirsi? Tutto questo l'avevamo già visto a New Orleans. L'America non è attrezzata per intervenire in queste situazioni. Grande sfoggio di elicotteri e marines in spolvero, e poi? Probabilmente non hanno neanche idea di cosa significhi cooperare, cioé fare assieme. Per quertso Bertolaso lamenta l'esclusione degli haitiani. L'attegiamento è paternalista, sempliciotto, superficiale. Povera Haiti, una volta di più in mano agli yankees...
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Nick Hornby - Juliet, Naked
Ho iniziato l'anno leggendo questo nuovo romanzo di Nick Hornby, titolo italiano, assai banale, "Tutta un'altra musica", titolo originale, "Juliet, naked", come il titolo del disco di maggior successo di Tucker Crowe, protagonista della storia, una sorta di Springsteen in minore.
Ero a Bath, l'ho letto nei ritagli di tempo, e nonostante i ritagli fossero pochi (in quattro giorni, uno cerca di vedere il più possibile), l'ho divorato prima della fine del viaggio. Questa è una delle peculiarità dei libri di Hornby: sono dei perfetti meccanismi narrativi, agganciano il lettore e se lo portano a spasso dalla prima all'ultima pagina, azzerando divagazioni e tempi morti, tenendo fieramente testa alle seduzioni esercitate da altri intrattenimenti culturali, da internet alla tv ai videogiochi (per quelli a cui piacciono i videogiochi, e li considerano intrattenimenti culturali). Esiterei col dire che sono dei capolavori: ma parlano della realtà dei tempi nostri, senza gli eccessi grandguignoleschi di autori come Palahniuk, senza la magniloquenza di tanti italiani, senza timori reverenziali. Ad esempio, come si parla di musica rock o di web in queste pagine: normalmente, senza che si avverta la necessità di "nobilitare" la materia (che senza dubbio gli scrittori del nostro paese troverebbero prosaica, si pensi a un Baricco). E poi, alcuni ritratti fulminanti di adulti per i quali, cito a memoria, film e concerti continuano a rappresentare qualcosa di importante, di un po' troppo importante (per chi dovrebbe avere raggiunto l'età della maturità). Sulla scia di altri personaggi che abbiamo già conosciuto, in "Non buttiamoci giù", ad esempio, o in "Un ragazzo".
Questa volta il ritratto generazionale è affidato ad un rocker scoppiato, ex-alcolista, impegnato a destreggiarsi fra i numerosi figli seminati per strada (e fra le loro madri), oggetto di culto per una manciata di persone "disturbate" sparse per il mondo, che si ritrovano in un sito internet. Ma soprattutto, ad uno dei suoi fan, un insegnante inglese che considera normale spendere le ferie per andare a visitare alcuni dei luoghi della "mitologia" legata a un cantante che non incide più da 20 anni, luoghi come i gabinetti di un bar o la casa della ex-moglie (la Juliet del titolo originario).
Quest'ultimo, in particolare - il fan, voglio dire - è un personaggio oltremodo riuscito, in cui molti noi rocker ultraquarantenni possiamo, forse nostro malgrado, specchiarci, almeno un po'. Sorridendo di noi stessi e delle passioni che ci siamo portati appresso dall'adolescenza, impermeabili alle seduzioni dell'età adulta, agli hobby costosi, alle carriere, e soprattutto al bricolage. Ma anche la compagna del fan - che in uno scarto geniale della trama arriva realmente a conoscere l'oscuro oggetto del desiderio del partner, il "vero" Tucker Crowe - è altrettanto ben tratteggiato. Incatenata ad un'esistenza quotidiana che gli va stretta, in una cittaduccola di provincia, a fianco un uomo inconsistente, senza passioni, senza figli, senza sesso, suscita un moto di istintiva simpatia, per la sua intelligenza e per il suo "coraggio", che è poi il coraggio di tutti quelli che, nonostante tutto, ci provano a cambiare in meglio la loro vita, senza eroismi, a volte maldestramente, comprando i regali sbagliati, o facendo troppo castelli in aria.
Alcuni gruppi di lettura hanno giudicato l'atmosfera di questo romanzo (ambientato in parte in una piccola località di mare inglese) decadente. Per me, non sanno cosa significa la letteratura decadente. Questo lavoro è come tutti gli altri di Hornby; divertente, arguto, "popolare" nel senso alto del termine. Trasuda quella naturale bonomia, persino quella sorta di compassione per l'umanità (nel senso letterale del termine) che è la cifra caratteristica dei libri dello scrittore, in cui non compare mai un cattivo veramente cattivo, in cui i suicidi generalmente falliscono, in cui comunque, il giorno dopo arriva sempre. Badando bene, insomma, a mantenere le distanze dai toni troppo cupi e tragici (per questo a Hornby piace la J.Geils band e non Lou Reed? Vabbé, questa è un'altra storia), e cesellando le ultime pagine con un finale "aperto", che mi ha fatto pensare, inaspettatamente, al "Candido" di Voltaire.
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