"Non c'è felicità nell'amore, tranne che alla fine di un romanzo inglese". Questa una delle sentenze che corredano il nuovo romanzo di Jeffrey Eugenides, "La trama del matrimonio". Abbiamo anche una citazione dai Talking Heads (il libro è ambientato all'inizio degli '80), e molti, moltissimi rimandi ad altra letteratura, nonché ad uno dei temi che andavano per la maggiore in quegli anni, ovvero lo strutturalismo, con il suo corollario di Barthes, Derrida, Eco ecc.
Dopo "Le vergini suicide" (da cui la Coppola trasse il suo fortunato film) e dopo "Middlesex", bel romanzo, premiato, in cui lo scrittore esplora anche le sue origini greche, con qualche incomprensibile ingenuità (una narrazione in prima persona nella quale, ad un certo punto, vengono descritte in terza azioni e intenzioni di un personaggio che il narratore evidentemente non può vedere e nella cui mente non può ragionevolmente entrare), eccoci di nuovo alle prese con una delle tante incarnazioni del Grande romanzo americano. Io mi sono tuffato in queste pagine, come già prima in quelle di Franzen (che con De Lillo forma il trittico degli autori contemporanei che seguo di più), perché, stranamente, pur essendo affascinato da tutto ciò che è altro, altri paesi, altre culture (Africa, in primo luogo) nella narrazione cerco, come la protagonista di Eugenides, ciò che mi è più familiare. Cerco romanzi che parlino di me, in cui trovare delle conferme, o una migliore messa a fuoco di ciò che devo avere già sentito o provato o sperimentato in prima persona, almeno una volta. E trovo tutto questo non negli italiani ma negli americani, nei loro affreschi generazionali, nella loro straordinaria capacità di mettere a fuoco intere epoche attraverso storie avvincenti. Qui si parla di amore - amore ai tempi dell'università, quindi potremmo essere dalle parti del romanzo di formazione - e l'amore, da sempre, è il tema.
Il libro suggerisce, attraverso uno dei suoi personaggi, che il romanzo è nato proprio per raccontare matrimoni, e che dopo la messa in crisi di questa istituzione ha iniziato ad incontrare delle difficoltà. Tuttavia, qui non siamo in presenza della storia di un matrimonio ma di un amore a tre, nato in un college. Lei, ragazza di buona famiglia (ma non la classica famiglia borghese, una famiglia "scialla", diremmo oggi), innamorata dei libri, lui, ragazzo triste con sindrome maniaco-depressiva, l'altro lui, ragazzo triste con tendenze mistiche.
La trama la potete trovare descritta un po' dappertutto sul web, è una bella trama, semplice, diretta, vi divertirà. Vorrei però soffermarmi su alcuni dettagli, nei quali mi sono, per così dire, rispecchiato, e che credo siano paradigmatici di una generazione.
Innanzitutto, come ho già detto, è un romanzo pieno di libri e di autori. I protagonisti ne sono innamorati, come lo eravamo in molti, perdutamente, negli anni '80; uno di loro decide persino di partire per l'India con uno zaino pieno di volumi (e mica robetta, da Sant'Agostino a "L'imitazione di Cristo"). Sono ancora così importanti i libri? Lo sono, almeno all'università? Credo di no. Qui eravamo prima della rivoluzione informatica, semplicemente. E prima del dilagare del video. Un romanzo del genere ambientato ai giorni nostri dovrebbe essere pieno di password, chat, Blackberry, e-book, sms, citazioni estrapolate da Wiki, e poi di youtube, youporn, videoarte, installazioni ecc. Eppure...sì, c'è stata un'epoca in cui avere o non avere certi libri in una libreria faceva, almeno agli occhi di qualcuno, la differenza. Un'epoca in cui si potevano passare intere serate in osteria a discutere delle cose di cui i libri parlavano. Un'epoca in cui i libri potevano servire persino a sedurre, a fare innamorare. O a consolare. Anche quelli concepiti per tutt'altro scopo, come il famoso "Frammenti..." di Barthes.
E poi, lo strutturalismo, la linguistica, la semiotica, la decostruzione del testo. Ho orecchiato queste tematiche grazie agli studi di linguistica di mia moglie, ma essendo uno storicista, le guardavo con sospetto. Tuttavia, effettivamente, il dibattito lì girava. Arrivava persino nelle aule scolastiche, dove gli insegnanti invitavano sì a leggere il giornale, ma per analizzare strategie e stili, non per dibattere i contenuti. E oggi? Suppongo che da un lato tutti siamo diventati più smaliziati, pratichiamo a priori una decostruzione inconscia di tutto ciò che l'universo mediatico ci propone, prima di entrare nel merito e, semmai, concedere la nostra fiducia. Al tempo stesso, credo che nessun lettore di romanzi abbia più alcuna voglia (ma ce l'ha mai avuta?) di decostruire un testo, o di sostituire il lettore con il narratore, il che in fondo dimostra quanto fossero autoreferenziali certe teorie, quanto servissero a spingere le carriere accademiche, a scapito delle esistenze/esigenze reali di chi compra un romanzo (o lo prende a prestito in biblioteca).
Comunque sia, Eugenides è uno scrittore della vecchia guardia (pur essendo giovane). Racconta una storia, lo fa con dovizia di particolari, chiede al lettore capacità di immedesimazione. Scrive libri che invogliano ad andare avanti per vedere cosa succede nella pagina successiva. Libri per persone a cui piace passare il tempo in compagnia di storie di personaggi inventati raccontate con abilità (periodicamente leggo sui giornali dichiarazioni di tizi un po' snob che trovano questa passione una perdita di tempo, e invitano, semmai, ad appassionarsi alle storie vere, cioè alle biografie e ai reality. Li trovo sempre un po' malsani).
Eugenides racconta di situazioni e stati d'animo per i quali siamo passati tutti: le feste, i viaggi all'estero, il ricovero dell'amico in un reparto psichiatrico, il sesso fatto bene o malissimo, l'infatuazione per la ragazza/il ragazzo che ti tiene sulla corda ma vuole esserti solo amico/a, gli ambienti degli istituti di ricerca... Ma come ogni buon narratore illumina la materia da una angolazione particolare (che è poi quella che ha conosciuto in prima persona, essendo il college del libro quello stesso nel quale ha studiato). Così, tutto sembra non solo vero, ma più vero.
Come in Franzen, va detto, anche in Eugenides c'è molto divertimento fra le righe; poi c'è sofferenza, ovviamente, la sofferenza amorosa, quella più importante, nell'economia di una vita "normale", cioè una vita non devastata da traumi infantili irrecuperabili o eventi bellici (e fin quando non sopraggiungono le malattie, ovviamente).
La chiave, perciò, è il realismo, come direbbe Lou Reed, anche se qui non c'è il suo realismo truce, siamo pur sempre negli anni '80. E forse è proprio grazie al realismo che si riesce a leggere le pagine degli americani con tanto piacere (De Lillo fa un po' eccezione: lì le cose si complicano, e lì no, in effetti non si ride mai. In compenso, c'è un registro narrativo forse più alto, più sperimentale, perlomeno in "Underworld").
Nel suo romanzo Eugenides semina molte chicche. La parte di cui lo scrittore dichiara di essere - forse giustamente - più orgoglioso, è quella che racconta la progressione della malattia mentale, della psicosi maniaco-depressiva; in queste pagine Eugenides sembra voler rivaleggiare con il Franzen de "Le correzioni", che entrò con sbalorditiva sicurezza nella testa di un malato di alzheimer (Franzen, per la cronaca, è rimasto imbattuto). Ma ci sono anche altre cosette. Lo smarrimento dell'americano a Parigi, l'imbarazzante integralismo proprio di una certa stagione della vita (in questo caso, incarnato da una giovane femminista, che trova censurabile leggere Hemingway), e, ad un certo punto, anche Peter Handke, e la cosa mi ha fatto un po' sorridere perché per iniziare "La trama del matrimonio" ho messo momentaneamente da parte proprio un libro di Handke. Handke, nella fattispecie "Infelicità senza desideri", come il simbolo dello scrittore concettuale amato dagli strutturalisti, del quale si indagano le strategie narrative, gli oscuri moventi criptoletterari.
Beh, Handke è agli antipodi da questo genere di narrativa. Ho passato, recentemente, ore serene (se non felici) con "Lento ritorno a casa". Una serenità data forse dal potere ipnotico (soporifero?) di certe pagine, di certe infinite descrizioni di paesaggi, di nuovo americani. Nell'era post-strutturalista, si possono leggere cose così lontane tra loro senza avvertire alcuna contraddizione. Nel supermercato della cultura contemporanea, Handke può anche stare vicino a Eugenides.
Ma: e l'amore, alla fine, come ne esce? Non sono ancora arrivato in fondo alle 478 pagine del romanzo (edito in Italia da Mondadori, nella traduzione di Katia Bagnoli) ma la mia impressione è che verrà confermata l'affermazione di Amy Winehouse: un gioco in perdita.
P.s. mi accorgo ora che in questa recensione ho parlato forse più di me che del romanzo. Allora, questa è una recensione decostruzionista.