The reader

L'Olocausto è probabilmente uno dei temi più difficili su cui costruire un film. Ho visto ieri "The reader", di Stephen Daldry, del 2008; era la Giornata della Memoria.
Quando guardo un film del genere ho sempre il terrore che ad un certo punto mi deluda; le insidie sono infinite, ad ogni svolta della storia. Poteva scivolare sul patetico, e sarebbe stato uno spreco. Poteva indulgere in un eros un po' troppo torbido e patinato, e sarebbe stato un altro film. Poteva virare troppo decisamente in politica, poteva chiudere in maniera consolatoria, e di nuovo, qualcosa si sarebbe perso.
A me pare che non sia successo niente di tutto questo. Un'opera magistrale.

Nella Germania del 1958 - ancora povera, ci si scalda con il carbone, insomma, quel mondo lì, che sembra lontano anni luce ma appartiene all'altroieri - uno studente 15enne, mentre torna a casa da scuola, si sente male, deve vomitare. Si ripara in un androne: una donna, sui 35, bionda, naturalmente attraente, "spiccia", è gentile con lui, lo aiuta, lo rimette sulla strada di casa. Il ragazzo passa tre mesi a letto, ma non dimentica. Quando si rimette, va a trovarla. Comincia una storia, in cui la donna, Hanna, bigliettaia nei tram, una splendida Kate Winslet, inizia il ragazzo (lo chiamerà sempre così, il nome è Michael) al sesso, e lui in cambio le legge dei libri. La storia dura una estate; il ragazzo sta crescendo, la donna lo rimanda "dai suoi amici".
Passano alcuni anni; adesso il ragazzo è all'università, studia Legge. Il suo professore porta lui e altri studenti ad assistere ad un processo ad alcune Kapò, guardiane di Auschwitz e altri lager; fra le imputate, Hanna. Il ragazzo è sconvolto, dalla scoperta del passato della sua amante e, anche dalla freddezza, dal vuoto morale che le parole con cui risponde alle domande incalzanti del pubblico ministero lasciano intravvedere.
Ma Michael intuisce anche un'altra cosa: che Hanna è analfabeta. Questo elemento costituirebbe una prova a favore della donna, la metterebbe al riparo dall'accusa più grave, quella di essere stata la principale responsabile della morte di 300 donne ebree, lasciate morire nel rogo di una chiesa dove le sorveglianti le avevano rinchiuse prima di un bombardamento. Per Michael si pone un dilemma non solo esistenziale ma anche attinente all'etica professionale: se è a conoscenza di una prova così, che potrebbe cambiare la decisione dei giudici, deve rivelarla alla Corte. In questo modo Hanna andrebbe incontro ad una pena più mite. Ma Hanna è comunque colpevole, e non è pentita. Dunque, che fare? A ciò si aggiunge un conlfitto molto più intimo e personale: il ragazzo deve adoperarsi per alleviare le pene future della donna che lo ha allevato all'amore, oppure agire in nome e per conto della giustizia, e lasciare che essa si abbatta con durezza su una persona che si è macchiata di una colpa mostruosa? Michael non rivela la prova: le altre Kapò se la cavano con 4 anni di carcere, Hanna viene condannata all'ergastolo.

Gli anni passano. Michael, Ralph Fiennes, si è spostato e separato, ha una figlia, vive solo. Registra su delle cassette i romanzi che un tempo leggeva ad Hanna, le spedisce le cassette in carcere. Lei lentamente imparara a leggere e a scrivere. Scrive a Michael, l'unico suo contatto con il mondo esterno. Lui non risponde mai. Il ragazzo precoce è diventato un uomo triste, disilluso, sofferente.

Hanna ora è vecchia, Michael sempre solo. Dal carcere lo chiamano per avvisarlo che Hanna sta per uscire, che nessuno l'aspetta tranne, eventualmente, lui. Michael finalmente l'incontra, nella mensa della prigione. Non è la catarsi che forse lui (e noi) ci saremmo potuti aspettare. Per Hanna, che è una donna anziana ma conserva ancora qualche tratto dell'antica bellezza, "i morti sono morti", non c'è altro da dire.
Il giorno prima di uscire Hanna si uccide, in cella, lasciando in eredità a Michael una piccola somma, affinché la doni alla figlia dell'unica donna sopravvissuta al rogo della chiesa, a sua volta una ex-deportata.

Epilogo: Michael è negli Usa, va a trovare questa "erede". Vive in una bella casa a New York, sta invecchiando. Non si dimostra commossa, a sua volta rifiuta di dare a Michael la consolazione di una "catarsi".
"Spesso mi chiedono cosa ho imparato nel campo - dice - ma noi non eravamo là per imparare."
Il film si chiude con Michael che conduce la figlia sulla tomba di Hanna, e comincia a raccontarle la sua storia.

C'è molta materia, in questo film. C'è, nel comportamento di Michael, una pietà inflessibile, che non cede a compromessi con la morale, che non concede un facile perdono. C'è la fascinazione per la parola, il potere del libro, delle storie narrate, che però, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non basta, tiene in vita, sì, ma non redime. E c'è la natura umana in tutta la sua durezza, la sua irriducibilità; gli anni passano, le pene si scontano, non necessariamente ciò significa trovare pace, non necessariamente si approda ad una nuova maturità, alla "saggezza". C'è la luce accecante dell'eros (qui fra persone di età diversa), la vita nella sua espressione più elementare, pura, magnifica,forse anche crudele (l'Hanna che chiede al "ragazzo" di leggerle dei libri prima di fare l'amore replica un comportamento che le era solito anche quando faceva la sorvegliante del lager, scegliere giovani ragazze ebree che le tenessero compagnia, assieme ad un libro, per la notte). E c'è l'altra faccia dell'eros, l'oscuro vissuto che l'amante si porta appresso, ciò che siamo destinati a non conoscere, di là dai sensi, di là dalla grande "O" dell'orgasmo.
Hanna e' un personaggio affascinante: un'amante generosa, anche se spesso ruvida, scostante, "selvatica", una donna adulta che non si accanisce sul ragazzo, lo lascia andare, pur dopo averlo sedotto e dopo essersi rivolta a lui, a volte, con molta durezza.
Ma e' anche e soprattutto una persona ottusa, che non comprende l'entità di cio' che ha fatto, che nel giustificarsi per il non avere aperto le porte della chiesa dove le prigioniere stavano bruciando vive si giustifica dicendo che "aveva delle responsabilita'". In altre parole la banalita' del Male della Harendt in una delle sue tante personificazioni. Hanna non prova vergogna per il suo passato nazista, ma prova vergogna per il suo analfabetismo, che non confessa mai, anche se cio' le costa una condanna durissima. Quali sono i percorsi della vergogna? Quanto questa emozione può essere inadeguata?

C'è infine naturalmente, nel film, il tema della "doppia colpa": individuale, dei singoli che il Male l'hanno commesso, in prima persona, e quella più generale di una nazione, un popolo, una cultura. Inutile dire che il film non lo risolve, né potrebbe farlo. Ci dice però alcune cose: che ci sono scelte che si possono o non si possono fare (Hanna non venne reclutata a forza, scelse volontariamente di lasciare il lavoro in fabbrica perché aveva sentito che "le SS reclutavano sorveglianti"). Ci dice inoltre che la giustizia dell'uomo spesso arriva tardi, non incide abbastanza a fondo, e

che non è un balsamo sufficiente per certe ferite. Come non lo è la cultura, non lo sono, in ultima analisi, nemmeno i libri (come ha detto Abraham Yehoshua recentemente; e sì, se bastasse la cultura, se bastassero i libri, la nazione di Goethe e di Mann non avrebbe partorito i campi di sterminio, quella di Manzoni e Foscolo non avrebbe usato l'iprite contro gli etiopi e non avrebbe varato le leggi razziali, e forse quella Yehoshua e Oz forse non annovererebbe fra gli episodi della sua breve, tragica storia Sabra e Chatila e l'operazione "Piombo fuso").

Gianantonio Stella a Trento

Ieri sera conferenza a Trento di Gianantonio Stella, che nei giorni scorsi aveva criticato dalle colonne del suo giornale il Trentino (e l'Alto Adige) per gli sprechi dell'Autonomia e in particolare gli stipendi troppo alti pagati ai politici locali. Va detto che in verità il suo articolo era la ripresa di un pezzo pubblicato sulla Sudtiroler Tageszeitung, testata diretta da Arnold Tribus, che metteva a confronto lo stipendio, poniamo, di Durnwalder, con quelli di Obama o di Ban Ki Moon.
Io rispetto molto Tribus; penso che il mio esordio da giornalista sia avvenuto in qualche modo proprio con lui: avevo 14 anni, e sono andato a "intervistarlo" (grossa parola) perché bisognava sentire qualcuno informato sui fatti riguardo alla famosa dichiarazione di appartenenza etnica/linguistica, che all'epoca (1980 se non sbaglio) muoveva i suoi primi passi (l'Interscolastico, che raccoglieva gli studenti di sinistra di Bolzano, era critico nei confronti di questa "schedatura etnica", come la chiamavamo, poi divenuta un cardine dell'Autonomia sudtirolese).
Detto questo, e senza voler mettere in dubbio le cifre riferite da Tribus e riprese da Stella, l'incontro di ieri sera mi è parso debole. Il tema era caldo, caldissimo. La casta. La casta e l'Autonomia.
Forse è inevitabile che quando vedi un giornalista famoso misurarsi con temi che conosci bene, ne rimani deluso. Ti sembra sia vago, impreciso, che condisca le sue lacune con la bonarietà e il fare istrionico del cronista consumato...
Stella sul Trentino non ha detto nulla di particolare. Le sue critiche principali hanno riguardato le circoscrizioni (fermo restando che, forse, non dovrebbero prevedere compensi per chi vi partecipa, non sono un elemento della cosiddetta "democrazia partecipata"? E non è proprio la carenza di democrazia "dal basso" ad essere stata indicata, negli anni scorsi, come una delle principali lacune degli attuali assetti democratici? Possibile che la crisi economica abbia spazzato via quel dibattito?)
Stella poi ha detto che, sì, l'Autonomia non è in discussione, ma il contesto intorno ad essa è cambiato (oggi c'è la crisi) e bisogna tenerne conto: e da qui in poi ha elencato tutta una serie di ben noti problemi e di ben note mancanze della politica nazionale, in particolare i tagli a scuola, sanità, persino cooperazione allo sviluppo (un elemento importante per sostenere la nostra politica estera, ha precisato, non solo un atto moralmente dovuto per riequilibrare le disparità fra paesi ricchi e paesi poveri). Bene, se ciò è vero - e lo sappiamo, che è vero - il discorso di Stella sarebbe dovuto suonare per ciò che era, il miglior spot per l'Autonomia. Un'Autonomia che destina mediamente molte più risorse proprio a queste voci. Singolare semmai è il fatto che poi, spesso, essa venga rimproverata, anche dai giornali, proprio per questo: ad esempio qualche giorno fa, perché la spesa media pro capite in Trentino per la scuola è, poniamo, 1500 contro una media nazionale di 900 (cifre indicative, giusto per capirsi). Venendo alla cooperazione allo sviluppo, settore che conosco bene, il Trentino è l'unica regione in Italia che destina una percentuale fissa del proprio bilancio a questa voce: mica uno sproposito, intendiamoci, lo 0,25%. Ma già questo è molto più di ciò che fanno mediamente le altre regioni e persino gli stati e in ogni caso costituisce una certezza sul fronte degli stanziamenti (se cresce il bilancio provinciale, crescono anche i soldi per gli aiuti ai paesi poveri, e viceversa, com'è giusto).
Semmai, è anche qui, di nuovo singolare che spesso certe forze politiche o anche alcuni cittadini "comuni" critichino questa disposizione con slogan del tipo:"I soldi trentini ai trentini!" (come se qui si coprisse il Terzo mondo di soldi e i residenti fossero affamati).
Per non dire delle protezioni sociali, altro settore individuato da Stella: ebbene, la delega sugli ammortizzatori sociali è proprio una di quelle che il Trentino ha ottenuto con l'Accordo di Milano, impegnandosi fra l'altro a studiare percorsi e soluzioni che possano essere valide, un domani, anche per il resto del Paese. E il Trentino è, di nuovo, l'unica provincia che oggi ha il reddito minimo di garanzia, cosa che la rende più simile a certo Nord Europa che al resto d'Italia. Perché ci sono i soldi? Bene, ok. Allora discutiamo di questo, però, dei soldi, della ricchezza che si produce qui (sono soldi che derivano dal prelievo fiscale realizzato localmente, non trasferimenti dallo Stato). Discutiamo di questo e poi di sprechi (sprechi a cui certo i trentini o gli altoatesini non sono immuni, come nessuno, visto che l'uomo è una bestia egoista, lo sapeva pure Hobbes).

Allora: ovviamente l'Autonomia è criticabile, per molte ragioni. Se questo era il senso della provocazione di Stella - e qui non voglio imbarcarmi in dietrologie perché non le amo - allora ci sta. Da altoatesino, ne ho già citata una prima: la politica di separazione etnica attuata per tanti, troppi anni in Alto Adige.
E altrettanto ovviamente possono esserci delle "diseconomie". Insomma, soldi che potrebbero essere impiegati meglio o risparmi che potrebbero essere realizzati da subito (circoscrizioni, comuni, Provincia ecc.). Tutto è sindacabile. Ma Stella non mi pare abbia detto alcunché di circostanziato, limitandosi a dire che non ci sono tabù, che tutto può e deve essere messo in discussione. Ci mancherebbe! Qualcuno se lo ricorda, Norbert Kaser, il poeta tirolese? Fu lui a dire che non c'erano "vacche sacre". Ma Kaser pagò un prezzo ben pesante per certe affermazioni, ai tempi suoi in odor di "scomunica".
A me pare che a conti fatti le cose più interessanti ieri sera le abbia dette un professore, Cerea (eh, sti' professori!). Dati alla mano, la spesa corrente, in Trentino, cioè la spesa per il funzionamento della "macchina amministrativa", non è significativamente superiore a quella delle altre regioni italiane (a fronte di competenze enormemente maggiori). Che cosa allora è superiore? La spesa in conto capitale, la spesa, cioè, per investimenti. Su questa, ha aggiunto Cerea, si può ragionare. E perché no? Qualcuno potrebbe dire che investire così tanto in ricerca è uno spreco, qualcun altro potrebbe trovare Metroland un azzardo, qualcun altro ancora obiettare che in Trentino si costruisce troppo (Cerea, appunto). Ovviamente, ognuno ha le sue opinioni in proposito.
Ma è un fatto che solitamente ridurre le spese correnti e crescere quelle per investimenti viene considerato un comportamento virtuoso, da parte di un'amministrazione, perché gli investimenti sono cose che restano, cose che lasciamo ai nostri figli (e che non bruciano ricchezza).
Non dovrei dire io queste cose, non dovrei dirle a voce alta, visto che lavoro per l'amministrazione. Ma da cittadino - da cittadino di origini non trentine e che non prova un attaccamento viscerale, atavico, per l'Autonomia, se non altro perchè i miei genitori non hanno contribuito a costruirla, essendo nati rispettivamente in Friuli e Veneto - lo sento un po' come come un "dovere intellettuale".

Personalmente sono favorevole alla decrescita felice, qualsiasi cosa voglia dire (vivere con meno? dare tregua all'ambiente, e prima ancora all'uomo?), e sarei favorevole anche a politiche che vadano in questa direzione, ma temo che chiedere ad un amministratore di imboccare una strada del genere sia umanamente troppo. La spinta deve arrivare dal basso, semmai. Certo, fin che siamo tutti impegnati a cambiare computer e telefoni una volta all'anno se non ogni 6 mesi, fin che siamo tutti intruppati nella corsa dei topi, dubito che si potrà costruire una società diversa, basata su lentezza, profondità, dolcezza, amore.
Questi però sono discorsi "altri", che esulano dai ragionamenti di Stella e dal suo "sano" pragmatismo nordestino, così lontano dall'utopismo langeriano (che dovrebbe appartenere anche a Tribus, il quale di Langer è stato braccio destro). Se il mondo marcia verso l'orizzonte magnifico e progressivo dello sviluppo ad oltranza, la vera ideologia globale, cerchiamo di governarlo e di non lasciarlo in mano a chi non ha coscienza, visione, senso del limite, insomma, a chi non ha le qualità morali e intellettuali per pilotarlo. Giustamente Stella parlava di adeguatezza delle classi dirigenti; ma su questo punto in particolare neanche lui mi pare abbia molto da dire, sulle terre dell'Autonomia.
Mi si conceda un'ultimo appunto sugli stipendi: è stato interessante sentire ieri in un intervento dal pubblico che, sì, negli Usa forse gli stipendi di un senatore o persino di un presidente sono molto più bassi che da noi (a fronte, ovviamente, di responsabilità assai maggiori, e qui Stella sfonda una porta aperta quando dice che Obama deve occuparsi dell'Iran e Durnwalder della valle Aurina); ma che lì la politica è considerata un investimento per la carriera. Quando scade il suo mandato, il politico viene cooptato in qualche cda e inizia a guadagnare milioni di dollari. Si dirà: beh, è perché quelli sono politici di razza, mica come i nostri. Davvero è così? Quel Santorum, (di origini trentine, fra l'altro) è davvero un genio della politica? Si dirà inoltre: tanto quelli sono soldi dei privati, se una compagnia petrolifera decide di ingaggiare un ex-presidente o un ex- ministro degli esteri sono affari suoi. Di nuovo, lo pensiamo davvero? Non abbiamo mai avuto sentore degli intrecci spaventosi fra interessi pubblici e privati dell'era Bush (ma non credo che se prendiamo a metro di misura altre amministrazioni, anche democratiche, il risultato sia diverso)? Siamo proprio convinti che esista una netta differenza fra politiche pubbliche e fortune private? Che le seconde non debbano molto, moltissimo, alle prime? Dopo Berlusconi?

John Cale: Style it Takes

John Cale sarà in Italia a marzo per 3 date:

15 Marzo – Spazio Mil (Sesto San Giovanni)- € 23,00
16 Marzo – Orion Club (Ciampino) – € 23,00
17 Marzo – Hiroshima Mon Amour Club (Torino)

Qui il capitolo finale del mio (ormai temo introvabile) "Music Box", (Curcu & Genovese edizioni, Trento, 2006) dedicato ad un concerto di Cale (gennaio 2001, se non sbaglio).

EXIT: STYLE IT TAKES

Una sera di gennaio venne a suonare John Cale. Suonò in un teatro costruito ai primi dell’Ottocento, un teatro vero, un teatro nelle Alpi retiche, con i palchi, gli stucchi, i velluti rossi, il loggione, la platea. Quel posto era stato inaugurato il 29 maggio 1819, con la Cenerentola di Rossini, scandalizzando i benpensanti (in una vivace cronaca dell'epoca si legge che "le persone sagge e religiose non potevano darsi pace nel vedere scelta una giornata di tanta divozione…”. Infatti era la vigilia di Pentecoste). La paternità dell’idea – ardita, per i tempi - spettava a un personaggio bizzarro, la cui prima attività era stata la vendita di dolciumi, poi la gestione di un caffè. Un self made man, che raccolse parte dei soldi per la costruzione dell'edificio vendendo in anticipo i palchi alle famiglie nobili del circondario.
Un tipo così sarebbe piaciuto ad Andy Warhol, sicuro.
In sala c’erano a stento cinquanta spettatori, compresi noi (unici due coniugi del rock fra singles disillusi e separati in casa). Un pubblico di carbonari, a dirla tutta, i più giovani avevano passato da un pezzo i trent’anni, i più vecchi potevano essere già in pensione.
Cale uscì fuori con i pantaloni di pelle, gli stivaletti e una t-shirt nera. Imbracciò la chitarra acustica, mise un piede sopra la sedia che qualcuno aveva posizionato al centro del palco, e attaccò Ship of Fools. Era l’emblema della solitudine. Non disse molte parole al pubblico; ma dava la sensazione di una maggiore disponibilità rispetto a quella mostrata da Lou Reed, per lo meno nei concerti a cui avevo assistito io. Si alternò alla chitarra e al pianoforte, concludendo ogni canzone fra uno scroscio di applausi che suonavano come mercurio sul velluto.
Nel bis fece anche Style it takes, canzone tratta dall’omaggio a Warhol inciso assieme a Reed nel 1989, dopo la morte dell’artista, Songs for Drella.
Mi chiedevo dove avrebbe dormito quella notte, e con chi, questa leggenda vivente del rock 'n' roll, questo gallese dal volto segnato e dai modi indifesi, piovuto qui come una meteora. Mi chiedevo se quel concerto avrebbe mai lasciato una traccia nella sua memoria, e nel suo karma. Se mai avrebbe ricordato le canzoni suonate per uno sparuto gruppo di fans nel Teatro fra le Montagne Innevate, in una cupa notte d’inverno affacciata sulla soglia del nuovo secolo, il nuovo secolo che in nulla faceva presagire qualcosa di meglio rispetto a quello che ci eravamo appena lasciati alle spalle. Avrei voluto avere il coraggio di invitarlo a casa nostra, offrirgli un succo di mela, parlare un po’ con lui, fargli vedere le foto del nostro album di famiglia, e poi magari telefonare a Zebedeo, a Marco e a Ivo ("portatevi le mazze!"), alla Nadia, a Ezio, a Paolo, a Valeria, a Andy, a Roberto, a tutti quelli che avevamo conosciuto, per dirgli di venire, ma in fretta, in fretta, che non c'era tempo da perdere. Avrei voluto avere la forza e la presenza di spirito per portarlo con noi, oltre il sipario della notte, non per intervistarlo, non per il gusto di trascorrere qualche minuto assieme ad una popstar. Forse solo per metterlo a sedere nel nostro salotto marchiato Ikea e ringraziarlo. La sua musica era di quelle che ci avevano salvato la vita.

Dopo il concerto abbiamo fatto due passi in centro, abbracciati. Sentivo i tacchi delle nostre scarpe sul porfido della strada, e anche se avevamo subito qualche amputazione, stavamo ancora in piedi dopotutto, proprio come avevano cantato i Velvet Underground. Le strade deserte rilucevano di pioggia. I bambini quella sera ce li teneva una vicina di casa. Quella sera, per la prima volta dopo mesi, potevamo rimanere fuori tutto il tempo che volevamo.

Piste battute - parata - illuminazioni 2


Sul balcone si tratteneva il fiato, nell'attesa. Come per la comparsa di una star, annunciata eppure in forse, non del tutto scontato potesse concedersi, anche a noi, quella sera, così.
Geometria scintillante, orgoglio della modernità. Incompresa, piace a tutti. Relitto del passato, di una grandeur che non c'è più, un osare pazzo e sfrenato, sulla città già famosa, in faccia al mondo.

Fuori dalle piste battute - illuminazioni 1

A volte ci si allontana, basta passare via la rotonda e il centro commerciale, le piste percorse, le scale mobili, i negozi, i bar.
Dietro la spianata d'asfalto comincia la campagna. C'è una strada sterrata, forse, una pieve. Una donna sbatte una coperta con il battipanni, in balcone, quanto tempo che non vedevi una cosa del genere, uno di quei gesti del passato, come infilare un gettone scanalato nella sua fessura.
C'è il verso di molti diversi uccelli che non conosci. Un rumore di strada lontano.
Forse, nella luce azzurrognola di un gennaio indeciso, un passo di libertà.

IL DISCORSO CONCLUSIVO di Delmore Schwartz (frammento)


(...) Poi il vecchio professore tirò fuori uno specchio ovale.
"Non capisco il suo modo di fare, professor Duspenser", disse il rettore, tornando ad avvicinarsi.
"E io non capisco il suo", ribattè il vecchio strillando, e il pubblico stupito rise nervosamente.
Poi la pioggia si scatenò, i lampi scattarono nel cielo e i tuoni esplosero immediatamente dopo. Il vecchio intanto teneva lo specchio davanti al viso come per sistemarsi i capelli con civetteria.
"Ah" esclamò. "Quanto siete disposti a pagare per questo, per questa meravigliosa cosa che vi rimanda la vostra immagine? Quanto? Quanto tenete alla vostra stessa immagine come appare qui dentro?"
Uno studente gridò: "Quattordici dollari della Confederazione!" e il pubblico rise, di nuovo sollevato. Il vecchio tacque, come se cercasse di controllare una rabbia irresistibile. A quel punto il pubblico era del tutto affascinato, nonostante la pioggia.
"Ma uno specchio è pericoloso. E' una minaccia in casa e il cane non è in grado di fargli da guardia. Potete però guardarci dentro, anche se tutte le bugie dei vostri sporchi cuori come al solito vi proteggeranno. In realtà, un giorno potreste farvi la sorpresa di vedere quanto siete odiosi. O i figli. I figli possono vedervi mentre vi specchiate e scoprire che i vostri occhi sono fissi su escrementi!".
"Tutto questo è osceno e intollerabile", esclamò il rettore, dopodiché, rendendosi ancora più ridicolo, diede fiato al fischietto, tonalità di flauto, per chiamare la polizia del campus.
"Avete mangiato ciò che mangiano i porci, vi siete sostentati di ciò di cui si sostentano i porci, fino a ridurre un vecchio a guardare con occhi terrorizzati la società in cui deve vivere e morire. Siete al di là persino degli insulti. Come Isaia, io vi dico: Maledetti per i giardini che avete scelto. La Storia è morale da cima a fondo! Tutto ha il suo prezzo!".
Un lampo zigzagò in mille saette laggiù a occidente. la polizia del campus salì sulla pedana e condusse via un vecchio piangente. La figlia di mezza età che prima aveva cercato di fermarlo stava ora spiegando al rettore che il padre era malato da tempo e non era certo responsabile per ciò che diceva, e tuttavia aveva voluto accettare l'invito dell'università.
Il pubblico sgombrò, estenuato, perplesso e bagnato, discutendo, sotto ogni possibile punto di vista, dei pasticci dello storico.
Ritornò così la percezione della metropoli, stretta e alta su tutti i lati, piena di traffico, incidenti, commercio e adulterio, di mille negozi e palazzi e teatri, il ventre corso da nere ferrovie sotterranee, con le sue torri e i suoi ponti grandiosi, torbidi e privi di significato.
Intanto la sera grigio topo si stendeva impercettibilmente sopra i lampioni e i semafori, coprendo lo stridio delle ruote dei taxi sulla strada bagnata.

Delmore Schwartz, Nei sogni cominciano le responsabilità, Serra e Riva, Milano, 1990 (originale del 1937).

Ps: il discorso del presidente Napolitano, ieri sera in tv, era il miglior discorso che potesse pronunciare, sulla soglia del 2012, un uomo di stato italiano. A parte la resistenza fisica dimostrata nel leggerlo tutto (più di 20 minuti!), è stato sincero, onesto, lontano anni luce dal populismo falso e consolatorio di Berlusconi così come dal rozzo qualunquismo leghista. E' stato il discorso che andava fatto in un'Italia che con Monti ha decisamente svoltato, lasciandosi alle spalle lo spettacolo patetico e indecoroso che davamo prima. Un paese che sa di poter farcela e che vuole riprendere il posto che gli spetta in Europa e nel mondo.

Ps 2: perché la vita non stupisce mai? Perché sentire per l'ennesima volta, a 46 anni, parlare di sviluppo, di sacrifici necessari, di spesa pubblica in eccesso, di lotta all'evasione fiscale? Ma gli altri non si stufano? Sono solo io a sentirmi un po' afflitto da tutto questo, a desiderare che sullo schermo compaia un emulo di Dossetti (o di Allen Ginsberg) anziché un emulo di Degasperi? Un profeta anziché uno statista? O perlomeno uno che dica: ok, quando il debito pubblico è andato alle stelle (dal 1980, dice Napolitano, ma forse anche da prima, le baby pensioni le volle per primo Rumor nel 1973, pura era democristiana) IO C'ERO???