Vaclav Havel e Lou Reed
E visto che oggi a Trento è stata la giornata di Vaclav Havel, a cui è stato conferito il premio Degasperi (anche se non ha potuto ritirarlo di persona, e a farne le veci è venuta la moglie, l'attrice DAGMAR HAVLOVA), ecco qui un piccolo cammeo sui Velvet Underground a Praga dopo la caduta del regime socialista, quando Havel era diventato presidente.
Lou Reed era affascinato dal fatto che un letterato, un drammaturgo, insomma un artista, avesse assunto una così grande responsabilità politica. Con il senno di poi si può dire che aveva perfettamente ragione. Che differenza fra ciò che è successo in Cecoslovacchia e ciò che è successo nella ex-Yugoslavia: in Cecoslovacchia il paese si è diviso, per iniziativa della Slovacchia, pacificamente, Praga non si è nemmeno sognata di usare la forza per impedirlo, ha solo detto ai secessionisti di pensarci bene, in Yugoslavia guerre a catena e 100.000 morti, e a tutt'oggi una situazione di stallo drammatica quantomeno in Bosnia Erzegovina. Non dico sia stato tutto merito di Havel, ma certamente Havel ha contribuito.
Sì, gli scrittori possono governare. Gli artisti possono governare (e per favore, non parlatemi di Ronald Reagan adesso!!!).
BAUMAN: SCHIAVI (CONSENZIENTI) DEL CONSUMO
Devo dire la verità: Bauman non mi ha mai convinto. Sarà che conosco i francofortesi, il pensiero di Langer. Le cose che dice - che scrive - mi sono sempre sembrate un po' scontate, anche se mi rendo conto che per un diciottenne di oggi la critica al consumismo possa sembrare una novità. Insomma, Bauman mi è sempre parso un tardo sessantottino, un tardo neomarxista; non c'è niente di male in questo a patto di non pretendere che ciò sia l'avanguardia del pensiero sociologico contemporaneo.
Però ieri sera alla chiusura del festival dell'Economia di Trento mi sono "riconciliato" con lui. Perché ho capito che in fondo, non va considerato con il metro di giudizio che riserviamo agli accademici. Insomma, forse Bauman non è un grandissimo sociologo e le cose che sostiene non sono particolarmente originali. Però parla come un profeta. E il compito dei profeti è scuotere le coscienze.
Questo ciò che ha raccontato al pubblico del centro Santa Chiara, più o meno. Niente che non sapessi. Niente che non condivida. Rimane semmai l'amarezza di un profeta che parla ad una platea che non lo ascolta, non può ascoltarlo. Non possono farlo i politici, gli economisti e i manager perché le sue parole portano dritte alla decrescita, al desviluppo, ad una società "più lenta, più dolce, più profonda" (come diceva Langer), e la classe dirigente non vuole nulla del genere. Probabilmente nemmeno la stragrande maggioranza degli elettori, più eccitati dall'ultimo modello di telefonino o dall'idea del "no limits". Chi potrebbe vivere senza pc o cellulare? Chi potrebbe tenersi lo stesso elettrodomestico per 20 o 30 anni, come facevano i miei genitori? Chi, soprattutto, vorrebbe rinunciare alla prospettiva di vivere almeno fino a 80 anni, quando non molto tempo fa a 50 si era già in pensione e a 60 dei grandi vecchi?
"Il tema di questo festival, i confini della libertà economica, è un tema fondamentale, perché oggi cominciamo a capire che anziché ampliare ed estendere le nostre opzioni il range di scelte a disposizione si restringe. Nei giornali sono apparse recentemente delle notizie sul picco della produzione mondiale di petrolio, principale fonte di energia odierna, che sarebbe stato già raggiunto, nel 2006. Da allora c'è solo il declino. Abbiamo dei mercati basati sulla competizione, che presuppongono la disponibilità illimitata di energia, pensiamo a realtà come India, Cina, Sud Africa, che in passato consumavano una quota di energia molto minore, per esempio perché in essi non era diffuso il traffico privato. L'altra notizia è che entro il 2020 i prezzi degli alimenti raddoppieranno. Ci sono già delle rivolte basate sulla scarsità di cibo, nel mondo, cose che pensavamo appartenessero al passato. Il terzo elemento è l'aumento della disuguaglianza a livello globale, per certi versi incredibile, perché va nella direzione opposta rispetto a quella pensata dai pionieri della libertà e dell'Illuminismo, come Cartesio, Bacon, Hegel. Il paese più ricco, oggi, il Qatar, ha uno standard 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. Il 20% più ricco dell'umanità controlla il 75% della ricchezza, il 20% più povero il 2%. Fino a 30-40 anni fa il trend era diverso, il divario fra i paesi sembrava destinato a colmarsi. Come mai è successo questo? Ci sono due fattori fondamentali, e sono più culturali e sociali che economici. Il primo è che vogliamo godere di una vita ricca, confortevole, il che ci ha orientati ad assumere come principale indicatore l'acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano alla felicità portino ai negozi. Ciò sottopone il sistema economico, e più in generale il nostro pianeta, ad una pressione enorme. Ed è disastroso per le nuove generazioni; è evidente che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, sulle spalle dei nostri figli. Poi c'è la questione della risoluzione dei conflitti. Nel corso della modernità abbiamo sviluppato la capacità di risolvere i conflitti sociali, anche quelli legati alla diseguale distribuzione dei beni, aumentando la produzione, il pil. Quando il pil cala non è che viene messa a rischio la sopravvivenza alimentare, ma nonostante ciò si sviluppa il panico, perché la gestione dei conflitti è tutta basata sull'aumento della produzione e del consumo. Conosciamo la metafora della pagnotta: possiamo discutere come distribuirla, oppure produrne anche un'altra. Ma le risorse per produrre tutte le pagnotte che desidereremmo non sono infinite. Ciò pone un grande interrogativo sulla crescita economica. Possiamo trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ciò è necessario se non vogliamo distruggere il nostro habitat e generare fenomeni catastrofici come le guerre. I livelli attuali di consumo sono già insostenibili dal punto di vista ambientale ed anche economico. L'idea della prosperità al di fuori delle trappole del consumo infinito viene considerata un'idea per pazzi o per rivoluzionari.
Ci sono delle alternative: le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. Anche l'antropologia ci ha mostrato che in certe zone - remote - del pianeta la formula di Adam Smith non funziona: si tratta della formula ben nota per la quale il fatto che noi troviamo il pane in panificio tutte le mattine è un frutto dell'avidità del panettiere. Invece a volte le persone sono spinte a produrre e a condividere ciò che producono da motivi diversi rispetto all'avidità. Le loro attività non consumano molta energia e non producono rifiuti: la ricompensa dei 'produttori' è il rispetto e l'affetto della comunità. Gli stili di vita che stanno dietro a questi comportamenti producono felicità e soddisfazione, ma non sono particolarmente favorevoli alla crescita della produzione. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni. Assistiamo ad un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità. I mercati sono abituati ad orientare i bisogni umani, bisogni che in passato non erano soddisfatti dal mercato. Questo è ciò che io indico con l'espressione 'commercializzazione della moralità'.
Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari. Credo che tutti noi qui in sala ci sentiamo in colpa perché non riusciamo a trascorrere abbastanza tempo con i nostri cari. 20 anni fa il 60% delle famiglie americane si ritrovava attorno allo stesso tavolo per cenare. 20 anni dopo solo il 20%. Le persone sono più occupate con il loro cellulare, il loro ipad e così via. La nostra vita quotidiana è profondamente cambiata, a causa anche delle tecnologie, che hanno sicuramente prodotto delle cose positive, ma hanno anche creato dei danni collaterali. Se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi. Il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia è sfumato. Siamo sempre al lavoro, abbiamo l'ufficio sempre in tasca, non abbiamo scuse. Dobbiamo lavorare a tempo pieno. E più si sale nella scala gerarchica meno tempo per sé si ha. Si è sempre in servizio.
Ovviamente i mercati e il consumismo non possono riparare questa situazione; possono però aiutarci a mitigare la nostra cattiva coscienza, i nostri sensi di colpa per la mancanza di tempo e attenzione che dedichiamo a familiari e amici, e lo fanno spingendoci verso l'acquisto, lo shopping, il mercato. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità 'primarie'. Ad esempio a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perché esso è un sintomo, ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani. Improvvisamente ci sono persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici di FB.
Fino a quando il nostro senso morale verrà mercificato, l'economia crescerà perché messa in moto dai bisogni umani e dai desideri che è chiamata a soddisfare, bisogni e desideri apparentemente 'buoni', come dimostrare l'amore per gli altri. I grandi economisti del passato sostenevano che i bisogni sono stabili, fissati una volta per tutte, e che una volta soddisfatti tali bisogni potremo fermarci e godere del lavoro fatto. C'era la convinzione che alla fine del percorso avviato con l'inizio della modernizzazione si avrebbe avuto un'economia stabile, in perfetto equilibrio. Successivamente si è presa una strada diversa. Si è inventato il cliente. Si è capito che i beni non hanno solo un valore d'uso, ma anche un valore simbolico, sono degli status symbol. Non si acquistava più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si 'desidera'. L'obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti. Così, il limite è stato superato mercificando la moralità: non ci sono limiti all'amore, non ci sono limiti all'affetto che vogliamo dimostrare agli altri. Responsabilità incondizionata, condita da incertezze, sensi di colpa e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l'impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione."
Per queste profetiche parole, che volano nel vento, grazie Zygmunt Bauman.
Però ieri sera alla chiusura del festival dell'Economia di Trento mi sono "riconciliato" con lui. Perché ho capito che in fondo, non va considerato con il metro di giudizio che riserviamo agli accademici. Insomma, forse Bauman non è un grandissimo sociologo e le cose che sostiene non sono particolarmente originali. Però parla come un profeta. E il compito dei profeti è scuotere le coscienze.
Questo ciò che ha raccontato al pubblico del centro Santa Chiara, più o meno. Niente che non sapessi. Niente che non condivida. Rimane semmai l'amarezza di un profeta che parla ad una platea che non lo ascolta, non può ascoltarlo. Non possono farlo i politici, gli economisti e i manager perché le sue parole portano dritte alla decrescita, al desviluppo, ad una società "più lenta, più dolce, più profonda" (come diceva Langer), e la classe dirigente non vuole nulla del genere. Probabilmente nemmeno la stragrande maggioranza degli elettori, più eccitati dall'ultimo modello di telefonino o dall'idea del "no limits". Chi potrebbe vivere senza pc o cellulare? Chi potrebbe tenersi lo stesso elettrodomestico per 20 o 30 anni, come facevano i miei genitori? Chi, soprattutto, vorrebbe rinunciare alla prospettiva di vivere almeno fino a 80 anni, quando non molto tempo fa a 50 si era già in pensione e a 60 dei grandi vecchi?
"Il tema di questo festival, i confini della libertà economica, è un tema fondamentale, perché oggi cominciamo a capire che anziché ampliare ed estendere le nostre opzioni il range di scelte a disposizione si restringe. Nei giornali sono apparse recentemente delle notizie sul picco della produzione mondiale di petrolio, principale fonte di energia odierna, che sarebbe stato già raggiunto, nel 2006. Da allora c'è solo il declino. Abbiamo dei mercati basati sulla competizione, che presuppongono la disponibilità illimitata di energia, pensiamo a realtà come India, Cina, Sud Africa, che in passato consumavano una quota di energia molto minore, per esempio perché in essi non era diffuso il traffico privato. L'altra notizia è che entro il 2020 i prezzi degli alimenti raddoppieranno. Ci sono già delle rivolte basate sulla scarsità di cibo, nel mondo, cose che pensavamo appartenessero al passato. Il terzo elemento è l'aumento della disuguaglianza a livello globale, per certi versi incredibile, perché va nella direzione opposta rispetto a quella pensata dai pionieri della libertà e dell'Illuminismo, come Cartesio, Bacon, Hegel. Il paese più ricco, oggi, il Qatar, ha uno standard 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe. Il 20% più ricco dell'umanità controlla il 75% della ricchezza, il 20% più povero il 2%. Fino a 30-40 anni fa il trend era diverso, il divario fra i paesi sembrava destinato a colmarsi. Come mai è successo questo? Ci sono due fattori fondamentali, e sono più culturali e sociali che economici. Il primo è che vogliamo godere di una vita ricca, confortevole, il che ci ha orientati ad assumere come principale indicatore l'acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano alla felicità portino ai negozi. Ciò sottopone il sistema economico, e più in generale il nostro pianeta, ad una pressione enorme. Ed è disastroso per le nuove generazioni; è evidente che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, sulle spalle dei nostri figli. Poi c'è la questione della risoluzione dei conflitti. Nel corso della modernità abbiamo sviluppato la capacità di risolvere i conflitti sociali, anche quelli legati alla diseguale distribuzione dei beni, aumentando la produzione, il pil. Quando il pil cala non è che viene messa a rischio la sopravvivenza alimentare, ma nonostante ciò si sviluppa il panico, perché la gestione dei conflitti è tutta basata sull'aumento della produzione e del consumo. Conosciamo la metafora della pagnotta: possiamo discutere come distribuirla, oppure produrne anche un'altra. Ma le risorse per produrre tutte le pagnotte che desidereremmo non sono infinite. Ciò pone un grande interrogativo sulla crescita economica. Possiamo trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ciò è necessario se non vogliamo distruggere il nostro habitat e generare fenomeni catastrofici come le guerre. I livelli attuali di consumo sono già insostenibili dal punto di vista ambientale ed anche economico. L'idea della prosperità al di fuori delle trappole del consumo infinito viene considerata un'idea per pazzi o per rivoluzionari.
Ci sono delle alternative: le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. Anche l'antropologia ci ha mostrato che in certe zone - remote - del pianeta la formula di Adam Smith non funziona: si tratta della formula ben nota per la quale il fatto che noi troviamo il pane in panificio tutte le mattine è un frutto dell'avidità del panettiere. Invece a volte le persone sono spinte a produrre e a condividere ciò che producono da motivi diversi rispetto all'avidità. Le loro attività non consumano molta energia e non producono rifiuti: la ricompensa dei 'produttori' è il rispetto e l'affetto della comunità. Gli stili di vita che stanno dietro a questi comportamenti producono felicità e soddisfazione, ma non sono particolarmente favorevoli alla crescita della produzione. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni. Assistiamo ad un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità. I mercati sono abituati ad orientare i bisogni umani, bisogni che in passato non erano soddisfatti dal mercato. Questo è ciò che io indico con l'espressione 'commercializzazione della moralità'.
Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari. Credo che tutti noi qui in sala ci sentiamo in colpa perché non riusciamo a trascorrere abbastanza tempo con i nostri cari. 20 anni fa il 60% delle famiglie americane si ritrovava attorno allo stesso tavolo per cenare. 20 anni dopo solo il 20%. Le persone sono più occupate con il loro cellulare, il loro ipad e così via. La nostra vita quotidiana è profondamente cambiata, a causa anche delle tecnologie, che hanno sicuramente prodotto delle cose positive, ma hanno anche creato dei danni collaterali. Se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi. Il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia è sfumato. Siamo sempre al lavoro, abbiamo l'ufficio sempre in tasca, non abbiamo scuse. Dobbiamo lavorare a tempo pieno. E più si sale nella scala gerarchica meno tempo per sé si ha. Si è sempre in servizio.
Ovviamente i mercati e il consumismo non possono riparare questa situazione; possono però aiutarci a mitigare la nostra cattiva coscienza, i nostri sensi di colpa per la mancanza di tempo e attenzione che dedichiamo a familiari e amici, e lo fanno spingendoci verso l'acquisto, lo shopping, il mercato. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità 'primarie'. Ad esempio a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perché esso è un sintomo, ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani. Improvvisamente ci sono persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici di FB.
Fino a quando il nostro senso morale verrà mercificato, l'economia crescerà perché messa in moto dai bisogni umani e dai desideri che è chiamata a soddisfare, bisogni e desideri apparentemente 'buoni', come dimostrare l'amore per gli altri. I grandi economisti del passato sostenevano che i bisogni sono stabili, fissati una volta per tutte, e che una volta soddisfatti tali bisogni potremo fermarci e godere del lavoro fatto. C'era la convinzione che alla fine del percorso avviato con l'inizio della modernizzazione si avrebbe avuto un'economia stabile, in perfetto equilibrio. Successivamente si è presa una strada diversa. Si è inventato il cliente. Si è capito che i beni non hanno solo un valore d'uso, ma anche un valore simbolico, sono degli status symbol. Non si acquistava più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si 'desidera'. L'obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti. Così, il limite è stato superato mercificando la moralità: non ci sono limiti all'amore, non ci sono limiti all'affetto che vogliamo dimostrare agli altri. Responsabilità incondizionata, condita da incertezze, sensi di colpa e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l'impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione."
Per queste profetiche parole, che volano nel vento, grazie Zygmunt Bauman.
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