Tra le due luci
Dio fece i due grandi luminari, il luminare maggiore per governare il giorno e il luminare minore per governare la notte, e le stelle. Dio li ha posti nella distesa dei cieli per dar luce alla terra, e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre, e Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
Tutti i turisti erano ripartiti, sui loro pulmann. Nel parcheggio rimaneva ormai solo la nostra auto, e il fuoristrada dei gestori del minimarket.
Mangiavamo fichi, uva, su un tavolo all'aperto, bevendo té al gelsomino.
L. leggeva dei passi della Bibbia. Sull'altra sponda del lago, brillavano le luci della Giordania.
C'erano due messaggi sul mio cellulare, che ancora non volevo leggere, li avrei letti più tardi, prima di dormire, forse. Rimandavo il piacere narcisista di essere pensato lontano.
Nei cessi dell'aeroporto di Beira
Era passato a prendermi all'albergo con solo tre quarti d'ora di ritardo. Lo avevo aspettato nell'atrio, seduto su una sedia, al buio, i bagagli posati lì accanto. C'erano delle persone distese a terra, sopra alle loro capulane, che dormivano. Cameriere, cuochi, insomma, lo staff. Avevo provato ad uscire, ad un certo punto, mentre il sole sorgeva all'orizzonte e iniziavo a distinguere le nuvole dallo sfondo del cielo, ma troppe cose strisciavano sui gradini dell'ingresso, ero tornato subito dentro.
"Una gomma bucata", si è giustificato sorridente, appena sceso dalla jeep.
Siamo partiti lasciando lo Zambesi sulla nostra destra, "anch'esso uno dei grandi fiumi della terra, nonostante tutto", per dirla con Conrad, che però qui in Mozambico non c'è mai venuto. Ci aspettavano cinque ore di buona strada asfaltata - a parte qualche buca - fino a Beira, dove avrei preso l'aereo per tornare in Italia.
Attorno, la campagna, i luoghi delle persone che conoscevo. La casa di Monica e Ibra, appena fuori Caia, di muratura, con il pozzo all'esterno, dove venivano ad attingere l'acqua i bambini che abitavano nelle capanne tutt'attorno, quelli che l'altro giorno ci erano venuti a chiamare per mostrarci l'ippopotamo che giocava nel centro del fiume; la boscaglia nella quale sta rintanato il misterioso Jack White, non il chitarrista rock, un bianco venuto lì anni prima dallo Zimbabwe, a mettere su una segheria, per qualcuno addirittura l'assassino di Olof Palme, il primo ministro svedese ucciso da un killer a Copenghagen nel 1986; più avanti il ristorante all'ingresso del parco del Gorongosa, dove qualche anno fa i cooperanti facevano tappa per sfoderare il cellulare e finalmente mettersi in contatto col resto del mondo, Caia ancora isolata, davvero Africa profonda, zanzare, fuochi, alluvioni, mentre ora hanno persino terminato il ponte, con tutti i suoi lampioni, ora si scavalca il fiume in 5 minuti, prima bisognava prendere il traghetto, i camionisti aspettavano anche due giorni, in coda, sulla riva, a bere birra Manica e a comprare un po' di amore per ammazzare la noia.
Mi ero assopito, nella luce lattiginosa del mattino australe, cullato dall'auto e dalle musiche alla radio. Poi a Gorongosa il paesaggio si vivacizza, la terra si solleva all'improvviso in un grande massiccio, era il regno dei leoni, le varie milizie che ci sono passate durante la guerra civile hanno fatto strage della fauna selvatica, solo ora il parco comincia a ripopolarsi. Così, ho cominciato a fare conversazione con il driver, anche se conversazione, con le mie quattro parole di portoghese, è un termine improprio. Abbiamo parlato di politica, in questi paesi spesso c'è più passione politica che da noi, lui non era né per il Governo (Frelimo) né per l'opposizione (Renamo), parteggiava per una terza forza, che però alle elezioni era stata boicottata, aveva potuto presentare i suoi candidati solo in alcune zone del Paese. Quando scrivevo la tesi io parteggiavo per il Frelimo, c'era ancora la guerra, la mia docente aveva iniziato qui in Mozambico la sua carriera, lavorando con Ruth First, una ricercatrice marxista di origini sudafricane uccisa a Maputo in un attentato dei servizi di Pretoria, un pacco che le era esploso in mano all'università Eduardo Mondlane. Era logico stare con il Frelimo, il Frelimo rappresentava l'orgogliosa lotta di un popolo contro il colonialismo prima e contro il regime dell'apartheid poi. Probabilmente ogni forza politica quando sta troppo a lungo al potere si incancrenisce, il potere, quando non è temperato dalle buone leggi, quando lo si dà per scontato, trascina con sé arroganza e abusi.
Poi abbiamo parlato delle nostre famiglie. Lui aveva un figlio a Beira, Nelson; dopo avermi accompagnato all'aeroporto sarebbe passato a trovarlo. Ha tirato fuori il cellulare, mi ha mostrato la foto: non sapevo cosa dire, mi sembrava chiaramente idrocefalo. Il volto dell'uomo era radioso; si vedeva che non stava più nella pelle, anche se mancavano ancora due ore alla città. In quanto alla madre, se ho capito bene, non avevano più buoni rapporti, forse anche a causa del fatto che lui ora lavora lontano, con i cooperanti.
All'aeroporto ho insistito per offrirgli un caffé, al bar del piano di sopra, eravamo in anticipo nonostante fossimo partiti in ritardo. Non ha voluto altro. E' scappato di corsa da Nelson, lasciandomi con i miei pensieri, sulla terrazza, affacciata sulla pista d'asfalto. Sono andato in bagno, mi sono scattato questa foto. Avevo molte ore di viaggio davanti, da Beira a Johannesburg, da Johannesburg sorvolando tutta l'Africa fino a Monaco, da Monaco a Verona. Ero contento di essere solo. O almeno, così mi sembra adesso, da qui; in quel momento provavo probabilmente solo impazienza, mista all'illusione di essere un viaggiatore, non un professionista che aveva appena terminato di fare il suo lavoro. Sono sceso di sotto, agli imbarchi, mi sono piazzato sul divanetto di pelle color vinaccia, da dove potevo tenere d'occhio il tabellone delle partenze, per buttare giù qualche appunto. Subito un uomo è venuto a sedermisi accanto, Era anziano, vestito in t-shirt e pantaloncini, ciabatte logore ai piedi. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo. Gli ho raccontato del progetto che ero andato a filmare a Caia. "Certo, certo..." ha annuito, pensosamente, passandosi i palmi delle mani sulle ginocchia. Gli ho detto anche che il Mozambico mi piaceva, che rimpiangevo ogni volta di non potermi fermare di più. Ha sorriso: la testa tentennava, come ho visto fare, più vistosamente, in Sri Lanka (ma lì il dondolio equivale ad un cenno di assenso).
"Abbiamo molti problemi. Non abbiamo voglia di lavorare."
Il suo umiliarsi di fronte al "bianco" mi metteva a disagio. Se al suo posto ci fossero stati dei turisti italiani, come una volta in Tanzania, quelle figure grottesche che vengono in Africa dicendo di amarla, di esserne adirittura "ammalati", pur detestando tutto degli africani, la loro indole, la loro gestione del tempo, la loro mancanza di tecnologia, avrei ribattutto seccamente che non era vero, che semmai era diversa la concezione del lavoro, e che comunque nessuno aveva il diritto di parlare così. Ma l'uomo era a casa sua, cosa potevo dirgli? Poi mi ha chiesto qualche spicciolo; ha ringraziato ed è uscito subito, curvo, furtivo.
Forti turbolenze nel tratto fino a Joh'burg, sorvolando miniere a cielo aperto, terra rossa disabitata. E lì, ho scoperto che l'aereo che avrebbe dovuto portarmi a Monaco si era rotto; in compenso Lufthansa ci offriva la cena, in uno dei ristoranti del terminal.
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