Pamuk, Brasov e la città perfetta (5) - down to earth

Foto: il kitsch socialista - Ceausescu

Aldo Busi, nel suo "Seminario sulla gioventù", dice che degli anni della giovinezza non rimane niente, non si ricorda niente. A me sembra vero il contrario. Ogni posto visto, ogni pietra, faccia, pettinatura, vestito, sigaretta, mano. Li senti venire, la notte, l’insonnia li raduna. Sono qui. Non passano mai.

Viaggiavamo nel ventre della notte transilvanica, via da Brasov, lontano dalla città perfetta nel boato del ricordo, destinata a ritornare sottoforma di meta asiatica, ancora più remota, nei miei sogni a venire, per anni e anni e anni, viaggiavamo cullati dal ritmo dell'acciaio sull'acciaio, via da Brasov, indietro verso l'Ovest, l'Occidente, l'Italia, via dai tetti aguzzi e dalle polveri nemmeno tanto sottili, via dalle strade senz'auto e dalle locande, facendo conoscenza con i nostri occasionali compagni di viaggio, divertiti dal libro su Dracula che stavo finalmente leggendo ("è un libro storico", spiegavamo). E in fondo alla notte raggiungemmo il confine.

L'alba si faceva attendere. I doganieri controllarono i passaporti, e con nostro grande stupore ci fecero scendere. No, non potevamo proseguire il viaggio. Perché? Ci spiegarono che avevamo bisogno di un nuovo visto per riattraversare l'Ungheria. "Ma non ci fermiamo, stiamo tornando in Italia!". Niente da fare. Dovevamo tornare indietro, di nuovo tutte le colline e i campi e le anse dei fiumi e le montagne della Transilvania, di nuovo le fabbriche, le miniere, le stazioni, i pali della luce inclinati, il cemento delle periferie, i tubi arruginiti, i depositi, le caserme, indietro fino a Bucarest, dove avremmo richiesto il visto all'ambasciata ungherese. Significava allungare il viaggio forse di una settimana. E nel frattempo avevamo speso tutti i soldi.

Non c'era un'alternativa? Non potevamo fare il visto lì, sul confine? Le guardie rumene si interrogavano. Infine, la sentenza: no, sul treno non si poteva fare. Potevamo forse fare il transit-visa alla frontiera attraversata dalla strada statale, che non si trovava lì, ma in un altro punto del confine, distante, 50, 100 chilometri, più o meno. E come ci si arrivava? Dovevamo dunque prendere un treno locale fino ad Arad, poi un altro fino alla sperduta località di Natlag, e di lì a piedi fino alla frontiera.

Salimmo su una tradotta notturna. La notte non finiva mai. Insetti strisciavano nei campi, pipistrelli si alzavano in volo come nuvole. Il vagone era pieno di operai che si recavano al lavoro, poveri spettri neri. Mi sono svegliato di soprassalto, senza realizzare che mi ero addormentato; ci stavano guardando, quelli seduti, quelli in piedi, tutti con la sigaretta fra le dita nere, tagliate, non so perché, credevo fossero controllori, agitato ho preso fuori di tasca il biglietto e il passaporto allungandoli al primo che mi stava davanti. Mi scrutò interrogativamente. Non erano nessuno, erano solo i pendolari dell'alba, che andavano ad alimentare gli altiforni. Non ci stavano guardando. Stavano pensando ai fatti loro, al paradiso dei lavoratori, agli orti o alle galline, o alla fica, che ne so.

Scendemmo ad Arad. Nella piazza di fronte alla stazione, la solita massima del presidente Ceausescu, sulle magnifiche sorti e progressive. Lasciammo i bagagli in stazione. Prendemmo un altro locale fino a Natlag, il punto di non-ritorno, il paese delle oche.

A Natlag ti controllavano i passaporti appena scendevi dal treno. Era una zona sensibile. Se arrivavi lì, o ci abitavi, a Natlag, o progettavi di scappare, attraverso le paludi. Ci informammo: sì, la frontiera era a pochi chilometri, bisognava attraversare la terra di nessuno. Bastava seguire la strada. Ma servivano delle foto. Avevamo le foto? No? In paese c'era un fotografo.

Natlag una visione rurale nella luce lattiginosa del mattino. Oche e strade sterrate. Trovammo il fotografo, un vecchietto piacevolemente sorpreso della nostra venuta. Aveva una vecchia macchina fotografica montata su un trepiede, delle gigantografie da usare come sfondi. Facemmo queste immagini di viaggio nel tempo, questi scatti professionali del 1940, poi ancora oche, nuvole, pozzanghere, treno, di ritorno ad Arad, a prendere i nostri bagagli, e quindi again sul lento convoglio pendolare, avanti e avanti nella pianura...

Arrivammo per la seconda volta a Natlag. Ci incamminammo sul ciglio della strada, ogni tanto lo spostamento d'aria di un camion, oche e uccelli sulle paludi asciugate dal sole estivo, lì la terra era davvero piatta. In fondo, finalmente, la frontiera ungherese. Sembrava mancasse ancora qualcosa, un turco lo stavano tartassando, più in là, gli facevano il culo, alla fine la sbarra si solleva, sentiamo le fanfare nelle orecchie, "ora ci arrestano", lasciamo la Romania con gli zaini in spalla, addio, addio, addio, addio!
Di là della linea di fuoco c'è un trenino fino a Szeghed, Seghedino. In stazione una coppia dalla Germania Est, dalla DDR in vacanza in Romania, questo gli era toccato in sorte, vacanze in Romania. E poi Budapest, colazione, l'occhio che affoga nel cappuccino, lo scazzo finale, per tutto quel tempo passato assieme, io e Luca, la voce che si alza, nel caos del troppo sonno, nel rumore, il labirinto, rumore di poco sonno nell'orecchio. E ancora, ancora treno, l'Italia, Venezia, ubriachi, sbattendo per il sonno sui vetri, le porte, i portabagagli, i controllori, lo stupore di ritrovarmi nella valle dell'Adige, le nostre montagne, ordinate, terrazzate, infine a casa, tre giorni e tre notti senza dormire.

"E allora?", mi chiesero, appena entrato. "Com'è?".
Avrebbero accettato la mancanza di libertà, la censura, Ceausescu, il kitsch, avrebbero accettato paludi, oche, fare qualche fila, ma non si ripresero quando dissi che erano più poveri di noi. Quindi non era propaganda.
Del resto, alla fin fine, mio padre non era mai stato comunista, ma socialista.
Dormii tutto il giorno. Mia madre mi svegliò per la cena, gridai: "Siamo in Italia?"
Non capivano tanta agitazione.
Scrissi una poesia.
Non so dove l'ho messa. Sono passati quasi 25 anni. Diceva (se ricordo bene, almeno l'inizio):

Tutti i posti stanno vicino al confine

sia di tetti aguzzi o profilo cesariano

sia morto di taglio cesareo

siamo stati fin lì.

Poi scrissi loro delle lettere, e ci perdemmo. Qualche anno dopo, la rivolta, cade Ceausescu, viene ucciso assieme alla moglie, parlano di un tesoro, di ricchezze nascoste, ma in verità lui aveva addosso un cappottino. Secondo me lo fecero fuori perché c'era mezza società rumena collusa. Come con Mussolini. Uccidi il capo per coprire tutti gli altri. Ma Herta Muller nei suoi libri parla di questi altri. Dei piccoli funzionari del partito che estorcevano alle donne favori sessuali per rilasciare un visto o portare avanti una pratica, di studentesse spinte al suicidio da un regime più ottuso che realmente criminale, di gente - come lei - licenziata dalle fabbriche di stato perché non accettava di collaborare con la polizia segreta, la Securitate, e poi di pregiudizi, miserie contadine, frattaglie di animali, prugne verdi, cuoricini d'oro nascosti negli orifizi del corpo e contrabbandati attraverso la frontiera ungherese. No, Ceausescu non aveva fatto l'uomo nuovo. L'uomo rimane la bestia solita, che sappiamo, nonostante i regimi, le ideologie, le religioni, l'uomo generalmente rimane quella cosa lì.

Ho pensato a Brasov dopo aver letto Neve, di Orhan Pamuk. Ambientato in un'altra città né grande né piccola, una città di provincia, fra colline o montagne, recinti di pecore, attraversata da strade più o meno asfaltate. Mi ha accompagnato durante la lezione del ricordo la lettura di un altro libro, Il paese delle prugne verdi, di Herta Muller, pubblicato quest'anno da Keller ed. , una casa editrice di Rovereto. Non c'è nulla di drammatico nel mio ricordo, nulla come il golpe degli attori di Pamuk o il suicidio della Muller.

Ora che ho finito mi accorgo che dovrei mettermi in viaggio.

Però attenzione. Attenzione, attenzione, attenzione. C'è miseria anche di qua. Ci sono trapianti di capelli e scarpe col rialzo, barzellette sui desaparecidos, disprezzo del Parlamento, "Mussolini un grande statista", "italiani brava gente", c'è chi pensa che i rumeni siano mostri e c'è chi sfrutta il loro lavoro come ai tempi di Ceausescu, c'é chi licenzia, chi lascia bruciare gli operai nelle sue fabbriche, chi traffica in donne, chi stupra bambini, c'è chi ha giocato in borsa fino a consumarsi gli indici, c'è chi si è rifatta le tette per il Grande Fratello, c'è chi ritrova pezzi d'uomo nelle reti da pesca e li ributta in mare, c'è chi uccide i parenti e dà la colpa agli albanesi, c'è chi mena la moglie, chi fa il figo con la coca, chi beve l'acqua santa del Po, chi tocca il culo alle hostess, chi non paga le tasse, chi se ne vanta pure, chi commissiona omicidi, chi "è colpa di Saviano!", c'è chi ti imbonisce, chi ti sorride ad alta definizione, chi ti obbliga a vivere anche se vorresti morire, chi ti obbliga a morire anche se vorresti vivere, c'è chi frega sul conto, chi t'incula con garbo, c'è il rifiuto nascosto, la terra avvelenata, la ronda padana, la mosca cocchiera, attenzione, attenzione, c'è anche di qua, di qua della linea.

Pamuk, Brasov e la città perfetta (4) - fight da power

Ed eccoli qui i protagonisti, i nostri amici di Brasov.
Che fine avranno fatto? Pochi anni dopo il nostro viaggio ci fu la caduta, secca, improvvisa, del regime di Ceausescu. Il comunismo andava in pezzi ovunque, successe anche lì. Ceausescu e consorte vennero uccisi sbrigativamente. Non è detto che ciò che è venuto dopo sia necessariamente migliore, però: almeno non è una dittatura, e io comunque diffido di chi dice che si stava meglio quando si stava peggio.
Eravamo rimasti che scendemmo per andare a cena nella prima bettola. Era un posto molto semplice e molto old style, diciamo una locanda come potevano essercene state da noi 30 anni prima. Sul muro la lista dei divieti, fra cui quello di portare il coltello. La cucina era la tipica delle terre lungo il Danubio: Wienerschnitzel (ovvero cotoletta alla milanese), patate, pomodori.
Fuori scesero le tenebre. E fu buio pesto, come in una boccetta d'inchiostro, perché la Romania era in piena crisi energetica. Pur disponendo di petrolio, lo esportava per pagare i debiti contratti all'estero (la Romania era l'unico paese del blocco comunista che aderiva al Fondo monetario internazionale, perciò era guardata con sospetto da Mosca e corteggiata dall'Occidente). Quindi l'illuminazione pubblica nelle strade era praticamente inesistente, un'atmosfera gotica, vero viaggio dark nelle terre di Vlad Tepes l'impalatore, terre di castelli, boschi, forre, la "chiesa nera", neanche a farlo apposta, il monumento di maggior rilievo del centro cittadino.
Mi piaceva molto, a dirla tutta. Era torvo e distante, proprio come avevo sognato. Carico di mistero e di avventura. E fu proprio in quel momento che un ragazzo - uno studente dell'università di Brasov - chiese di sedersi al nostro tavolo.
Poliglotta, come molti dei suoi coetanei; cominciammo a conversare, presto i discorsi si fecero elevati, si parlò di Shakespeare, credo, quasi sicuramente di Wilde e di qualche altro mostro sacro della letteratura mondiale. Ero sinceramente colpito; da noi non era frequente sedersi al tavolo con uno sconosciuto e mettersi a parlare di cose così. Già era successo in treno con il bulgaro... Forse, mi dicevo, sotto all'aspetto dimesso la Romania nasconde giacimenti culturali soprendenti, frutto di una buona educazione di base (sanità e scuola erano in fondo le priorità di ogni regime socialista degno di questo nome).
Dopo la cena seguimmo il ragazzo fino al suo studentato. Mi pare ci fosse un controllo all'ingresso, disse che eravamo studenti stranieri in visita... Appena dentro, fu come se fossero entrati gli ambasciatori di un altro pianeta. La nostra improvvisa comparsa attirò subito l'attenzione di tutti quelli che vivevano lì. Ci portarono da una camerata all'altra, comparve magicamente un boccione di palinka, il tasso alcolico schizzò alle stelle. Tutti volevano conoscerci, parlarci, farci ubriacare, sapere... Mi guardavo attorno: lo studentato era povero, camerate spoglie con letti a castello minimali (reti e materassi, forse), bagni semiallagati nel corridoio... Pensavo che a Bologna studentati così glieli avrebbero tirati in testa all'Opera universitaria pezzo per pezzo, pensavo che nel ricco Alto Adige due anni prima avevamo quasi occupato una scuola per una questione di "cubature" (in pratica sostenevamo che le aule erano troppo piccole).
Peccato, solo un dettaglio sgradevole, nella luce acquatica del ricordo: lo studente che ci aveva accompagnati, che avevamo conosciuto al ristorante, lo misero da parte. Dissero che era un comunista, uno che stava dalla parte del regime. Luca provò a dire qualcosa...ma niente. Non era dei loro. Forse è anche per questo che si diventava comunisti, da noi: per distinguersi, per non intrupparsi nella massa delle pecore vestite Fiorucci che ascoltavano musica di merda e conducevano una vita "banale"... Per anticonformismo, per ribellione verso l'ovvietà espressiva dell'Italia democrista, che bruciava Ultimo tango a Parigi e censurava Querelle de Brest... per me quella era stata una molla fondamentale, sicuro. Ma lì? Che ne sapevamo, in fondo? E se quel tipo fosse stata una spia? Eppure con lui avevo conversato piacevolmente e nei giorni a venire ne avrei sentito la mancanza, mancanza del suo sguardo posato, delle sue parole sagge...
Ci scortarono all'albergo a notte fonda. L'accordo era che il giorno successivo ci avrebbero procurato due stanze all'ostello (le stanze vip!). Comunque, l'università di Brasov, come avremmo presto scoperto, era piena di studenti stranieri: arrivavano soprattutto dall'Africa e dall'America latina, in nome della solidarietà internazionalista. Studiavano "silvicoltura".
Invitammo un ragazzo, Mihai (il secondo da destra nella foto) a salire con noi, nella locanda di Bela Lugosi dalle scale scricchiolanti. Luca generosamente gli cedette il suo letto, si mise a dormire per terra nel sacco a pelo. Mihai veniva da una cittadina al confine con la Jugoslavia; sua nonna viveva dall'altra parte, in Serbia, a Turnu Severinu, nota per una diga. Così lui, a differenza degli altri rumeni, poteva uscire dal paese per andarla a trovare. Per questo era vestito all'occidentale, jeans e magliette alla moda. Erano cose che comperava in Jugoslavia. Mi sembrava incredibile - e mi sembra incredibile anche adesso - che questi ragazzi pienamente europei, colti, intelligenti, non potessero viaggiare. Che mezza Europa fosse confinata dietro una frontiera di fucili e filo spinato a bere palinka. Viaggiare era il sogno più comune di ogni studente universitario italiano; un sogno alla portata persino di quelli come me, figli della classe operaia, in fondo l'inter rail era a buon mercato, e comunque, ci si poteva arrangiare anche con l'autostop...
E per questi nostri coetanei rumeni invece era solo un miraggio. Per loro già era quasi impossibile andare in Jugoslavia, ma ci pensate? Gli chiedemmo: "Ma se aprissero le frontiere, scappereste tutti? Abbandonereste il vostro paese?" Ci risposero che no, loro erano rumeni, loro amavano il loro paese, sarebbero venuti solamente a vedere, a vedere com'era l'altra parte... Mi sembrava ragionevole come aspirazione. Il solito vecchio dubbio che avevo coltivato fin da bambino: ma se nei paesi comunisti la gente sta meglio che da noi, perché la rinchiudono dentro? Perché non la lasciano viaggiare? Sarebbero i migliori testimoni della superiorità del loro sistema sul nostro, no?
Eppure, la fede è fede. Non volevo lasciarmi disilludere del tutto. Una mattina litigai persino con Luca, al nostro ritorno, facendo una grigia colazione con le mosche del troppo sonno che ronzavano nella testa. Ancora volevo vederci qualcosa di buono, in quell'impasto di burocrazia, moralismo, gerarchie e kitsch. Durò poco, certo. Ormai più che un buco di tarlo in me si era aperta una voragine...
La mattina successiva ci trasferimmo nello studentato. Da qui in poi i ricordi si fanno confusi. Non credo abbia senso organizzarli in senso cronologico. Furono dieci giorni di amicizia, scoperte, bevute memorabili, chiacchiere. Dieci giorni in cui non dormimmo mai. Che si conclusero con un rientro molto difficoltoso...
Ciò che posso fare è cercare di raccontarli attraverso un piccolo vocabolario. La lista delle parole ritrovate, parole per dire una Romania che non ho visto più e che probabilmente non c'è più.
SOLDI
Eravamo partiti con i soldi contati, cioé in pratica poveri, quello che eravamo sempre. Improvvisamente diventammo ricchi. Il merito spetta a quel ragazzo capellone che nella foto sta rollando una sigaretta, il primo a sinistra. Era di Panama, il suo nome purtroppo l'ho scordato. Essendo straniero, durante l'estate a differenza dei suoi compagni di corso rumeni, poteva venire anche in Europa occidentale. Perciò gli servivano dollari. Noi dollari avevamo, appunto (ovviamente, lo dico per i giovani, l'euro non era nemmeno nel novero delle possibilità, nel 1985). Quindi fu ben contento di cambiare i nostri pochi averi al nero, ricoprendoci di lei, la moneta locale. Ci diede cinque volte quello che ci avrebbe dato la banca. Il problema - lo capimmo dopo - è che adesso non potevamo più spostarci, perché nel momento di pagare una camera d'albergo avremmo dovuto sempre esibire la ricevuta della banca nella quale avevamo cambiato la nostra valuta, quella che poi avevamo dovuto dichiarare entrando in Romania (era una misura inventata appunto per scoraggiare il cambio al nero, mi pare ci diedero anche una ricevuta falsa da esibire alla frontiera in uscita). Dunque, eravamo costretti a rimanere lì e a spendere lì tutti i soldi che avevamo.
Poco male, comunque. Cominciò una festa mobile, una grande orgia redistributiva che durò dieci giorni coinvolgendo tutti, amici, amici degli amici... A tutti si pagava da mangiare e da bere a profusione, in uno sfolgorio di prodigalità che un po' ci metteva in imbarazzo, perché ci trovavamo all'improvviso ficcati a forza nei panni degli occidentali spandimerda, mentre semplicemente questi soldi dovevamo consumarli. Comunque, fu l'unica volta nella vita che ci sentimmo un po' J.R., credo. Vero, Luca?
DOMENICHE NELL'EST
Ci portarono in gita a Poiana Brasov, che oggi mi pare sia un centro turistico importante, forse persino una stazione sciistica, su internet vedo che la pompano abbastanza. Anche allora, comunque, per gli abitanti della città era l'attrazione per eccellenza, la meta della gita fuori porta. Struggimento della domenica, viaggio nel tempo su autobus puzzolenti, risalendo i tornanti, fra case, carri, covoni, bestie. Ci si andava in autobus perché la macchina privata ce l'avevano in pochi, ovviamente. Tutti usavano il mezzo pubblico e facevano la fila. Che dire? A me non dispiaceva, è la cosa che ricordo con maggiore nostalgia di quell'Est. In fondo non è questa la sostenibilità? Non è questo l'essere "verdi"? Ritmi più lenti, rumori ambientali e polvere. Per chi come me non ha mai amato gli orpelli tecnologici, le moto, le auto, le infinite cazzate della società dei consumi, quello stile di vita non era poi male...
Voglio dire: essere poveri non significa fare una vita spiacevole o priva di divertimenti. L'avrei capito meglio in Africa, dove nessuno ha nulla ma la gente è meno depressa che da noi, generalmente. Comunque anche lì, andavano in questa località in collina, piena di locali tipici, in legno, fra i boschi, e mangiavano e bevevano l'impossibile. A me, insisto, sembrava ok. Per questo quando ne parlo cerco sempre di spiegare che la vita c'è comunque, anche sotto i peggiori regimi, la gente beve, si corteggia, scopa, legge, parla, gioca, ama... ecco, rispetto al libro della Muller, Il paese delle prugne verdi, che sto leggendo, che trovo comunque vero, poetico, appassionante, a me pare di ricordare che la Romania di Ceausescu non fosse solo tristezza e oppressione, era anche la vita che si faceva strada, comunque, caparbiamente, negli interstizi, scavando, rodendo e grattando, la vita che strepita, sputacchia, strabuzza gli occhi, si soffia il naso, infila le mani in tasca, la vita è sempre più forte.
CODE
In Occidente gli anticomunisti dicevano che all'Est si faceva la coda per ogni cosa. Noi pensavamo fossero balle. Beh,ok. Le code c'erano. Il peggio è che le facevano per comperare frutta o verdura che da noi avrebbero dato alle bestie, forse. Ci spiegarono che, di nuovo, la ragione era l'indebitamento estero del paese: Ceausescu voleva onorare i suoi obblighi, così la merce migliore veniva esportata.
Le code si facevano anche per prendere i mezzi pubblici, come la funivia con cui andammo sui Carpazi. Erano lunghissime; la gente però era sempre molto ordinata e composta.
EDUCAZIONE
A me sembrava che i rumeni fossero meravigliosi. Gente colta, gentile... Pensavo che se in una cosa il comunismo aveva avuto successo era questa. Oggi in Italia c'è la psicosi del rumeno. Il rumeno stupratore... Quello che raccontavano a noi, lì, era che a Brasov, città industriale di medie dimensioni, erano anni che non avveniva un delitto, e questo nonostante la mancanza di illuminazione la notte. Fungevano da deterrente i militari per strada con i mitra a tracolla. Ecco, quello a me studente libertario certo non piaceva. Poi, oggi, i militari per strada li hanno messi anche da noi. Berlusconi come Ceausescu.
IGNORANZA
Nel senso che anche loro ignoravano tante cose fondamentali del nostro stile di vita. Gli raccontavamo che noi in Italia andavamo in giro in autostop, e loro facevano una faccia perplessa. "Non avete paura della mafia?", ci chiese uno ad un certo punto. Oppure, ignoravano le nozioni fondamentali sulle droghe, la differenza fra una canna e una pera... Droghe, ci dissero, lì non ce n'erano. La gente si spaccava con l'alcol.
CONSUMI
Parlo di quelli che realmente contano per me, cioè libri e musica. Erano messi male. Nelle librerie di Brasov, c'erano esposti solo libri consunti con su i discorsi del presidente Ceausescu (forse, a cercare bene, c'erano anche quelli del compagno Kim Il Sung). Non capivo come facessero a conoscere così bene la letteratura occidentale. Le biblioteche, mi dicevano, e i libri che qualcuno gli spediva da fuori, che riuscivano a passare il controllo della dogana... Stesso discorso per la musica. Lì, a differenza che in Ungheria, musica occidentale in vendita non ce n'era. Chi poteva uscire (come il nostro amico panamense, o quell'altro di Costa Rica, il secondo da sinistra nella foto, altra persona squisita), portava dentro cassette comperate in Germania o in Austria. Comunque, la musica è sempre un magico esperanto. Si trattasse di Vangelis o dei Black Sabbath, gettava subito ponti, apriva porte. Spalancava sorrisi.
Per il resto, niente auto, niente vestiti trendy. Tutto in qualche modo logoro, avariato, polveroso, macilento. Però i pomodori e la carne erano ottimi.
KITSCH
Visitammo un museo storico. Veniva narrata la storia del paese, dalle guerre contro i Turchi allo sbandamento per il nazifascismo fino all'avvento del socialismo. Un museo normalissimo. Però in fondo c'era l'ultima sala, quella dedicata alle conquiste del regime: frasi di Ceausecsu as usual, e nelle bacheche automobiline e aeroplanini in scala come quelli con cui giocavo da bambino.
NUCLEARE
Da noi c'era appena stato il referendum, lo consideravamo una delle più grandi vittorie della sinistra. Lì invece le centrali le volevano. Dicevano che in Bulgaria ne avevano di più e quindi non c'erano problemi di energia.
ESPROPRIO
Se c'è un momento in cui ho cessato di essere comunista credo sia questo. Niente di che, in fondo, sapevamo già che i comunisti erano dei bacchettoni ipermoralisti, a Mosca avevano organizzato un concerto di Elton John ma senza la band perché dicevano che "eccitava troppo gli animi...".
Però se questo valeva per tutti per lo meno un senso ce lo poteva avere, una coerenza, per quanto perversa. Ma no, era solo facciata. I boss del partito non soggiacevano a queste regole ferree, non conducevano una vita austera, se la godevano, eccome, proprio come i maiali di Orwell.
Una sera passeggiavamo per le strade buie di Brasov e sentimmo una canzone dei Queen fuoriuscire da un palazzo, era "Radio gaga". Stupiti, chiedemmo spiegazioni a Mihai. Ci disse che quel palazzo era la sede del comando militare, che organizzavano spesso delle feste, con orchestre, musica occidentale...
La cosa che mi disgusta di più è quanto i potenti trattano il popolo come se fosse fatto di bambini incapaci, che devono essere puniti, tenuti all'oscuro, in castigo... mentre loro fanno quello che gli pare, ed espropriano la gente della sua libertà. Anche della libertà di sbagliare. Fight da power.
COSE DA VEDERE
Visitammo Sighisoara. La città natale del conte Dracula, ossia di Vlad II. Ci andammo in treno. Era notevole. Era puro medioevo. Oggi pare sia ancora più bella, ma quelli che parlano così intendono dire che è restaurata, che ci sono i locali per i turisti e probabilmente anche le automobili. All'epoca era quasi vergine. Quasi deserta. Una donna faceva a maglia sotto alla torre dell'orologio, vestita nel costume tipico transilvano. Una turista tedesca la fotografava. E' l'unica turista che io ricordi.
Un cimitero, nomi tedeschi incisi sulla pietra. Un uomo del sud Italia, forse un salernitano, che ci disse di essere lì perché aveva sposato (o stava per sposare?) una rumena. Passammo il pomeriggio a bere limonata, a Luca piaceva tanto la limonata che avevano lì. Parlavamo di cinema, parlavamo di tutto. Andammo a fondo della nostra amicizia, in quel pomeriggio assolato, fuori dalla storia, dalla politica, dal mondo, un cerchio magico ci strinse, dopo qualche mese ci saremmo trovati le morose e avremmo smesso di frequentarci.
Sugli alberi ingiallivano le foglie.
Visitammo i Carpazi. Lame di luce attraverso strati di nuvole. Nel rifugio mi riempii il piatto, ero affamato, ma era tutto pesantissimo, ne lascia lì metà vergognandomi.
Visitammo il castello di Bran, quello che avevo visto da bambino in fotografia su una Domenica del Corriere, il pretesto per il viaggio. Scrissi una frase tratta dal Nosferatu di Herzog sul libro degli ospiti. Una vecchia zingara mi vendette un puzzolente gilet di lana di pecora e Luca mi prese in giro tutto il tempo.
C'erano senz'altro anche altre cose da vedere ma noi la sera dovevamo per forza rientrare a Brasov e quindi potevamo fare escursioni solo entro un certo raggio. Non andammo a Bucarest, ad esempio. Non che ci tenessimo poi tanto.
FINZIONI
Le finzioni del benessere socialista. Prodotti che imitavano le merci capitaliste. La Coca Cola non c'era, c'era la Fru-Cola. Beh, sì. Odorava di fogna. Mi sembrava così sciocco fabbricare male delle imitazioni quando potevi importare l'originale. Dov'era il problema? La Coca Cola piace a tutti.
Le Marlboro invece le potevi comprare solo nell'albergo chic di Brasov, pagando in dollari (i rumeni non potevano avere dollari). Le sigarette rumene si aprivano dopo tre tiri. Mi sembrava impossibile! Ma cazzo, neanche le sigarette???
LEGGENDE METROPOLITANE
Ovviamente c'erano leggende di ogni tipo, come sempre in un regime dominato dalla propaganda. Difficile distinguere il vero dal falso. Si diceva che negli ospedali a causa della crisi energetica un sacco di bambini morissero perchè periodicamente, per risparmiare, toglievano la corrente, e le incubatrici non funzionavano più. Gli studenti stranieri - una voce attendibile, venivano da paesi poveri, non dagli Usa - dicevano sottovoce: "Qui niente è giusto". Lo dicevano con divertita rassgenazione, come gente che nella vita ne ha già viste di cotte e di crude.
RAGAZZE
Ci parlavano delle loro ragazze, molti di loro venivano da regioni lontane dai Maramures, avevano lasciato là le loro compagne... Siccome vedevano che non attaccavamo bottone, che eravamo un po' imbranati, una sera organizzarono un festino per noi allo studentato. Purtroppo era lo stesso giorno della gita ai Carpazi: anche se ci fecero saltare la fila alla funivia, per farci rientrare prima (pagando una mancia, puro italian-style), arrivammo tardi lo stesso, le ragazze ormai erano andate. Magari, ci saremmo fidanziati con due rumene...
LA MEMORIA
La memoria ha dei buchi enormi. Ricordo diverse cose, le stesse che ho ricordato per anni. Ricordo un nero, un africano, che ci comparve davanti nella notte, ci disse che era stato a Bolzano, conosceva la nostra città. Ricordo che comprai delle corde per chitarra e delle anfore smaltate da portare a mia madre come regalo. Non ne ricordo assolutamente altre. Ricordo anche le cose che mi davano fastidio, la capacità di Luca di predicare buoni sentimenti, io no, io ero più chiuso, avevo difficoltà con le lingue, e poi non sapevo cosa dire, non ce la facevo a proclamare loro che bisogna avere fiducia e lottare, che le cose sarebbero cambiate... Luca all'epoca era un cantante, era più estroverso, io l'introverso scrittore timido...
Ma certe cose non le ricordo proprio. Come tornammo in stazione, ad esempio. Come tutto finì. Ricordo che ci diedero le loro foto, gli indirizzi. Che Mihail scrisse sul retro di entrambe la stessa dedica, perché "per me voi siete uguali." Che poi, chissà quante cose non ho visto, non ho notato. I miei mi dissero che una volta rientrato arrivarono un paio di telefonate strane, a casa nostra. Chissà se la paranoia di un regime agli sgoccioli si spingeva fino al punto di spiare due turisti ventenni.
Salimmo sul treno, l'Orient Express, quello vero. Ricordo che agitai a lungo la mano nel buio della notte, fuori dal finestrino.
Stavamo tornando in Italia. Ma il ritorno ci avrebbe riservato ancora qualche sorpresa.

Pamuk, Brasov e la città perfetta (3) - come si cambia

Brasov. Non molto diversa da Bolzano (infatti al ritorno, quando mostravamo le foto, ci dicevano: Che cazzo ci siete andati a fare?)

E' così, quando inizi a scavare saltano fuori per caso le cose più disparate, solo due metri più in là. Non ho mai trovato un romanzo che parlasse della Romania di quegli anni, la Romania, di Ceausescu, gli anni '80, l'Occidente ubriaco di Borsa e riflusso, occasionali attentati terroristici di (ancora!) le Brigate Rosse, e a poche decine di chilometri da qui l'Est, la Romania, una dittatura che tutti facevamo finta di non vedere, preoccupandoci (giustamente, o meglio comprensibilmente) del Nicaragua, del Cile, ma ignorando tutto di queste miserie europee, di casa nostra (per non dire dell'Afghanistan).

E poi adesso che ho cominciato a scrivere, mi viene nelle mani questo libro di una certa Herta Muller, classe 1953, Il paese delle prugne verdi, che proprio di questo parla - con stile immaginifico, molto femminile, molto ostico per me - cioé della Romania di Ceausescu, di tutto quello squallore e quell'ipocrisia, assieme a operai bisunti ubriachi appena fuori dalle fabbriche, campi sterpaglia, pulci delle piante, fuligine e cieli, cieli, nuvole, studenti, siccità. E io sono ancora allora, in quel treno, con genitori entrambi vivi che mi aspettano a casa e a cui cerco di telefonare, e l'università che mi aspetta a Bologna, e le mele da raccogliere sugli alberi settembrini, e la birra e la palinka che bevevano là, a litri, e scioglieva la lingua. Come si cambia per non morire, no? Come si cambia per essere sempre al punto di partenza più confusi e insoddisfatti di prima solo che adesso ho visto morire, ho visto qualcuno morire e so com'è, so che hanno lo stesso sorriso stupito in faccia come a scusarsi e a dire: "Tutto qui?"
Ma lo dirò in un'altra occasione, concentriamoci sulla Romania, estate 1985, viaggio a Brasov resuscitato alla memoria dalla lettura del romanzo Neve di Orhan Pamuk.

Sì, insomma, eravamo rimasti che ce ne stavamo andando, via da Budapest, dalle sue architetture asburgiche, dalla sua patina conformista, si va, finalmente, verso l’ignoto che fa tremare le palpebre! Si va col cuore in gola, come gente niente abituata a viaggiare, e il pacchetto di sigarette infilato fra la maglietta e la spalla, a sentirsi più coraggiosi, e basta.
Alla frontiera ungherese era salita una squadra, molto marziale, fucili a vista, avevano frugato dappertutto. Al confine rumeno invece ci accolgono più bonariamente. Un milite estrae dal mio zaino un tascabile di Hemingway. Attimo di imbarazzo. Come la prenderà? “Ah, lo scrittore americano che ha combattuto nella guerra di Spagna”.
Tutti sorridono, approvano con vigorosi gesti del capo. Ma rischiamo subito un incidente diplomatico, quando mostriamo i passaporti.
“Italiani? Discendenti dei Cesari!”. Crediamo sia una frase di scherno, cerchiamo la replica adatta, che combini l’ideologia presente alla storia passata di queste terre.
“Romani imperialisti” ci sembra la più giusta. Nel posto da dove veniamo noi, un’altra terra di confine, prima austriaca, poi italiana, per gli incerti della storia, sarebbero in molti a sottoscriverla. I loro volti esprimono disappunto. “Imperialisti? Civilizzatori!”. Qui, sulla frontiera, ci viene dato un primo saggio della smodata fierezza che i rumeni nutrono nei confronti delle loro parentele con il mondo latino, fierezza nella quale siamo destinati ad inciampare ad ogni passo.

Andiamo verso Brasov, la città nell’Est. Intanto fuori dal finestrino sfila la campagna rumena. Di fronte a noi siede un signore bulgaro, rugoso, sui palmi colline di calli di uno che ha fatto tutta la vita lavori manuali. Attacca una conversazione fatta di pochi vocaboli internazionali e molti gesti, molte mani che sfarfallano davanti alla faccia ad indicare concetti impalpabili. Ci stupisce con la sua cultura. Snocciola in bell’ordine date e nomi di papi morti, guerre, trattati diplomatici. Che razza di contadino è questo? Spia della Stasi? Lupo grigio? Pure, gli guardo le mani e sono quelle che sono. I piedi, le orecchie. Insomma tutto. Ne sa più lui di noi, in quanto a storia moderna. Incredibile.
Nel frattempo la Romania si svela, oltre la fragile barriera del veicolo. Ecco il comunismo. Allora avevo letto nulla, adesso che ho letto Doris Lessing so che ho fatto i suoi stessi pensieri, anche lei, arrivando a 30 anni dalla Rhodesia nel porto di Londra, guardava stupita gli operai dei docks e si chiedeva: "Possibile siano loro? Possibile sia questa la mitica classe operaia destinata ad ereditare la terra?".

Scorrono cortili, casematte, pali della luce come nei film western, tutti inclinati, pericolanti, mezzi marci, fabbriche da cui escono lavoratori neri di sudiciume, mai visto gente conciata così, mio padre tornava dalla fabbrica ripulito, qualche bruciatura del saldatore, ogni tanto, certo... Sfilano stazioni i cui nomi sono sormontati da grandi cartelli con sopra scritte le massime del presidente Ceausescu, come quelle fatte incidere da Mussolini nei marmi della mia città, la stessa tronfia retorica, la stessa pedagogia boriosa, la stessa, identica diffidenza verso il nemico di sempre il nemico di ogni dittatura (e di ogni religione), l'individuo, la testa pensante, la canna risonante.
Il bulgaro organizza una pantomima, sta cercando di comunicarci qualcosa, un concetto, ci impieghiamo cinque minuti a capirlo, ma infine la forza dei gesti ha il sopravvento sull’odiata diversità linguistica, retaggio di un castigo biblico: “Voi giovani, dovete portare il mondo”. Io da un lato sono commosso, da molto tempo nessuno ci dice cose così, a scuola o altrove. Semmai siamo stati avvisati: che dobbiamo stare in campana, che siamo candidati alla disoccupazione, c’è anche un realismo capitalista, oltre che un realismo socialista. Ma deve aver colto un lampo di delusione nei nostri sguardi. Vede i nostri sorrisi sfaldarsi davanti a bicocche rurali, di grande povertà. Si sforza di arginare il diluvio del disincanto. “In Bulgaria le case sono più grandi, sono bigger, bigger. Perché non venite in Bulgaria”.
Ma no, grazie, grazie tante. Un’altra volta, forse. In un’altra vita.
In fondo alla pianura sorgono palazzi senza grazia. Sotto un cielo nerissimo, praticamente temporale, la città si dispone al tramonto. Del resto, in fondo al mio animo malinconico, c’è una bellezza anche nel cemento armato, e ce n'è un'altra nei fiori che crescono sul ciglio delle ferrovie (come il fiore giallo di Ginsberg), e c'è una bellezza particolare nei neon che sfrigolano neri di insetti in qualche bar miserabile e nelle pianure disadorne e negli agosti vuoti e insomma dappertutto dove non luccica scintillante l'industria dello spettacolo.

Piaccia o no, tocca di scendere. Salutiamo il nostro compagno di viaggio e scendiamo a Brasov, unici turisti, almeno per quel giorno, e quel treno.

Ci incamminiamo dunque, nella penombra, in questa esaltante, estrema libertà, di cui far scorta, per tutte le stagioni a venire, ci inoltriamo nel ventre della stazione, torve facce transilvaniche occhieggiano dietro ai piloni, presto siamo già lontano dai binari, si sente solo il rumore del treno che sparisce, inghiottito da incomprensibili distanze, paesi, pianure, Sofia, Istanbul, Ankara, Diyarbakir (Kars?) con dentro il nostro amico bulgaro, ormai in viaggio verso remoti orizzonti orientali, ah, sì, è così. Addio! Addio addio addio addio addio!"

Non ricordo tutto. Credo si prese un tram per il centro. Si domandò in un albergo, era troppo caro, si trovò una stanza in cima ad una scala di legno dietro un angolo, hotel Sport. Ricordava la casa della zia Ines. Piena di tarli e fantasmi. Mi piaceva.
Poi si uscì per cenare.

Pamuk, Brasov e la città perfetta (2) - trough Vienna&Budapest

foto 1: me in Budapest, 24 years ago.

La prima tappa del viaggio era Vienna. Lì contavamo di fare i visti per l'Ungheria e la Romania, anche se non eravamo del tutto sicuri di poterli ottenere in un paese diverso dal nostro. Il ticket ci imponeva un percorso strano: pur partendo da Bolzano, anziché andare per Innsbruck dovevamo fare il giro - molto più lungo - via Venezia, Villach, Klagenfurt. Attendemmo l'alba - e la coincidenza - a Venezia, appunto, sul ponte di fronte alla stazione, all'epoca ancora assediata dai saccoapelisti. Nella foschia del mattino, mi sembrò di intravvedere, laggiù, dove l'ultima casa affondava le sue fondamenta nella melma, l'Est, il miraggio, le rupi, i castelli, la terra misteriosa a cui approdava Jonathan Arker per vendere al conte Dracula una proprietà londinese, insomma l'altra Europa, la terra dei vampiri e del socialismo reale, (come lo chiamavano, per distinguerlo ovviamente da quello irreale, cioè quello che amavamo noi).
Arrivati a Vienna, dopo un viaggio interminabile attraverso un'Austria leziosa, in stile "plastico ferroviario", fu Luca ad occuparsi di tutto; io, con i miei cronici deficit in lingue straniere, servivo a poco. Con la metropolitana approdammo ad un ostello; l'accomodation era gut, una camera da due, la cucina in comune al piano terra...
Appena messi giù gli zaini ci dirigemmo verso un vicino canaletto che - in apparenza - doveva essere proprio il bel Danubio blu. Contemplammo fumando il rigagnolo, nella luce sfolgorante del tramonto. Poi Luca pronunciò la storica sentenza: "Secondo me, Strauss era un coglione." (capiremmo molto dopo che si trattava non del vero Danubio ma solo una piccola derivazione cittadina).

Dopocena, sulle scale di questo tetro edificio tardo-ottocento, facemmo conoscenza con una tipa sudamericana, in Europa per ragioni di studio. La buttammo subito in politica, i Sandinisti erano il nostro mito, a lei i rossi non piacevano... Sì, insomma, su certi temi si era piuttosto intransigenti. Oggi il tragico fascismo che ha insanguinato quel continente è praticamente scomparso, anche se non sono scomparse le oligarchie e le diseguaglianze sociali. Persino in un paese che all'epoca sembrava senza speranza come il Salvador è stato eletto un presidente di sinistra. E ciò non può che rallegrarci. Al tempo stesso, come dimenticare la prima domanda che mi fecero mio padre e mia madre quando tornai dalla Romania? Non mi chiesero se i posti erano belli, se avevo speso tanto, se stavo bene: mi chiesero com'è. Com'è là. Com'è dove c'è il comunismo. Sono balle quelle che ci raccontano in Italia? E' propaganda americana? Insomma, come stanno, meglio o peggio di noi?
Io come Joseph Roth quando andò in Russia, subito dopola Rivoluzione, ero partito "comunista" (comunista rockettaro, vabbé...). Sarei ritornato come? No, non monarchico come lo scrittore galiziano. Però, certo, avrei detto loro che non si stava meglio, che gli operai che avevo visto uscire dalle fabbriche rumene non mi sembrava fossero messi meglio di mio padre, no no, anzi, molto peggio.
E poi c'erano anche altre cose, più spiacevoli ancora del livello di sviluppo che un paese può avere o non avere raggiunto, cose che hanno a che fare con libertà, costrizione e privilegi. Ma di questo dirò poi, non voglio anticipare troppo. Così come dirò che , proprio come nel romanzo di Pamuk, ciò che etichettiamo come cattivo, come insostenibile, in verità può essere vita, dopotutto, può essere persino cosa buona, per qualcuno...
In definitiva, se doveva avere una colonna sonora, quel viaggio, non sarebbe stata l'Internazionale, piuttosto una canzone che non era ancora stata scritta, una canzone che sottolinei il dominio del dubbio, dell'ambiguità, dell'ambivalenza postideologica amorale che avrebbe così pesantemente segnato i successivi anni '90, una canzone tipo L'assenzio, ad esempio, che fa: la pioggia, le feste, il dottore, l'alcol, i discorsi, le moto degli altri, l'acqua calda, il fumo, l'arrosto, costruire una capanna, i massaggi, la crisi, le associazioni, la suora, il prete, gli sposi, la marijuana/ fanno bene fanno male, sto bene sto male...(e via così).

Comunque, i visti riuscimmo a farli. All'ambasciata rumena vecchi, antiquati poster ci parlavano di di un luogo che fin'ora non ci aveva svelato neanche una sua immagine, una pura incognita, una suggestione; del resto, l'unica guida della Romania disponibile in Italia era quella noiosissima del Touring, e per il resto...internet ancora non l'avevano inventato (com'è strano pensare che oggi, prima di metterci in viaggio, possiamo già sapere molte cose della nostra meta, possiamo addirittura vederla dall'alto con Google).
Alla frontiera ungherse all'improvviso la percezione di stare entrando in un altro mondo. Militi molto marziali, armati di fucile, salgono sul treno cominciando a frugare ovunque, a smontare antine, a battere, a perquisire, a sfogliare i passaporti. L'Est ci dava il suo benvenuto con marziale nervosismo
In ogni modo, arrivammo alla capitale ungherese, e prenotammo già in stazione una stanza in un albergo di Buda (ignorando che la maggior parte della vita cittadina stava a Pest). A noi si unì un ragazzo inglese, molto sbronzo, che viaggiava solo. Un fan del metallo pesante, timido e panciuto, che aveva pianificato di proseguire - sempre da solo - fino a Istanbul.

All'albergo - un palazzone per i turisti standard - una comoda tripla con la moquette per terra, ma i bagni in comune in corridoio. Mentre aspettavo, senza fretta, in un salottino sul giroscala, due poltrone e un tavolo basso, semiassopito in penombra fra le 16 e le 16.15, che Luca finisse di lavarsi per dargli il cambio, e lasciavo scendere la stanchezza, una donna fece la sua comparsa in fondo al corridoio. Sfilò regale come l’indossatrice di un catalogo per corrispondenza di fronte a ognuna delle porte chiuse, e concluse il suo percorso accanto a me, sulla poltrona libera, dove si sedette, in attesa di un cenno. Alta, magra. Coperta con una sottoveste leggera, e sotto slip bianchi.
Poi dopo, nella hall, incontrammo un romano, un avvocato, giovane. Era già stato qui altre volte, conosceva gli optional offerti ai turisti da questo tipo di alberghi, sembrava divertito dal nostro candore. Aveva anche molto denaro da spendere. “Budapest è la New York del blocco comunista - ci spiegò - vengono qui da tutti i paesi attorno per assaggiare un boccone di società dei consumi, merci introvabili altrove, vita notturna, musica. Non gli importa come fanno a procurarsela”. Ammiccava in direzione della squisita che lo accompagna, una tedesca della DDR (la Germania Est), bionda e glaciale come certe commesse di boutique su da noi, che ci guardava dall’alto in basso perché eravamo vestiti peggio dei suoi connazionali. L’aveva conosciuta il pomeriggio stesso del suo arrivo, le aveva fatto dei regali. “Vedete, qui con poca fatica, e poca spesa, potete saltare da una nanna all’altra. In Romania è triste, terribile, è un’altra cosa. Datemi retta: tornerete, dopo due giorni”.

Dentro un tramonto giallo, sul Danubio, fumando sigarette senza filtro con la lena della nostra età, che fra dieci anni sarà già svaporata, per lasciare il posto a dottrine salutiste e sciocca new age. In fondo al fiume c’è come una cortina, di pulviscolo, che frulla dentro ai raggi, “un’evidenza di autunno”, la chiama Luca.
In questo avamposto di socialismo "liberale" le luci della città, viste dal castello di Buda, in alto sulla collina, sembrano davvero le mille luci di New York. Giovanotti ad ogni fermata della metropolitana suonano alla chitarra Blowin' in the wind. Compagnie teatrali in stile freak improvvisano spettacoli ai giardinetti. In un negozio nascosto, sotto a un giroscala, persino un negozio che vende dischi di decadente musica rock ("Dali's Car?", chiese un avventore. Io e Luca ci guardammo stupiti, nel sentire pronunciare il nome di quel grandissimo duo formato da Peter Murphy, ex-cantante dei Bauhaus, e Mick Karn, ex-bassista dei Japan, semisconosciuto anche da noi).
Budapest ci sembrò una città piacevole, smagata, in fondo non così distante da ciò che conoscevamo già (presumendo di conoscere qualcosa, ovviamente).
Ma presto tutto questo doveva venirci a noia. Volevamo qualcosa di diverso, che nutrisse la nostra immaginazione. Volevamo prendere il treno e rimetterci in marcia. Volevamo vedere le colline dove Giovanni Hunyadi si batté strenuamente contro i Turchi. Volevamo andare oltre, sempre oltre il confine. Volevamo correre sferragliando to the end of the road. Volevamo andare in Transilvania.

Pamuk, Brasov e la città perfetta (1)

Ho terminato ieri sera Neve, di Orhan Pamuk, lo scrittore turco premio Nobel per la letteratura 2006. E' un romanzo lungo, impegnativo, e al tempo stesso molto incalzante, molto ricco di colpi di scena. Ha per protagonista un poeta turco esule in Germania, Ka, il quale ritorna in patria e decide di recarsi nella remota città di Kars, in Anatolia orientale, dove alcune ragazze islamiche si sono suicidate dopo che la scuola ha loro proibito di portare il velo. Al di là dei temi trattati - il contrasto fra religione "militante" e laicità imposta dallo Stato (quello kemalista, realizzato da Ataturk per occidentalizzare la Turchia dopo il crollo dell'impero ottomano), ma anche l'amore e la nostalgia in tutte le loro varianti (compreso l'inganno e la gelosia) - nel romanzo di Pamuk la vera protagonista è la città di Kars, sepolta da una nevicata che per tre giorni la isola dal resto del mondo, accentuando ancora di più la sua distanza e la sua solitudine (ma anche il suo essere microcosmo a suo modo affascinante).
Conosco bene la geografia dei luoghi: sono almeno vent'anni che progetto un viaggio in Anatolia orientale, anche se i casi della vita mi hanno portato a visitare tanti altri posti "strani", ma non questo. Leggere Neve, però, mi ha spinto a chiedermi quale sia la mia Kars, quale sia, insomma, il mio remoto luogo dell'animo, il mio altrove, la mia città perfetta sotto a cieli perfetti, all'incrocio dei venti, nella perfetta congiunzione astrale. Londra, Cochabamba, Bologna, Dar es Salaam, Oporto, Bassano del Grappa, Pechino, Pitigliano, Lima, Merka, Buenos Aires, Sarajevo, Palermo, Colombo, Venezia, Tomar, Parigi?

Di tutti, ce n'è una che svetta nel ricordo-che-non-passa: Brasov.

Brasov è una città rumena, capitale della regione della Transilvania. Adolf Menschendorfer, la descrisse nel suo La città nell'Est, sottolineando il contrasto fra la civiltà urbana, espressione dell'ethos borghese, e l'Est, la dimensione degli spazi aperti e del nomadismo. Decisi di visitarla - senza saperne nulla, nemmeno che cosa ci fosse da vedere - in un'altra stagione della mia vita, una stagione in cui tutto andava bene: avevo terminato il primo anno di università, senza alcun problema, ero libero tutta l'estate (avrei lavorato in autunno, per la raccolta delle mele) e un'amica mi aveva suggerito di comprare un Bige (ticket ferroviario scontato) per Budapest, dicendomi che costava pochissimo. All'epoca - il 1985 - questa parte dell'Europa era ancora oltre la Cortina di Ferro. Si sapeva poco di essa, se non che per andarci ci voleva un visto. Guardai una cartina: vidi che dopo Budapest e la Putza ungherese la ferrovia proseguiva in Romania, arrivando fino in Transilvania. pensai che quello era il momento di realizzare un sogno coltivato da bambino, quando, dopo aver letto il Dracula di Bram Stoker, mi ero imbattuto in un articolo della Domenica del Corriere che narrava le gesta del Dracula storico, il principe rumeno Vlad II "Tepes" (l'impalatore), una sorta di eroe nazionale in Romania per essersi a lungo opposto con successo agli invasori turchi.

Così - assieme ad un amico - mi misi in viaggio. La Romania non era, come oggi, sinonimo di immigrati stupratori. Era un paese comunista governato da un regime poliziesco, quello di Ceausescu (in realtà piuttosto ben visto dall'Occidente perchè inviso a Mosca). Una terra di cui si sapeva quasi nulla tranne che avevano scoperto una straordinaria cura contro l'invecchiamento basata su un fango misterioso, il gerovital (un "pacco" pazzesco, ovviamente).

Andare laggiù da soli, con uno zaino in spalla e un sacco a pelo, era una scelta quantomeno stravagante: fin dalla partenza ci imbattemmo nello stupore dei bigliettai (all'epoca sui treni i biglietti ancora li controllavano) che non riuscivano a capire perché volessimo andare in Transilvania in pieno agosto, anziché a Rimini. Né lo facevamo per turismo sessuale; figurarsi, eravamo romantici fino al midollo (e comunisti, per giunta!). Mai avremmo usato il nostro denaro (che era pochissimo, alla partenza, ma divenne tantissimo in Romania quando facemmo il cambio al nero) per portarci a letto qualche povera ragazza rumena (o ungherese) in cambio magari di un paio di scarpe da 2mila lire (come vedemmo fare a Budapest da un avvocato romano, che girava con una stanga bionda, stile fotomodella per hobby, e ci prese per due allocchi provinciali).

Lo facevamo per andare lontano, questo sì. E se per il Kerouac de Sulla strada lontano era sinonimo di Messico per noi era sinonimo di Est, frontiere, passaporti, militari sui treni, perquisizioni, stelle rosse, "compagni", sol dell'avvenire, e poi, più tardi, con il procedere del viaggio, disillusione, povertà, culto della personalità, fare i conti con l'ideologia, non accettare che sia tutto falso, interrogarsi su ciò che è vero.

Avevo 20 anni, non avevo ancora trovato l'amore (sarebbe successo qualche mese dopo): ero libero, assetato, povero, arrogante, imperfetto, inesperto, intelligente, timido, felice.

Maria Falcone: mio fratello Giovanni, la lotta alla mafia

Sabato ho intervistato Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia nella "strage di Capaci" (assieme alla moglie e alla scorta) il 23 maggio del 1992. Fu, assieme all'attentato che poco dopo ucciderà anche l'amico e "compagno di strada" Paolo Borsellino, uno dei più tragici crimini mafiosi della storia italiana.

L'importanza di Falcone è ben sintetizzata da quello che racconta la sorella Maria nel corso di questa conferenza tenutasi a Trento con degli studenti delle superiori (ripresa integralmente da Format): prima del maxiprocesso di Palermo non solo la maggior parte dei mafiosi processati andavano assolti per mancanza di prove, ma ogni singolo caso veniva considerato isolatamente, mancava la visione d'insieme del fenomeno mafioso e delle sue collusioni con la politica e la società tutta che il pool antimafia porterà avanti in quegli anni, nonché delle sue connessioni internazionali.
Purtroppo - ricorda amaramente la sorella del giudice - Falcone è stato celebrato da morto ma osteggiato (da molti) fin che era in vita.

Oltre al video consiglio di guardare la scheda di Wiki che mi pare ben fatta.

Autonomia per il Tibet


Ma più importanti delle mie controversie con le compagnie telefoniche sono - in questo cinquantenario della prima sollevazione dei tibetani contro l'occupazione cinese - le notizie che riguardano il Dalai Lama, e che mi arrivano anche da una delegazione trentina accolta con tutti gli onori a Dharamsala (guidata da Roberto Pinter).

Tenzin Gyatso, col quale sono ritratto in questa foto del 2001 (che forse ho già postato, ma tant'è, immortala uno dei momenti topici della mia carriera di giornalista), pare abbia fatto un discorso molto duro, confermando però in sostanza la sua visione del futuro: un'autonomia per il Tibet in seno alla Cina. I cinesi però come al solito non ci sentono e agitano lo spettro del separatismo. E' incredibile quanto questa parola, autonomia, sia ancora poco compresa non solo in Italia ma anche sugli scenari internazionali. E lo dice uno che all'origine non era mica tanto filo-autonomista (come tutti gli italiani dell'Alto Adige, del resto).

Il video con la mia intervista al Dalai Lama (assieme ad Alberto Faustini), lo trovate qui.

Un'altra cosa che mi fa incazzare sono le compagnie telefoniche

Che poi tenti di chiamare e non ti risponde un essere umano, mai, neanche al decimo tentativo, solo sti' cazzo di sistemi automatici inventati da questi informatici decerebrati, "se vuoi questo premi il tasto 1, se vuoi quello premi il tasto 2...", e tu allora prendi carta e penna e scrivi, perché credi nel potere della parola scritta, scrivi e gli spieghi con dovizia di particolari che tuo padre è morto, che il suo telefono purtroppo non serve più, perché nessuno ci vive più, là, in quella casa, in quella casa proletaria di cui conosci ogni angolo, ombra, ruga, capello, sospiro, e dopo tre mesi - e sei convinto che la cosa sia risolta, e però ti chiedi, ogni volta che passi, per quella casa, perché il telefono faccia ancora "tuu...tuu..." - ecco che ti arriva la bolletta e una letterina in cui dicono che non hai fatto la disdetta in maniera corretta, che è incompleta, ma non specificano COSA NON HAI FATTO, ti ricordano solo che deve essere firmata (tu l'hai fatto, chi altri dovrebbe firmare? Forse credono davvero negli spiriti...), che devi specificare se vuoi tornare a Telecom (no, non vuoi tornare a Telecom, ma poi a loro che gli frega???), e altre amenità, ma in fondo, proprio in fondo alla letterina, scrivono anche
Qualora avesse già inviato la disdetta nella modalità descritta la invitiamo a inviarcene copia all'indirizzo...
Eh, no, allora questa è una lettera prestampata, allora voi la mia richiesta non l'aveve neanche presa in considerazione, allora questa è una prassi, un fottuto tentativo di succhiare ancora qualche euro all'abbonato, anche se trapassato, e un tentativo volgare, per giunta, lasciatemi dire, fatto con la mano destra mentre la sinistra si schermisce...
La stessa burocrazia cavillosa, supponente e accusatoria che un tempo era nelle amministrazioni pubbliche oggi si è trasferita di peso in questi fornitori di servizi privati, che ti si attaccano come zecche e non ti mollano più. Lo stesso meccanismo del segreto che un tempo teneva i burocrati pubblici al riparo da reclami e richieste di chiarimenti è stato fatto proprio da questi call centres, da queste società globalizzate tutto marketing, il cui ultimo anello sono ragazzi assunti con contrattini miserabili, illusi e supersfruttati.

Sudan (ovvero: un futuro alla Philip Dick)

Ieri il Corriere metteva ad un articolo di Henry-Lévy un titolo fuorviante, benché tratto di peso dal testo: "Contro le anime belle". L'articolo parlava della condanna - con conseguente mandato d'arresto - emessa dalla Corte penale internazionale nei confronti del presidente del Sudan Omar Al Bashir, per i crimini commessi in Darfur. Dal titolo si poteva pensare che il filosofo e opinionista francese stigmatizzasse la Corte dell'Aja. E invece no: Henry-Lévy si pronuncia contro le anime belle della trattativa ad oltranza, ed in favore di una giustizia internazionale che indichi con chiarezza i colpevoli di crimini contro l'umanità.
Si potrà osservare che ciò vale per il Sudan e non per l'America o Israele, ma resta il fatto che quando in una sede internazionale si ha il coraggio chiamare le cose con il loro nome è un bel giorno per chi ha sete di giustizia.
Semmai dà da pensare che il giorno dopo l'Unione africana, la Lega Araba, Russia e Cina (ma anche il presidente dell'Assemblea generale dell'Onu) si siano schierate contro la Corte. Qui il colonialismo - tirato in ballo dal dittatore sudanese - non c'entra nulla, qui c'è un governo che massacra una parte del suo popolo (per fare un paragone, non stiamo parlando di qualcosa di simile alla guerra del Vietnam, evocata da Al Bashir, ma di qualcosa di simile alla Cambogia di Pol Pot o, forse, alla Cecenia, posto che le tribù del Darfur, e quelle del sud Sudan prima di loro, stiano agli arabi sudanesi come i ceceni ai russi). Una volta che il diritto non si arresta sulla soglia della formula: "Sono affari interni ad uno Stato sovrano", bisognerebbe solo applaudire.
La visione che emerge di questo inedito asse pro-Sudan è quella di un futuro un po' alla P. Dick. Un futuro-incubo, fortemente cinesizzato, in cui a dominare saranno - in maniera ancora più sfacciata di quanto non sia già oggi - gli interessi economici (quelli che spingono la Cina a sostenere il governo sudanese, ricevendone in cambio il suo petrolio). Un futuro in cui a comandare sarà un asse slavo-asiatico, a cui si aggiungeranno i paesi arabi e quelli africani in alleanze mutevoli come le figure formate da un caleidoscopio. Un futuro in cui il diritto conterà sempre meno e la ragion di stato sempre di più. In cui le donne staranno peggio di oggi, la separazione stato-chiesa sarà un lontano ricordo, i dittatori mobiliteranno le masse per gli scopi più loschi in cambio di un po' di pane, oppio, nazionalismo e i-pod.
Ovvio che l'Occidente ha tante e tali colpe da scontare nei confronti degli altri popoli (specie dopo l'era Bush) che fatica a ergersi oggi come tutore credibile della legalità internazionale. Ma non per questo possiamo rassegnarci ad un mondo dominato dai Putin, dai gerarchi cinesi, dagli ayatollah e dagli Al-Bashir.

Questo è quello che scrive invece Altreconomia.
Qui un'altra fonte autorevole, lo ICC (english only)

Free money

"Se fossimo al Governo, faremmo una cosa chiara: nella crisi non bisogna dimenticare chi da solo non ce la fa. Quindi una indennità di disoccupazione a tutti coloro che perdono il posto di lavoro, a cominciare dai precari. E un intervento per aumentare i salari più bassi e mettere le famiglie in condizione di vivere».
- Dario Franceschini -

Beh, certo che se il buon giorno si vede al mattino la proposta del nuovo segretario del PD - che ha avuto anche il placet di un illustre economista come Tito Boeri - è di quelle che fanno ben sperare. In Trentino la strada scelta è il reddito minimo di garanzia, che esiste - informa sempre Boeri - in tutti i paesi europei tranne che in Italia e in Grecia. Bene anche il sistema dei controlli incrociati per smascherare gli eventuali approfittatori.
Su come finanziare questi ammortizzatori sociali (Brunetta si premura di informarci che si chiamano così, crede che il popolino sia appena sceso dagli alberi...) si vedrà, ma sono abbastanza d'accordo sia con chi parla di lotta all'evasione fiscale sia con chi ricorda che i miliardi per salvare (salvare?) l'Alitalia Berlusconi li ha trovati.
E questa è Patti Smith con il sogno di tutti i poveri: Free money (tutte le notti/quando mi addormento/ sogno soldi gratis...)

A tarda ora, fuori dalle stazioni...

Un gruppo di viaggiatori, dirottati a causa di un guasto ad un vettore da un aeroporto del nord Italia a uno della Toscana (Pisa), arriva alle 2 del mattino alla stazione centrale di Firenze. Fa freddo, la stanchezza accumulata è tanta, i bambini sono nervosi e infreddoliti. La prospettiva è quella di attendere le 4.30 per prendere il primo treno utile verso Bologna, Verona, e poi infine Treviso (dove hanno lasciato le loro macchine alla partenza). Ma la stazione è chiusa. Per evitare che si riempia di clochard, ovviamente: i quali clochard infatti sono accampati tutti fuori, assieme ad altri esponenti di varia umanità (peraltro non particolarmente molesta, ci tengo a sottolinearlo. A tarda ora, fuori dalle stazioni, uno può ritrovare dal vivo quelle atmosfere che piacciono tanto ai tantissimi appassionati di De André, anche a quelli che nei "quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi" non ci hanno mai messo piede).
La stazione è presidiata: dentro ci sono quelli della Polfer, a separarci da loro - e da una macchinetta del caffé - è solo un cancelletto. Ma non si può oltrepassarlo: i viaggiatori, in piena notte, rimangono fuori da uno spazio che sarebbe loro diritto occupare e che è anche uno spazio pubblico. Rimangono fuori, in piedi (ogni panchina attorno è stata rimossa), sicuramente a disagio.
So che è così in molte se non in tutte le stazioni e gli aeroporti, e che ci sono delle ragioni di sicurezza a giustificare tali provvedimenti. So anche per esperienza che se per sfiga arrivi in piena notte alla stazione di Monaco di Baviera, e devi aspettare il primo treno del mattino, ti controllano se hai il biglietto ma ti lasciano dormire dentro, al caldo e al sicuro (o almeno, così avveniva qualche anno fa).
So infine che i mali delle nostre ferrovie sono ben peggiori. Ma che le stazioni chiudano fuori i viaggiatori mi pare uno sgradevole segno dei tempi. Il ruolo della città, della città come istituzione, dovrebbe essere quello di accogliere, non di respingere: e i luoghi attraversati dai viaggiatori sono i cuori delle città per eccellenza. Bisognerebbe rendere questi luoghi (e altri ad essi affini, come i parchi pubblici), sempre più aperti e agibili, agli adulti e ai bambini, sia nelle situazioni di normalità sia soprattutto in quelle di "emergenza". Non chiuderli per preservarne l'integrità.

Uno scrittore: Orhan Pamuk - amore&suggestioni

Si immaginava come il triste e romantico protagonista di un romanzo di Turgenev mentre va incontro alla donna sognata per anni. Ka amava Turgenev, che, ormai in Europa, sognava nostalgico la patria che aveva lasciato, stanco dei suoi infiniti problemi e della sua arretratezza come dei suoi raffinati romanzi. Ma diciamo la verità: non aveva sognato Ipek per anni come succedeva nei romanzi di Turgenev. Aveva soltanto sognato una donna come Ipek, e forse lei gli veniva in mente ogni tanto. Ma, appena saputo che lei si era separata dal marito, aveva cominciato a pensarla, e adesso per instaurare un rapporto più profondo e vero con Ipek voleva colmare la lacuna creata dal fatto di non averla sognata abbastanza con la musica che sentiva e con il romanticismo di Turgenev.

da Orhan Pamuk, Neve, Einaudi, prima ed. 2004.
(foto: violinista ambulante davanti al Beaubourg, Parigi - Marco Pontoni)

Il poeta è un fingitore, e finge così completamente, che arriva a fingere che sia dolore, il dolore che davvero sente.

Fernando Pessoa

Sinistra, what sinistra?

In un giornale nazionale - il Corrierone - in questi giorni si parla del perché i militanti dell'ex-partito comunista più grande dell'Europa occidentale si siano dovuti affidare ad un un ex-Dc per avere un nuovo capo.
E' una questione che dovrebbe interessare anche chi non ha mai militato in quel partito o non ne ha mai preso la tessera. Perché il comunismo italiano è stato un pezzetto della storia non solo d'Italia ma d'Europa, e all'epoca veniva studiato con interesse anche all'estero, per capire se era possibile che un partito non socialdemocratico o lib-lab ma comunista tout court potesse andare al potere in maniera democratica.
Sostiene qualcuno che il PCI era un partito stalinista, e che è questa la ragione per la quale non è riuscito a diventare un grande partito della sinistra riformista come la Spd o il Labour britannico. Io non credo sia questo il punto. Semmai il PCI era un partito che si reggeva su un'ambiguità: il riformismo di fatto (Togliatti fin dal suo sbarco a Salerno sapeva bene che in Italia la rivoluzione non s'aveva da fare) e l'amicizia con Mosca, condita con improbabili invenzioni ideologico-semantiche ("la Terza via"). Quando quell'ambiguità è caduta - ovvero quando il comunismo sovietico si è sbriciolato - semplicemente non è riuscito ad andare al di là del cambio del nome, non ha saputo darsi una nuova identità. Questo significa che prima del 1989 la sinistra italiana non aveva conosciuto delle spinte verso il rinnovamento? Certo che sì: il '68 proprio questo è stato. Il '68, la scuola di Francoforte, il pensiero antiautoritario, una parte della controcultura pop, il femminismo, l'ecologismo, il terzomondismo ecc. E poi gente come Alex Langer, cattolico, lottacontinuista, "neuelinkista" e verde, che ad un certo punto ebbe persino la sfrontatezza di proporsi come nuovo segretario del PCI. Ma il partito ha sempre guardato con sospetto a tutto questo, a volte ignorando deliberatamente la carica di novità che ne scaturiva (salvo a servirsene furbescamente, cercando di cavalcare, negli anni '80, il movimento pacifista, all'epoca dell'installazione dei missili Pershing e Cruise in risposta agli SS20 sovietici, probabilmente dopo averne parlato con Mosca). Si fosse comportato diversamente, forse l'estremismo ideologico non avrebbe attecchito così tanto, in Italia? Chi lo sa. Certo quando Berlinguer arrivò a dire alcune cose lodevoli sulla sobrietà e sulla paura che gli faceva il socialismo reale era ormai un po' tardino...
Nel 1989 in compenso tutto quel magma si era raffreddato. C'era stato l'avvento del craxismo, l'inizio della disoluzione della classe operaia come soggetto politico, e altrove Reagan, la Tatcher... E dunque, dove avrebbero potuto andare a parare gli ex-militanti del PCI? Per me la risposta è chiara (oggi; ovviamente non lo era allora): nel liberalismo. Che non è, come si è sempre pensato da noi, necessariamente di destra (non a caso l'equivalente negli Usa della nostra sinistra non è un partito socialista o laburista ma i liberal).
Parliamo di quella parte di pensiero liberaldemocratico figlio dell'Iluminismo e delle rivoluzioni borghesi più che di quelle proletarie, quindi di un liberalismo "di sinistra", che guarda a Stuart Mills piuttosto che a Adam Smith. Un liberalismo fatto sostanzialmente di due cose:
- lotta per i diritti (individuali, non di classe, i diritti del cittadino, dell'uomo e della donna, quindi diritti di matrice liberale come è di matrice liberal-democratica, in fondo, la Carta dei diritti universali dell'Onu);
- difesa di alcuni importanti valori (i valori di sempre della sinistra europea: giustizia, eguaglianza delle possibilità, laicità, e mettiamoci vicino la solidarietà che non appartiene propriamente al bagaglio liberale ma può entrarci agevolmente, e mettiamoci anche il valore della ricerca della felicità della costituzione americana, perché no).
Purtoppo sui diritti individuali in Italia non c'è mai stato nessuno se non i radicali (e occasionalmente i socialisti); sul versante dei valori, invece, i campioni assoluti sono i cattolici. Per questo anche molti non-credenti spesso si trovano più a loro agio con i cattolici (certi cattolici) che con tanta gente di sinistra, che più che cinica, come è stato scritto sul Corrierone, mi pare disillusa, svuotata, oppure assurdamente manichea.
Riuscirà il nuovo leader del PD a cambiare le cose? Il punto non è questo. Franceschini è impegnato nell'impresa improba di far convivere e amalgamare due culture politiche, e io spero ci riesca. Ma il punto che dovrebbe stare a cuore a tanta gente di sinistra, qualunque cosa oggi questa parola significhi, è se la sinistra avrà la forza (intellettuale e morale) di darsi un nuovo statuto, un nuovo bagaglio di idee e di strumenti di analisi, una nuova prassi politica.
Mi si dirà che il problema non si pone perché la sinistra è morta. E non è vero, in Spagna ad esempio è viva e vegeta anche se i nostri pidiessini prodiani per anni ci hanno raccontato che qui da noi si stava meglio (perché si stava peggio?).
Mi si dirà che tutto questo non serve, che sa di polverosi congressi e pensosi tomi di filosofi, mentre oggi per fare politica è sufficiente un buon leader carismatico, capace di giocarsi la carta del populismo. E anche questo non è vero, la politica dev'essere fatta di idee, soprattutto di idee.
Fortunatamente, se guardo a come si sta muovendo Obama, mi sento un tantino confortato.