"C'è da chiedersi - ha detto ieri il presidente della Camera Gianfranco Fini, nel 70esimo anniversario dell'emanazione delle leggi razziali - perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica».
No, dico: come si fa ad essere in disaccordo con Fini? Onestamente non si può. Sia perché allude ad una colpa collettiva che non sminuisce affatto le colpe individuali, ma fa intravvedere il volto più spaventoso dei genocidi, quello legato alla distratta accondiscendenza o alla tranquilla indifferenza delle masse; sia perché Fini nel suo discorso ha citato - a proposito di quel "prima delle leggi razziali" - anche il colonialismo (e finalmente! Adesso attendiamo che quello che fecero i vari Graziani e Cesare de Vecchi venga insegnato nelle scuole, magari con l'ausilio dei libri del buon Del Boca).
Però, insomma: l'impressione è che mentre Fini dice certe cose - impegnative, scomode, non di circostanza - gran parte degli esponenti del centro-sinistra siano occupati in tutt'altre faccende, dalle polemiche "inter loro" agli appalti furbetti. Fa un po' girare i maroni, nevvero?
Riguardo all'indifferenza o alle complicità della chiesa cattolica (più le seconde della prima, in effetti, e lo dico sentendomi emotivamente distante dall'anticlericalismo di maniera) si considerino altri 2 eventi più recenti: il primo riguarda padre Athanase Seromba, ruandese di etnia hutu, prete cattolico, condannato nel marzo di quest'anno all’ergastolo per aver commesso atti di genocidio durante la mattanza che sconvolse il Paese africano nel 1994 (la sentenza della Corte d’appello del tribunale internazionale per il Ruanda ha ribaltato quella, mite, di primo grado con la quale l'imputato era stato condannato a 15 anni). Durante il genocidio Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi, successivamente massacrati dalle milizie genocidiarie. In seguito, sotto mentite spoglie, riparò in Italia, in Toscana (parrocchia di S. Mauro a Signa, poi S. Martino a Montughi) e venne a lungo "protetto" dall'arcidiocesi di Firenze e dallo stesso Vaticano, che si oppose all'estradizione (la vicenda è illustrata nel dettaglio in molti articoli della stampa nazionale e estera e in diversi siti, ad esempio qui: www.democrazialegalita.it/marco/marco_seromba_9settembre2005.htm; vedi anche: http://club.quotidianonet.ilsole24ore.com/?q=node/1573).
La seconda, più grave, anche se controversa, è la beatificazione, da parte di papa Woytila, di Aloysius Stepinac, arcivescovo di Zagabria che durante la Seconda guerra mondiale si compromise con il dittatore fascista Ante Pavelic, responsabile delle stragi delle milizie ustascia (gli "insorti", con basi per l'addestramento anche in Italia, fra cui, pare, a Riva del Garda) ai danni soprattutto dei serbo-ortodossi (forse 7-8oo.000 i morti causati dalla pulizia etnica). Così Wikipedia riassume la vicenda di Pavelic dopo la guerra (Wikipedia non è una fonte sempre attendibile ma comunque, in questo caso, mi pare riassuma efficacemente): "Nel 1945, dopo aver guidato fino all'ultimo le truppe croate, Pavelic riuscì a fuggire dapprima in Austria, quindi a Roma e infine in Argentina. La Chiesa Cattolica di Roma e Papa Pio XII, che era stato sempre particolarmente benevolo nei suoi confronti, furono sospettati di averne favorito la fuoriuscita."
Stepinac invece fu processato e condannato (ai lavori forzati, anche se morì agli arresti domiciliari, nel 1960). I sostenitori di Stepinac sostengono, va detto, che in realtà l'arcivescovo prese più volte le distanze dal regime ustascia (che pure lo decorò con medaglia al merito nel 1944); una parte del mondo cattolico lo considera insomma un martire del comunismo titino.
Sia come sia, è un fatto che fino alla caduta del comunismo la chiesa cattolica si schierò spesso con regimi se non genocidiari quantomeno fortemente reazionari (compreso quello di Franco in Spagna).