John Cale sarà in Italia a marzo per 3 date:
15 Marzo – Spazio Mil (Sesto San Giovanni)- € 23,00
16 Marzo – Orion Club (Ciampino) – € 23,00
17 Marzo – Hiroshima Mon Amour Club (Torino)
Qui il capitolo finale del mio (ormai temo introvabile) "Music Box", (Curcu & Genovese edizioni, Trento, 2006) dedicato ad un concerto di Cale (gennaio 2001, se non sbaglio).
EXIT: STYLE IT TAKES
Una sera di gennaio venne a suonare John Cale. Suonò in un teatro costruito ai primi dell’Ottocento, un teatro vero, un teatro nelle Alpi retiche, con i palchi, gli stucchi, i velluti rossi, il loggione, la platea. Quel posto era stato inaugurato il 29 maggio 1819, con la Cenerentola di Rossini, scandalizzando i benpensanti (in una vivace cronaca dell'epoca si legge che "le persone sagge e religiose non potevano darsi pace nel vedere scelta una giornata di tanta divozione…”. Infatti era la vigilia di Pentecoste). La paternità dell’idea – ardita, per i tempi - spettava a un personaggio bizzarro, la cui prima attività era stata la vendita di dolciumi, poi la gestione di un caffè. Un self made man, che raccolse parte dei soldi per la costruzione dell'edificio vendendo in anticipo i palchi alle famiglie nobili del circondario.
Un tipo così sarebbe piaciuto ad Andy Warhol, sicuro.
In sala c’erano a stento cinquanta spettatori, compresi noi (unici due coniugi del rock fra singles disillusi e separati in casa). Un pubblico di carbonari, a dirla tutta, i più giovani avevano passato da un pezzo i trent’anni, i più vecchi potevano essere già in pensione.
Cale uscì fuori con i pantaloni di pelle, gli stivaletti e una t-shirt nera. Imbracciò la chitarra acustica, mise un piede sopra la sedia che qualcuno aveva posizionato al centro del palco, e attaccò Ship of Fools. Era l’emblema della solitudine. Non disse molte parole al pubblico; ma dava la sensazione di una maggiore disponibilità rispetto a quella mostrata da Lou Reed, per lo meno nei concerti a cui avevo assistito io. Si alternò alla chitarra e al pianoforte, concludendo ogni canzone fra uno scroscio di applausi che suonavano come mercurio sul velluto.
Nel bis fece anche Style it takes, canzone tratta dall’omaggio a Warhol inciso assieme a Reed nel 1989, dopo la morte dell’artista, Songs for Drella.
Mi chiedevo dove avrebbe dormito quella notte, e con chi, questa leggenda vivente del rock 'n' roll, questo gallese dal volto segnato e dai modi indifesi, piovuto qui come una meteora. Mi chiedevo se quel concerto avrebbe mai lasciato una traccia nella sua memoria, e nel suo karma. Se mai avrebbe ricordato le canzoni suonate per uno sparuto gruppo di fans nel Teatro fra le Montagne Innevate, in una cupa notte d’inverno affacciata sulla soglia del nuovo secolo, il nuovo secolo che in nulla faceva presagire qualcosa di meglio rispetto a quello che ci eravamo appena lasciati alle spalle. Avrei voluto avere il coraggio di invitarlo a casa nostra, offrirgli un succo di mela, parlare un po’ con lui, fargli vedere le foto del nostro album di famiglia, e poi magari telefonare a Zebedeo, a Marco e a Ivo ("portatevi le mazze!"), alla Nadia, a Ezio, a Paolo, a Valeria, a Andy, a Roberto, a tutti quelli che avevamo conosciuto, per dirgli di venire, ma in fretta, in fretta, che non c'era tempo da perdere. Avrei voluto avere la forza e la presenza di spirito per portarlo con noi, oltre il sipario della notte, non per intervistarlo, non per il gusto di trascorrere qualche minuto assieme ad una popstar. Forse solo per metterlo a sedere nel nostro salotto marchiato Ikea e ringraziarlo. La sua musica era di quelle che ci avevano salvato la vita.
Dopo il concerto abbiamo fatto due passi in centro, abbracciati. Sentivo i tacchi delle nostre scarpe sul porfido della strada, e anche se avevamo subito qualche amputazione, stavamo ancora in piedi dopotutto, proprio come avevano cantato i Velvet Underground. Le strade deserte rilucevano di pioggia. I bambini quella sera ce li teneva una vicina di casa. Quella sera, per la prima volta dopo mesi, potevamo rimanere fuori tutto il tempo che volevamo.