Buon anno ragazzi (e ragazze)


Questa canzone dei CSI fu distribuita su un cd promozionale allegato alla rivista "Il Maciste". Poi ripubblicata su "Noi non ci saremo vol. 2".

Alla chitarra il grande Massimo Zamboni. il the Edge de noaltri. Alla voce Giovanni Lindo Ferretti pre-conversione (bisogna dire che una certa brezza "religiosa" spirava da sempre in molti dei suoi testi, ed era esplosa in maniera plateale già con i CCCP, quando in coda ad una canzone dedicata ai palestinesi salmodiava "madre o madre, oh, madre mia, l'anima mia, si muove a te..."; ed erano brividi, quei brividi che purtroppo da quando si accompagna a Giuliano Ferrara Giovanni Lindo non regala più. Comunque sia, questa canzone, come altre in cui si intravvedono i fuochi delle guerre balcaniche, ma anche le reminiscenze di Fenoglio, l'epica partigiana consumatasi sulle montagne dell'Appennino, è bellissima. E dunque: buon anno ragazzi e ragazze).

Scartato il gusto del ritrovamento
di un'origine inesistente
non esiste, proprio non c'è.

Scontata l'importanza del vestire
in maniera adeguata e conveniente
di una qualche compagnia piacente...

Siccome tacciono quelli che sanno, siccome tacciono
Buon anno, ragazzi e ragazze
Buon anno

Impostori e piccoli dei
in corpo pallido bronzeo nero
consapevoli sterminatori
accorti nel distruggere
attenti per arricchire
piccoli eroi mai sazi
consapevoli sterminatori complici e profittatori...

Siccome sanno quello che fanno
Non li perdono non li perdonerò
Siccome sanno quello che fanno...

Ora la neve scricchiola sotto le scarpe rigide, si condensa il respiro come fumo pastoso risucchiato dal vento, l'aria è fredda la luce bluastra, cani col muso a terra e pelo dritto, ordini nuovi secchi taglienti...

Nessuna garanzia per nessunoNessuna garanzia per nessunoNessuna garanzia per nessunoNessuna garanzia per nessunoNessuna garanzia per nessunoNessuna garanziaper nessuno...

GUARDA QUI http://www.youtube.com/watch?v=fr7oBpg3sLQ

E adesso un po' di esegesi:

Cosa può essere quell' "origine inesistente" che proprio non c'è? La nostra identità, intesa come amalgama di sangue e suolo, la nostra verginità culturale, etnica, di popolo. Non siamo puri, non abbiamo una sola origine. Non abbiamo un destino segnato, una missione da compiere. Siamo impasto di tante cose, siamo "bastardi", misti, multipli, sfaccettati. Abbiamo molte opportunità davanti a noi, nel bene e nel male.
Cosa vuol dire "scontata l'importanza del vestire in maniera adeguata ..."? Beh, qui si enuncia una cruda verità. La forma prevale sempre sulla sostanza. Perciò, per essere veramente contro, COLTIVIAMO IL NEOPAUPERISMO, cioè VESTIAMOCI ALL'OVIESSE.
Chi sono quelli che tacciono anche se sanno? Un po' tutti, compresi i giornalisti. Compresi i magistrati, professionisti nello scovare le menzogne e le omissioni. La sincerità è - semmai - un fine al quale tendere. Una condotta morale faticosa e, nei dettagli, sempre rinegoziata.
Chi sono gli "impostori e piccoli dei" ecc. ? Ne sono piene le cronache. Sono i criminali genocidiari e i furbetti alla Callisto Tanzi, sono i politici d'Israele che scaricano tonnellate di missili intelligenti su Gaza e i cinici fanatici di Hamas che tengono i palestinesi in ostaggio (anche i puri uccidono), sono i Casalesi, i signori della guerra somali, G.W. Bush, i politici che moraleggiano in pubblico e fanno - come tutti - quello che vogliono in privato.
Sono tanta gente comune.
"Non li perdono, non li perdonerò..." canta G.L., e il tono è profetico, da novello Savonarola. E' quello che oggi chiameremmo "giustizialismo". Il fatto è che i suoi fan non gli hanno mai perdonato, a loro volta, l'incomprensibile passaggio dal comunismo punk situazionista degli esordi al cattolicesimo conservatore di oggi.
"Ora la neve scricchiola" ecc., sotto i piedi dei partigiani che pattugliavano l'Appennino in cui Giovanni è cresciuto e di cui racconta nel suo libro autobiografico, Reduce (che lo ritrae in copertina con un saio). Ma chi sono i partigiani, oggi? Non esistono, perché non è tempo di partigiani, e non solo perché non viviamo in una dittatura ma perché siamo orfani di miti (la Resistenza come mito? Di nuovo Fenoglio...). Mio padre però è stato un partigiano. Onore a chi seppe fare, a suo tempo, le scelte giuste.
"Nessuna garanzia per nessuno", invece, è realmente profetico. E' quello che ci attendiamo per questo 2009 di crisi. Un ministro propone assegni di disoccupazione di 1000 euro al mese, anche per i precari. Mi sembra ci sia molta demagogia ammantata di buonismo e, come scrive oggi Sartori sul Corriere della Sera, scarsa considerazione per una legge fondamentale dell'economia: "La ricchezza bisogna saperla produrre, prima di redistribuirla". E poi 500 di questi 1000 euro dovrebbero essere spesi - dal disoccupato -in "attività di formazione". Ma chi perde il posto oggi non lo perde perché è obsoleto, semplicemente perchè la gente non spende abbastanza, perché le imprese non hanno più ordinazioni. Perché il dorato giocattolo del consumismo ha preso una brutta botta. L'enfasi sulla formazione/riqualificazione è solo un altro esercizio di retorica.
Nessuna garanzia per nessuno, quindi, anche perché chi doveva produrre ricchezza in realtà in questi anni si è dedicato piuttosto ai giochi di prestigio (della finanza, dei mutui "virtuali", dei soldi presi a chi non li possedeva). Nessuna garanzia per nessuno ripetuta all'infinito, come un mantra. I CSI cantavano che "i perdenti sono più adatti ai mutamenti". Forse alla fine è chi ha poco da perdere ad essere più al sicuro (ma Rigoberta Menchù, incontrata qualche settimana fa, diceva che anche tra i guatemaltechi poveri gli effetti della crisi si fanno sentire, perché anche il piccolo artigiano che produce oggettini per le botteghe di Mandacarù è parte della globalizzazione)

Viaggiatori 1

Oggi volare è un'esperienza normale. Mio padre ha preso per la prima (e unica) volta l'aereo a 50 anni. Io a 24. Mia figlia maggiore a 3, quella minore ha già fatto 3 voli prima di avere compiuto i 2 anni.
Considerare con supponenza i turisti è abitudine antica quanto il turismo stesso. Il film "Il tè nel deserto" di Bertolucci rese popolare la definizione di Paul Bowles: "I turisti sono quelli che appena partiti pensano già al ritorno, i viaggatori quelli che partono per andare, e basta" (cito a memoria).
In verità il film era la trasposizione cinematografica di un libro degli anni 40', epoca in cui forse queste parole avevano ancora un senso. Per di più l'autore era un outsider, che aveva lasciato il suo paese, gli Stati Uniti, per il Marocco.
Oggi tutti vanno dappertutto, anche se ci vanno con le guide della Lonely Planet, che continuano a definire certi posti "tourist trap" (cioè trappole per gente sprovveduta, volgare, poco avventurosa), distinguendoli da quelli per veri viaggiatori.
Nutro sentimenti contrastanti verso le Lonely Planet. Fermo restando che sono utilissime, da un lato le trovo terribilmente snob, ma di uno snobismo ormai datato, nell'era dei viaggi low cost, dei master post-laurea in ogni angolo del mondo e di youtube. Dall'altra riconosco che, come tutti quelli che viaggiano con una qualche pretesa culturale (anche quando lo faccio per lavoro), non posso fare a meno di sentirmi distante dalla massa dei turisti, quelli italiani in particolare, che mettono al primo posto delle loro preoccupazioni la cucina (e che senza occhiale da sole di marca non vanno neanche al cesso).
E' che il mondo diventa di giorno in giorno sempre più surreale. Pieno di gente che si spinge in posti esotici e ricchissimi di cose da vedere, da imparare, da capire come Zanzibar, lo Sri Lanka, il Sinai e poi si lamenta del pasta corner.
Chi sono allora oggi i veri viaggiatori, quelli per i quali si adatterebbe la definizione di Paul Bowles? Gli emigranti, ovvio. Che una volta eravamo noi e ora sono tutti quegli africani, latini, esteuropei ecc. che partono alla volta delle nostre frontiere senza biglietto di ritorno in tasca. E spesso senza neanche quello d'andata.
Anche le tecnologie per le comunicazioni hanno contribuito a cambiare la dimensione del viaggio. In passato viaggiare significava telefonare o scrivere a casa una volta ogni tanto, se si aveva tempo, se si aveva denaro a sufficienza, se i telefoni erano disponibili (ricordo che oltrecortina- nella fattispecie, la Romania di Ceausescu - telefonare in Occidente significava andare all'ufficio postale e mettersi in paziente attesa, a volte anche di un'ora e passa). Oggi i telefonini rendono possibile la magia di fare viaggiare non solo le parole ma anche le immagini e gli scritti pressoché istantaneamente da qualsivolgia parte del mondo a qualsivoglia altra parte. C'è il piacere di condividere minuto per minuto un'esperienza anche con chi è lontano o non è potuto venire con noi. C'è la sicurezza di essere sempre reperibili, rintracciabili. C'è il senso di appartenenza ad una rete mondiale, una sorta di "fratellanza elettronica".
La dimensione della solitudine - e quella sorella dello spaesamento - devono essere invece attivamente cercate.
(foto: il Galle di Colombo, Sri Lanka)

Nuove sensazioni




Sta piovendo, la televisione aveva detto che dovevamo aspettarci un Capodanno con la neve. Le strade ormai sono quasi vuote. Sono le 9, tra poco le feste cominceranno e i camerieri nei ristoranti serviranno gli antipasti con i vini bianchi secchi.
Sto cercando una pizzeria aperta perché ho promesso a Noemi che avremmo mangiato la pizza ma qui sono tutte chiuse, sì, se c'è una pizzeria aperta la troverò solo in centro.

Rosso. Verde. Sto cercando una pizzeria aperta, e qui devono fare un sottopassaggio, perché non si sbrigano a farlo, sono due anni che ne parlano. Ho messo i guanti così le mani sono riparate ma l'aria in faccia fa male, per fortuna non piove tanto, solo un po', oltre l'incrocio la strada è nera, coraggio, l'aria in faccia mi sveglia. E come sempre guardo le persone, mi piace guardare le facce e immaginarmi le storie.

Una donna bionda, elegante, è scesa dal Cherokee parcheggiato in mezzo alla strada, aveva i capelli in disordine, l'espressione concentrata di chi deve risolvere un problema. Io lo so, lo so, devo cambiare la mia visione delle cose, devo abbandonare la mia solita visione negativa, con l’anno nuovo basta.
La donna entra in un bar, faccio appena in tempo a scorgerla nell'angolo dello specchietto, è entrata, più vicina ai quarant'anni che ai trenta, bella donna, indossa una pelliccia corta e le ginocchia sono scoperte. Quello è un bar di uomini, non sono abituati a vedere una cliente così. Lei va dritta al banco, compra sigarette, gira sui tacchi e esce, forse deve prendere anche lei un'importante decisione, forse l'attività che gestisce è sul punto di fallire, forse ha dei figli che le danno dei dispiaceri.
Io sto andando in città a cercare una pizzeria, sto andando col motorino e Noemi aspetta con mia madre in casa di mia madre, guardando la tv. E da una casa isolata nel tratto di campagna che separa il paese dalla città sparano un razzo luminoso, che attraversa la pioggia lasciando una scia.

È iniziata, non so quando. Una volta, dovevo avere non più di nove anni, mi ricordo che avevo accompagnato mia madre dal medico, la sala d'aspetto era piena di pazienti già in attesa che sfogliavano rotocalchi, così ho chiesto a mia madre se potevo uscire fuori sul giroscala, e lei disse: "Però non scendere in strada". Sono uscita ma non ho acceso la luce, mi sono seduta al buio e una meravigliosa sensazione di infelicità m'invase, per niente, era infelicità per niente. Cantavo a fior di labbra una melodia triste, la sigla di uno sceneggiato televisivo... All'improvviso si è aperta la porta di un appartamento, un uomo è uscito fuori, ha acceso la luce, e si è spaventato nel trovarmi lì così, seduta sul primo scalino. "Cosa fai al buio, bambina?". Ero imbarazzatissima, non sapevo cosa dire. Già allora capivo, vagamente, sì, ma lo capivo che è male, è peccato mortale sentirsi a quel modo per niente e coltivare una visione negativa delle cose, tutta la vita ho provato lo stesso disagio nei riguardi del mio umore.

Sto andando a comperare le pizze, ora ci sono due ragazzi, uno ne spinge un altro e tutti e due attraversano la strada lucida, si dirigono verso la sala giochi. Il gestore è uscito sulla porta come per riceverli, ma scuote il capo, starà dicendo che è tempo di chiudere, il ragazzo in carrozzella allarga le braccia, poi si tocca il polso "Sono le 9, dai, una partita sola...". Il gestore ammette che sì, di solito chiude alle 10, ma è la sera di Capodanno, non c'è più dentro nessuno, e ha promesso di portare la sua ragazza a ballare, deve correre a casa a cambiarsi. "Ragazzi, mi spiace, venite dopodomani, anzi, sapete cosa? Il tempo di chiudere e andiamo a farci un brindisi qui di fronte, offro io".
Prendo un vicolo che porta in centro, fuori sui poggioli ci sono alberi di Natale decorati con luci intermittenti, immagino le storie di quelli che abitano nelle case, come sempre, ho la mia visione viola, la mia visione strana, strappata, ho la mia visione negativa delle cose e ho paura che prima o poi Noemi se ne accorga. Devo cambiare prima che cominci a notarlo, devo modificare la mia solita visione, devo essere positiva, immaginare storie positive, pensare pensieri positivi, io lo so, devo educarmi a provare nuove sensazioni.

Quando ero piccola disegnavo alberi spogli, nature morte, pesci morti, ma presto ho cominciato a nascondere quei disegni, mia madre diceva che bisogna essere allegri, e anche l'insegnante di disegno. Mi sembrava evidente che, con il mio comportamento, ero destinata ad infastidire la maggior parte delle persone. Così mi sforzavo di tenere i miei pensieri per me. La mia vita interiore divenne ricca, popolata di fantasie.
Quando studiavo a volte, dopopranzo, andavo a passeggiare nel greto del fiume, ancora non l'avevano sistemato, era un bel greto sconvolto, pieno di massi, e le pozze d'acqua d'inverno ghiacciavano. Una volta dietro a un cespuglio sorpresi un uomo con sopra una donna, si spaventarono, mi guardarono con occhi di animali braccati, carichi d'ostilità. Il greto del fiume a febbraio è il mio paesaggio dell'anima.
Oh, se ho provato, a giustificarmi. Ho detto che la colpa era la malattia di mio padre, era quella che mi aveva segnato. Poi che la colpa era il mio lavoro. Poi che era il mondo, il mondo che funziona così male e non può lasciarci indifferenti. Nulla di ciò che dicevo era sufficiente. Mi facevano sentire come un'appestata, sempre, tutti. Ed era un sentimento molto diverso dalla mia consueta visione negativa delle cose, a cui ero abituata e che sapevo come gestire, ma quando gli spiegavo come mi facevano sentire con le loro critiche ribattevano: "Non siamo noi, sei tu, sei tu che ti senti così, è colpa ancora una volta della tua visione negativa!".

Eccola, meno male. Sono dura dal freddo, stavo cercando una pizzeria aperta, ho promesso la pizza a Noemi per l'ultimo dell'anno, poca gente in strada, botti che esplodono di già. Ah, ecco, fanno anche ristorante, dev'essere per questo che è così affollata. Devo rimanere in piedi ad aspettare, lo odio, ci sono tavolate di famiglie, in sala, e gruppi di ragazzi che potrebbero essere compagni di scuola. Telefono a mia madre, le spiego che arriverò tra mezz'ora. Mi passa Noemi, che mi ricorda i carciofini nella sua.
Dal prossimo anno le cose cambieranno. Devono cambiare, non voglio che Noemi pensi di me che sono una pazza. Vedrò le cose sotto una luce diversa. Proverò nuove sensazioni. Mi sforzerò di accettare gli inviti a cena, e di ridere quando ci andrò, come questi esseri qua dentro, ascolterò dischi allegri, discorsi frivoli, battute leggere, leggerò romanzi satirici, andrò a vedere delle commedie a teatro. Penserò positivamente, saluterò con un bel sorriso, parlerò con i miei colleghi e persino con il mio ex-marito, mi iscriverò a un corso di meditazione trascendentale, o di massaggio dell'anima, o almeno di yoga. Svilupperò le mie potenzialità nascoste. "Io sarò ok, gli altri saranno ok". Niente più pesi nello stomaco, addio alla pellicola che cala sulla mia testa e mi avvolge, in sere come questa, e mi fa sentire così...così...
"Ah, grazie. Sì, siete stati veloci. Ecco qua. Come? Ah, sì. Giusto. Anche a voi, buon anno".

Addio all'anno vecchio. Addio, cassiera della pizzeria con le borse sotto gli occhi. Addio mia vecchia visione delle cose. Addio melanconie. Addio saltuario stordimento alcolico serale, addio indecisioni della domenica mattina, addio amicizie deprimenti, passeggiare da sola, aria svagata. Addio attacchi di panico, pilloline, lettere non spedite. Addio a tutto questo. Nuove sensazioni, siete le benvenute.

Sto andando verso casa di mia madre dove mi aspetta Noemi e sono già quasi in periferia, dietro ho legato le pizze nelle loro scatole di cartone, quando arriverò saranno congelate, le strade sono bagnate, nei giardini alberi di Natale lampeggiano ai rari automobilisti, sto guidando piano e nel passare raccolgo le immagini, come sempre, una donna che si sta depilando nel bagno con un rasoio, un neonato che strilla in una culla e i suoi genitori non sanno come calmarlo, un cacciatore che si prepara ad andare a letto perché domani deve alzarsi presto per andare a tirare alle anatre, due ragazzi già ubriachi prima ancora che la festa inizi, barcollano e cadono, cadono, come devo essere caduta anch'io, tante di quelle volte, e non era così terribile, ah, non è così terribile questa pellicola viola che mi riveste, (ma io cambierò e proverò nuove sensazioni), non è così pesante questo peso, (ma io cambierò e proverò nuove sensazioni), non è così terribile questo nodo alla gola, (ma io cambierò, oh, Signore, giuro che almeno ci proverò), non è così pesante, non è così pesante così pesante questa perenne sensazione di peggioramento, io proverò, non proverò, io proverò, proverò, oh, certo che no, certo che no, no, non proverò a cambiare la mia visione negativa delle cose, non proverò ad essere "di buon umore", a svegliarmi canticchiando, a vivere danzando, non proverò a "spassarmela", non proverò nemmeno a coltivare un cauto ottimismo, navigherò con la depressione, con l'accidia e lo spleen e gli altri infiniti turbamenti, e poi la sera alla fine di ogni giornata mi abbraccerò da sola davanti allo specchio, mi abbraccerò da sola e, com'è vero Dio resterò fedele alla mia stronza visione negativa di tutte le stronze cose!


(pubblicato sulla rivista In-edito. Buon Natale e Buon anno, folks!)

No, Marco Travaglio, la banana no!

Amo frequentare le librerie ma a Natale diventa un'operazione curiosa perché i librai, consapevoli che l'italiano medio spende 65 euro all'anno per comprare libri (terz'ultimo paese in Europa), mettono in mostra il meglio della loro mercanzia, puntando al colpaccio. Ecco, è proprio la natura delle loro scelte che desta in me qualche stupore: ad esempio, oggi ho visto pile di un libro su "le letture di Hitler". Mi chiedo quale perversione storico-necrofila possa spingere l'acquirente medio a spendere una parte considerevole dei suoi 65 per soddisfare una curiosità del genere. Certo, sono il primo a riconoscere che le letture dicono moltissimo di una persona, specie se quella persona la si conosce poco o poco intimamente: ma, insomma, di Hitler credo si sia sviscerato tutto da un pezzo, no? Del resto, una veloce scorsa al suo unico parto letterario, quel Mein Kampf che spesso compare sulle bancarelle dei libri sfigati (o sui comodini di naziskin ancor più sfigati), dovrebbe bastare a fugare ogni dubbio residuo sul fatto che l'austriaco non era un colosso del pensiero. Comunque, non voglio discutere.
Ciò di cui mi permetto di discutere è del titolo dato da Marco Travaglio alla sua ultima fatica, le cui pile sono assai più alte e troneggiano come minacciose colonne d'Ercole all'interno di ogni bookshop che si rispetti. Il titolo è "PER CHI SUONA LA BANANA - Il suicidio dell'Unione Brancaleone e l'eterno ritorno di Al Tappone".
Ora, l'ammetto, io non sono uno spiritoso. Se mi capita, mi freno. Sì, sono un pesantone, ho letto Hemingway e Nietzsche e disdegno gli istant dedicati a temi di politica contemporanea. Può darsi quindi che sia la persona meno indicata per giudicare dell'arguzia di un titolo del genere (e di altri analoghi del tipo "Le mille balle blu"). Può darsi anche io sia ignorante di queste cose: forse i titoli dei suoi libri non gli sceglie Travaglio ma qualche astuto editor, o qualche programma di ricerca automatico che naviga per il web, selezionando e assemblando le parole più indicate per fare di un libro di Travaglio un grande successo. Forse i libri di Travaglio non li scrive Travaglio (non si capirebbe altrimenti dove trova il tempo). E in fin dei conti, è il contenuto e non il titolo che conta e il contenuto dei libri di Travaglio dev'essere graffiante, audace ecc. ecc. perché attacca Al Tappone e io da persona di sinistra dovrei, secondo logica, stare dalla parte di chi attacca Al Tappone, una volta che ho individuato chi si cela dietro questo divertentissimo pseudonimo, no?
Ma qualcosa in me, nel mio provincialissimo amore per la prosa si ribella. E allora dico no, no Marco Travaglio, non comprerò un libro che si intitola "PER CHI SUONA LA BANANA", non lo farò, mi terrò in saccoccia i miei 65 pezzi, per questa volta, magari me li sparerò tutti in Teroldego e Parampàmpoli (non sai cos'è il Parampàmpoli? Informati, anch'io ho faticato non poco con il tuo Al Tappone). O forse comprerò un libro dal titolo meno sbarazzino, come, non so, "Per chi suona la campana", o "Il mito dell'eterno ritorno". Con tanti saluti a te e, all'Unione Brancaleone e a Al Tappone.

Leggi razziali

Il fascismo rivelò la sua anima razzista già prima delle leggi razziali, e la Chiesa non fece abbastanza per opporsi a "quell'infamia".



"C'è da chiedersi - ha detto ieri il presidente della Camera Gianfranco Fini, nel 70esimo anniversario dell'emanazione delle leggi razziali - perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica».


No, dico: come si fa ad essere in disaccordo con Fini? Onestamente non si può. Sia perché allude ad una colpa collettiva che non sminuisce affatto le colpe individuali, ma fa intravvedere il volto più spaventoso dei genocidi, quello legato alla distratta accondiscendenza o alla tranquilla indifferenza delle masse; sia perché Fini nel suo discorso ha citato - a proposito di quel "prima delle leggi razziali" - anche il colonialismo (e finalmente! Adesso attendiamo che quello che fecero i vari Graziani e Cesare de Vecchi venga insegnato nelle scuole, magari con l'ausilio dei libri del buon Del Boca).


Però, insomma: l'impressione è che mentre Fini dice certe cose - impegnative, scomode, non di circostanza - gran parte degli esponenti del centro-sinistra siano occupati in tutt'altre faccende, dalle polemiche "inter loro" agli appalti furbetti. Fa un po' girare i maroni, nevvero?
Riguardo all'indifferenza o alle complicità della chiesa cattolica (più le seconde della prima, in effetti, e lo dico sentendomi emotivamente distante dall'anticlericalismo di maniera) si considerino altri 2 eventi più recenti: il primo riguarda padre Athanase Seromba, ruandese di etnia hutu, prete cattolico, condannato nel marzo di quest'anno all’ergastolo per aver commesso atti di genocidio durante la mattanza che sconvolse il Paese africano nel 1994 (la sentenza della Corte d’appello del tribunale internazionale per il Ruanda ha ribaltato quella, mite, di primo grado con la quale l'imputato era stato condannato a 15 anni). Durante il genocidio Seromba aveva attirato all’interno della sua parrochia a Nyange, nella prefettura di Kibuye, almeno 1500 tutsi, successivamente massacrati dalle milizie genocidiarie. In seguito, sotto mentite spoglie, riparò in Italia, in Toscana (parrocchia di S. Mauro a Signa, poi S. Martino a Montughi) e venne a lungo "protetto" dall'arcidiocesi di Firenze e dallo stesso Vaticano, che si oppose all'estradizione (la vicenda è illustrata nel dettaglio in molti articoli della stampa nazionale e estera e in diversi siti, ad esempio qui: www.democrazialegalita.it/marco/marco_seromba_9settembre2005.htm; vedi anche: http://club.quotidianonet.ilsole24ore.com/?q=node/1573).
La seconda, più grave, anche se controversa, è la beatificazione, da parte di papa Woytila, di Aloysius Stepinac, arcivescovo di Zagabria che durante la Seconda guerra mondiale si compromise con il dittatore fascista Ante Pavelic, responsabile delle stragi delle milizie ustascia (gli "insorti", con basi per l'addestramento anche in Italia, fra cui, pare, a Riva del Garda) ai danni soprattutto dei serbo-ortodossi (forse 7-8oo.000 i morti causati dalla pulizia etnica). Così Wikipedia riassume la vicenda di Pavelic dopo la guerra (Wikipedia non è una fonte sempre attendibile ma comunque, in questo caso, mi pare riassuma efficacemente): "Nel 1945, dopo aver guidato fino all'ultimo le truppe croate, Pavelic riuscì a fuggire dapprima in Austria, quindi a Roma e infine in Argentina. La Chiesa Cattolica di Roma e Papa Pio XII, che era stato sempre particolarmente benevolo nei suoi confronti, furono sospettati di averne favorito la fuoriuscita."
Stepinac invece fu processato e condannato (ai lavori forzati, anche se morì agli arresti domiciliari, nel 1960). I sostenitori di Stepinac sostengono, va detto, che in realtà l'arcivescovo prese più volte le distanze dal regime ustascia (che pure lo decorò con medaglia al merito nel 1944); una parte del mondo cattolico lo considera insomma un martire del comunismo titino.
Sia come sia, è un fatto che fino alla caduta del comunismo la chiesa cattolica si schierò spesso con regimi se non genocidiari quantomeno fortemente reazionari (compreso quello di Franco in Spagna).

Crudeltà di Stato 1

Il ministro della Salute Sacconi invia un atto d'indirizzo alle Regioni per tutte le strutture sanitarie, pubbliche e private. Illegale interrompere cibo e idratazione delle persone in stato vegetativo.
Dallo Stato monopolizzatore della forza di Hobbes allo Stato etico, che monopolizza la vita e la morte.
Mi viene in mente un film di Arnaud, "Le invasioni barbariche", dove le cose di cui i protagonisti hanno bisogno non vengono garantite o non possono essere ottenute per vie legali, e bisogna procurarsele in altro modo: assistenza sanitaria decente (corrompendo i funzionari sindacali che tengono in scacco l'ospedale), eroina per combattere il dolore (acquistata dagli spacciatori, in luoghi che peraltro la stessa polizia sa essere luoghi di spaccio), morte "dolce" scelta consapevolmente (pagando un'infermiera perchè prepari e somministri il cocktail di farmaci mortale).
E' già così, oggi? Non ancora. Non del tutto. Non in Europa, almeno (il film di Arnaud si riferisce alla realtà americano/canadese). Ma è il futuro che potremmo avere davanti a noi. Estrema rigidità sul piano pubblico - spesso generata dalle pressioni delle lobbies integraliste, dalle battaglie per pure questioni di principio - o difficoltà normativo/burocratiche che di fatto neutralizzano il servizio (il rimpallo di responsabilità e i conflitti di potere sul caso Eluana sono abbastanza eloquenti). Al tempo stesso, privatizzazione strisciante dei servizi che lo stato non vuole o non può garantire, o "accomodamenti" raggiunti per vie traverse (cosa che, suppongo, accada già oggi nei reparti ospedalieri). In alternativa, emigrazione in paesi più accondiscendenti. Succedeva anche prima della legge sull'aborto, tanto per dire, solo che all'epoca le italiane che potevano permettersi un viaggio all'estero erano poche. Nell'era dei viaggi low cost tutto è più a portata di mano.
Potremo accontentarci di così poco?

Sandor Marai, da "Le braci"...

Una sera d'estate, mentre Konrad e la madre di Henrik stavano suonando un pezzo per pianoforte a quattro mani, accadde qualcosa. In attesa della cena, l'ufficiale della guardia e suo figlio, seduti in un angolo del salone, ascoltavano educatamente la musica, con la condiscendenza computa e la remissività di chi dice: "La vita è tutta un dovere, bisogna sopportare anche la musica. Non ci si può mostrare annoiati davanti a una signora". La contessa suonava con trasporto: eseguivano le Fantasie polonaise, di Chopin. Nella stanza tutto sembrava vibrare. Mentre aspettavano, educati e pazienti, nelle loro poltrone in un angolo del salone, padre e figlio si resero conto che in quei due corpi, della madre e di Konrad, stava avvenendo qualcosa di strano.
Dalla musica sembrava sprigionarsi una forza eversiva capace di sollevare i mobili e di gonfiare i pesanti tendaggi di seta alle finestre. Era come se tutte le cose vecchie e ammuffite, sepolte da tempo nei cuori umani, ricominciasero a vivere, come se nel cuore di ogni essere si annidasse un ritmo mortale che, ad un certo punto della vita, potrebbe mettersi a pulsare con implacabile violenza.
Gli ascoltatori pazienti compresero che la musica rappresentava un pericolo.

Non hanno altro da fare?


Cito da Repubblica: "Ventidue minuti di sforamento. Ventidue minuti di bis con una versione trascinante di Twist and Shout e American Land. Avviso di garanzia per il promoter di Bruce Springsteen, Claudio Trotta, titolare della Barley Arts: disturbo della quiete pubblica e mancata osservanza dei provvedimenti dell'autorità. Tutta colpa di quel «cattivone» del Boss che il 25 giugno, con un Meazza stracolmo di fan, ha avuto l'improvvida idea di regalare al suo pubblico due emozionanti bis, sforando così i tempi previsti dai regolamenti dei concerti e di conseguenza superando i decibel imposti per quell'ora: le 23.30."

Ma i giudici in Italia non hanno altro da fare?

Chiacchierando con Rigoberta Menchù


Rigoberta Menchù, guatemalteca, premio Nobel per la pace 1992, una vita spesa a combattere dittatura e discriminazione (e una famiglia sterminata dai militari negli anni bui della guerra civile), è stata recentemente in visita a Bolzano e a Trento. Il personaggio credo non abbia bisogno di presentazioni. Questa, invece, una sintesi dell'intervento/intervista di Trento (29.11.2008).

"Il Guatemala viene dall'esperienza di una guerra dolorosissima, però è anche un Paese dove si vive la pluralità, la diversità, dove si sperimentano quotidianamente valori profondi, molto importanti. Soprattutto è un paese dove ci siamo noi Maya, che siamo vivi e che lottiamo per ottenere il riconoscimento della nostra dignità, della nostra emancipazione, e che vogliamo essere parte delle decisioni che riguardano il nostro futuro. Oggi in Guatemala ci sono moltissimi giovani Maya che stanno imparando a costruire un Paese dove sia effettivo il pluralismo . Naturalmente abbiamo dei progetti che vorremmo anche condividere con voi: ad esempio stiamo iniziando la costruzione di una università Maya con lo scopo di prerservare, conservare e far rivivere i nostri valori ancestrali, le nostre lingue, la nostra cultura."

L'America Latina è cambiata rispetto a quella del 1992, quando lei ricevette il Nobel. Molti regimi autoritari sono caduti, sono emerse nuove leadership, anche indie, come quella di Evo Morales in Bolivia... Pensa che siano cambiamenti reali?

"Penso di sì, non solo per i cambiamenti che si sono verificati in America Latina, ma anche per i cambiamenti che sono avvenuti a livello globale. Trent'anni fa noi indigeni lanciammo un appello all'umanità perchè si prendesse cura della Madre terra, proprio pensando ad un futuro sostenibile per tutti, affinché si creasse una relazione armoniosa con la natura, si preservasse la vita sul pianeta. Ma nessuno ci fece caso, ci hanno ignorati. Adesso, da quando c'è il surriscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci dei poli, da quando si è creato questo squilibrio universale, si è capito che è giunto il momento in cui i nostri popoli possano far sentire la loro voce.
Anche le situazioni estreme in cui noi siamo vissuti, come popolo guatemalteco originario - il genocidio, i massacri che abbiamo subito - hanno ovviamente inflitto ferite pesantissime, ma la nostra popolazione è ancora viva, continua a guardare verso il futuro e lancia un appello, per preservare l'equilibrio che si sta perdendo. Questa esperienza così drammatica, che è stata vissuta dai guatemaltechi negli ultimi periodi, non ha provocato insomma la loro scomparsa, anzi ha dato loro forza per costruire un futuro diverso. Ad esempio oggi il calendario Maya, che abbiamo custodito gelosamente ed orgogliosamente nel corso dei secoli, sta diventando oggetto della scienza odierna. I Maya ne sono veramente orgogliosi, sanno che al loro interno, nella loro cultura, esiste questa base da cui partire per creare un futuro migliore.
Però i cambiamenti non sono automatici, richiedono dei processi lunghi e difficili. Prendiamo l'esempio della Bolivia: c'è una situazione di estrema povertà, di fame e di miseria; la gente chiede delle risposte immediate, ma queste purtroppo non sono possibili, perchè la realtà attuale è il frutto di una situazione storica. Quindi i governi futuri dell'America Latina saranno governi impopolari, non avranno forse il prestigio e il consenso necessario per risolvere i problemi di diseguaglianza, di violenza, di impunità, del narcotraffico che tocca tutti i Paesi dell'America Latina; è molto difficile.

E la crisi economica?

La crisi economica economico è un dato di fatto a livello mondiale. All'inizio la nostra reazione alla caduta della borsa di wall Street è stata quasi di esultanza, perchè ovviamente per noi paesi poveri Wall Street era vista come un nemico, ma oggi che questa crisi è ovunque, ha delle ricadute pesantissime anche su di noi, ad esempio sul fronte delle rimesse, dei soldi che dagli emigrati negli Stati Uniti arrivano alle famiglie del Guatemala. I soldi che servono a far studiare i figli mancano, quindi questo è già un problema enorme. C'è una grandissima mancanza di lavoro. La gente cerca lavoro soprattutto negli USA dove si illude di trovarlo. E le frontiere sono "dure", lo sappiamo. Poi c'è il problema del Trattato di libero commercio tra gli Stati Uniti e i nostri Paesi; in effetti questo commercio non è libero e eguale, nel senso che chi compera i nostri prodotti? Quindi i problemi che adesso colpiscono i paesi ricchi, i quali si ritrovano con una ridotta capacità di spesa, causeranno tempi duri anche nei paesi poveri come il nostro.

Il razzismo in Europa sta risorgendo. Cosa ne pensa?

Il razzismo, la discriminazione , l'offesa, l'insulto verso la diferenza sono problemi sia "pratici" che culturali. Io credo che il razzismo vada affrontato in primo luogo a livello educativo. Se riusciamo a lavorare in campo educativo per il dialogo, la pace, per orientare le persone a vincere l'ignoranza, allora forse potremmo avere successo anche in questo campo. Io ritengo che il razzismo sia come una malattia, una malattia a livello personale ma anche a livello collettivo; se una persona razzista non riesce a guarire, a riconoscere che il suo è un male che deve essere superato, è chiaro che ne risente tutta la collettività. Questo timore della diversità ha molte cause perchè c'è chi teme di perdere il suo status a livello economico, chi di perdere l'identità e i propri valori; quindi occorre lanciare delle campagne di educazione al rispetto della diversità non soltanto a scuola ma a livello dell'intera istruzione pubblica, attraverso i mass-media, attraverso la presa di posizione dei leaders politici, in modo che i loro appelli per poter vivere nella pace e nella fratellanza raggiungano la popolazione.
Anche a livello legale, del sistema giuridico, a volte esiste un sottofondo di razzismo, laddove implicitamente il razzismo è consentito e non ci sono precedenti per giudicare. Io sono riuscita a vincere una causa contro la discriminazione e così ho creato un precedente giudiziario non soltanto in Guatemala ma per tutta l'America Latina. Non bisognerebbe, comunque, arrivare a un tribunale, dovremmo essere noi come persone a essere contro questa mentalità razzista.

Cosa pensa dell'elezione di Obama alla presidenza degli Usa?

Sono stata negli Usa negli ultimi giorni della campagna elettorale (soprattutto ho seguito la campagna di Obama) e sono rimasta colpita dalla partecipazione volontaria, attiva, cosciente di masse di giovani, di donne, di gente semplice.
Era veramente una campagna di massa, fatta di gente con entusiasmo, a partire dagli studenti, gente che agiva veramente per convinzione e non perchè si aspettasse un ritorno, delle regalie. E questo ha rotto lo schema delle campagne elettorali anche come vengono condotte in America Latina, nelle quali vince chi ha denaro, chi promette e dà cose.
L'altro elemento molto impattante per il Guatemala è stato vedere che l'85 % dei neri americani hanno votato per Obama. Questo è stato un segno di rottura dalle oppressioni, dallo schiavismo; le persone che non credevano in loro stesse, votando per Obama hanno votato per sè stesse.
Un nero alla Casa Bianca è già la rottura di un paradigma.Obama ha molto potere, potere sulla gente e che gli viene dalla gente, ha il potere che gli viene dalla collaborazione economica, perchè il denaro gli è stato dato dalla gente, e ha il potere che deriva dal voto; Obama quindi è proprio nella condizione perfetta per poter governare.
Come userà questo potere Obama non lo sappiamo, ma immagino che lui abbia la consapevolezza di questa grande storia che ha alle spalle, questa lotta civile che ha portato avanti anche Martin Luter King, che ha sognato un'America diversa. Quindi io credo che lui abbia questa consapevolezza.
Molto dipenderà dalle persone che formeranno il suo staff e speriamo che anche queste persone siano consapevolidel peso storico che Obama ha sulle spalle, perchè a volte non è la figura principale del governo che sbaglia, ma è l'apparato che governa con lui, e noi sappiamo che in America questo apparato è molto forte, molto sofisticato.

Maremma



Darsi il tempo

Ho avuto l'occasione di partecipare l'altra sera alla presentazione di un libro sulla cooperazione allo sviluppo, argomento di cui mi interesso dai tempi dell'università, forse perchè all'epoca (un'epoca già in parte post-comunista, anche se il Muro ancora non era caduto) quella della cooperazione allo sviluppo sembrava essere una delle poche cause per le quali valeva la pena impegnarsi, pur con le dovute cautele. Gli autori sono Michele Nardelli e Mauro Cereghini, il titolo è “Darsi il tempo” (pubblicato dalla Emi).

Il dibattito in sala è stato interessante, ma devo dire che la cosa che più ho apprezzato è il libro in sé. Tante cose mi piacciono di questo ”Darsi il tempo”. Parto da quelle minori: le citazioni letterarie, da Rimbaud a Musil passando per Ivo Andric. Che dei saggisti (quantunque un po' “sui generis”) leggano anche i romanzieri e i poeti è un buon segno. Diffido di chi legge esclusivamente testi scientifici, a prescindere dalla disciplina (fosse pure la storia o la sociologia), e provo compassione per chi ha tempo solo per i giornali (poi purtroppo c'è molta gente che non legge per niente, né romanzi, né saggi né giornali, e non sa cosa si perde).
Inoltre è davvero apprezzabile la capacità di raccontare – in un libro che comunque vuol fare il punto su una problematica di carattere generale - esperienze vissute in prima persona. Le cose – i paradigmi, i concetti, le teorie – assumono sempre una maggiore vividezza quando sono collegate all'esistenza quotidiana. Bellissimo il racconto della riunione dei rappresentanti delle ong a Londra, appassionanti (e non poteva essere altrimenti) le parti riguardanti le esperienze vissute dagli autori nei Balcani.

E adesso veniamo a quello che personalmente ho trovato più coraggioso in queste pagine, relativamente al “succo”, al messaggio che esse vogliono trasmettere. L'invito a considerare la cooperazione allo sviluppo un'opportunità per capire, prima ancora che per fare. Per capire il mondo com'è, oggi, con le sue reti, i suoi motori, le sue “contraddizioni”, avremmo detto un tempo. Il mondo così come si manifesta nei paesi, nelle realtà in cui i cooperanti vanno a fare cooperazione – in sostanza in Africa Asia, America centromeridionale e alcuni paesi europei - ed insieme il mondo in cui essi stessi vivono, questo qui, il nostro mondo, il Trentino, l'Alto Adige, l'Italia, la Germania, l'Olanda, Londra, gli Stati Uniti. Un Primo mondo - usiamo volutamente una terminologia desueta - che spesso presenta indicatori da Terzo mondo (come già ci ha insegnato ad esempio Amartya Sen), un Primo mondo che delocalizza, che produce la sua ricchezza a Timisoara o in Corea del Nord (30 anni fa sapevamo che erano le multinazionali a fare questo, la novità è che oggi lo fanno anche le pmi), un Primo mondo dai confini incerti e mobili, un Primo mondo, finalmente, che non ha più molto senso definire così, immersi come siamo in un continuum di merci, finanze, emigrati, informazioni. E voli low cost.
Mi piace il coraggio con cui gli autori invitano a rivalutare la parola, il tempo speso a confrontarsi, a discutere, e ciò non per pura passione intellettuale ma perché la comprensione è forse l'unica arma “vergine” che ci è rimasta per combattere povertà e pulizie etniche, narcomafie e circhi mediatici. Ho parlato di coraggio ed in effetti ce ne vuole, perché il mondo della cooperazione non è affatto estraneo agli effetti perniciosi dell'ideologia del fare (anzi, del “fare qualcosa”, come spesso si esprime la gente semplice, per dire che non ha un'idea chiara di come si possano, non so, salvare quei bambini dalla morte per fame, ma tutto è meglio che stare con le mani in mano; e ricordo di avere sentito un signore facente parte di un comitato di valutazione dire una volta che a suo giudizio bisognava concentrarsi a fare “muri", perché agli occhi dei donatori fa sempre un'impressione migliore avere costruito qualcosa di tangibile, come una palazzina). Assillate dalle regole della burocrazia, da cui dipendono per ottenere i finanziamenti pubblici, condizionate dagli input degli stessi mass media, le associazioni finiscono spesso per puntare tutta la loro posta sui numeri: bambini vaccinati, pozzi scavati, container spediti, e così via, e così via, l'importante è che siano migliaia, sempre migliaia. L'importante è non confessare mai un senso di impotenza o un fallimento. L'importante è non accennare a difficoltà che non siano di natura pratica: la scarsità di fondi, innanzitutto, e poi eventualmente la carenza di infrastrutture, il clima avverso, magari addirittura le poche capacità dei beneficiari, la loro cultura insufficiente, persino (come in uno scimmiottamento del peggior colonialismo) la loro indolenza.
Quanto costerebbe, in termini di credibilità, soldi, prestigio sociale (perché comunque la cooperazione procura anche questo, procura considerazione, a volte anche a chi, a casa sua, si rivelerebbe un perfetto incapace) ammettere che le cose sono un po' più complesse, che la relazione con gli “altri” non la si misura solo in termini di progetti e diagrammi e muri e nastri tagliati? Quanto costerebbe confessare, infine, che magari non si è capito niente del posto e della situazione in cui si è andati a operare?
Ecco, del libro mi piace la franchezza con cui si ammette la possibilità di commettere degli sbagli, anche quando si cerca in piena onestà di “fare del bene”. Tutti i cooperanti dovrebbero avere paura delle loro azioni. Invece, anche a me è capitato di vedere all'opera l'arroganza dei donatori, eccome! Persino col classico Panama bianco in testa.
Andrebbe poi aggiunto che gli stessi enti territoriali - i protagonisti della cooperazione decentrata - possono commettere degli sbagli, non meno degli stati, degli organismi sovranazionali e delle ong: chi si ricorda di come i presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano si precipitarono in Slovenia i primi giorni della secessione, per testimoniare il loro pieno appoggio a Lubijana? Col senno di poi, non era più consigliabile la cautela? Non sono state anche queste improvvide, sconclusionate fughe in avanti a versare benzina sul fuoco della disgregazione della Jugoslavia?
Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tutto questo ovviamente non significa che non ci si debba sforzare comunque, con gli strumenti che si hanno a disposizione, tanti o pochi che siano, di costruire un mondo un po' meno peggiore di quello in cui si vive.

In sala poi sono emerse anche altre cose. Devo confessare che alcune - specie se pronunciate con il tono solenne di Ugo Morelli - mi sono sembrate forse un po' scontate: l'identità come un percorso, come un divenire (un bolzanino non fa che interrogarsi tutta la vita sull'identità...), l'invito a rivedere il nostro stile di vita (l'imparammo da Alex Langer, l'imparammo una vita fa, e ci credemmo! Poi si sa com'è finita: lo stile di vita è cambiato, sì, nel senso che volevano le multinazionali, però. E oggi la gente passa il week end intruppata nei megastore).
Ma ammetto che devo sforzarmi di tenere a freno il mio pessimismo cosmico e soprattutto la mia tendenza a considerare troppo spesso come già visti o già sentiti tanti dei ragionamenti che riguardano questo genere di problemi. Innanzitutto perché la maggioranza delle persone ne sanno poco o niente, il dibattito di solito è disperatamente di basso profilo anche dentro a tante associazioni (tant'è che tutta la parte riservata dal libro alle differenze fra cooperazione decentrata e cooperazione di comunità, che pure costituisce uno dei momenti centrali della trattazione, rischia di risultare assolutamente incomprensibile ai più, ne sono certo). E poi, non sono ancora così vecchio da potermi permettere atteggiamenti di sufficienza. Tuttavia, è così: sconto i miei anni '80. La critica alla cooperazione allo sviluppo c’era già allora: nei libri, nelle aule universitarie, nei segmenti più avanzati di opinione pubblica che si occupavano della questione “terzomondiale” e di “interdipendenza” (la quale negli anni ’90 si sarebbe chiamata globalizzazione). L’unica differenza sostanziale, semmai, è che negli anni ’80 si criticava più aspramente la “grande cooperazione”, quella gestita dagli Stati e dai loro apparati, spesso sotto l'egida della Banca mondiale o del FMI: in Italia erano gli anni del Pentapartito, della guerra strisciante fra Psi e Dc anche su questo fronte, degli scandali degli aiuti alla Somalia di Siad Barre (in parte già noti ben prima di Tangentopoli). L’atteggiamento verso le ong era più speranzoso, più benevolo. Venivano dipinte come l’alternativa “positiva”. Oggi si è più consapevoli che anche la cooperazione delle associazioni più essere scadente, di basso profilo, viziata da pregiudizi, ignoranza, superficialità. Mi ricordo - ed era solo il 1990 - quando partecipai ad una raccapricciante riunione, nel sottoscala di una parrocchia di Bolzano, piena di “dame della carità” impegnate ad organizzare una raccolta di panettoni da spedire in Africa come doni natalizi!
E poi, se è come dice Tonino Perna, che l'idea originaria di cooperazione è morta a causa del neoliberismo e delle guerre umanitarie, di nuovo a me pare che si ritorni agli anni '80: il neoliberismo c'era già, anzi, era quella la stagione dei capostipiti, Reagan, la Tatcher (e la scuola di Chicago). Le guerre umanitarie invece no, non c'erano ancora, in compenso c'erano un mucchio di guerre a bassa intensità fomentate dalle superpotenze, Usa e Urss. La Guerra fredda , insomma, non era meno sinistra dell'era apertasi con il crollo del Muro di Berlino e la pubblicazione del saggio di Fukuyama sulla fine della storia. Sotto questo profilo, non c'è proprio nulla da rimpiangere. E anche questo, in fondo, rappresenta un problema, per me. Per questo forse, pur considerando i no-global la grande novità degli ultimi 15 anni, non ho mai potuto sentirmi pienamente parte di quel movimento. Perché per molti versi mi sembrava che avessero scoperto l'acqua calda, a Seattle. E poi anche per un'altra ragione: perché ricordavo com'era il mondo prima, prima della caduta del Muro. Non era migliore.

Giustamente e molto opportunamente, Nardelli dice che oggi tutto si tiene, non c'è Sud e non c'è Nord. E' l'interdipendenza, certo, e come tale la conosciamo da un pezzo (ricordiamoci la crisi del petroli del 1972-73); ma Nardelli sottolinea il dato politico piuttosto che quello economico, ed è questa la parte più interessante. Nardelli e Cereghini – e altri autori che il libro cita, come Luca Rastello, ad esempio – propongono un'analisi convincente delle nuove classi dirigenti di tanti paesi non “terzi” o “quarti” ma pienamente inseriti nello scacchiere geopolitico contemporaneo: un po' cacicchi e un po' narcos, un po' benevoli dittatori nazional-popolari un po' mafiosi, padroni di stati e regioni offshore dove si produce tanta parte della ricchezza capitalista contemporanea, dove le immense fortune create dal grande gioco finanziario e dagli altri grandi giochi attorno alle materie prime, ai traffici illeciti, alle guerre vengono a mondarsi dei loro peccati originali, a moltiplicarsi piuttosto che a nascondersi.
E' il volto sinistro della globalizzazione (dal canto mio, amo pensare anche al suo volto "buono", al fatto di poter ascoltare sul mio ipod made in Corea un brano di Lou Reed inviatomi via mail in Bolivia dove mi trovo momentaneamente per lavoro da un amico di Bolzano che l'ha scaricato da un sito neozelandese. Difficilmente sarò mai un consumatore "zero km.").
E' il volto sinistro della globalizzazione, dicevamo, e il libro ce lo restituisce con grande vividezza nelle pagine dedicate all'arrivo dei cooperanti a Prijedor, Bosnia Erzegovina, e alla loro conoscenza con i boss locali, ex-comunisti riconvertitisi alla pulizia etnica non perché nostalgici di un passato che non è mai passato (quello degli odi fra cetnici e ustascia) ma perché perfettamente consapevoli che la guerra è l'occasione migliore per organizzare un gigantesco trasferimento di ricchezze (i beni delle vittime, innanzitutto) nonché soprattutto per riorganizzare lo Stato a loro personale vantaggio (e poco importa se dai piani quinquennali si salta direttamente dentro alla deregulation più selvaggia).
Ed ancora, andando un po' a braccio: dell'intervento in sala di Cereghini bello il passaggio dedicato ai militari; mi è piaciuta la franchezza con la quale – da pacifista – ha detto che “si può collaborare, a certe condizioni”, pur consapevole che questa affermazione suona come una bestemmia per molti del “movimento”. E' quello che ho cercato di dire nel mio libro sulla Somalia, che chissà se mai uscirà: perchè ad esempio in Somalia dell'apparato militare (italiano, nella fattispecie) si è visto il peggio ma anche il meglio: soldati e ufficiali che sono venuti meno ai loro doveri e al loro onore – come denunciato dalla stampa all'epoca, per conto mio un po' strumentalmente – ma anche generali che si sono sforzati di capire, di provare a mediare fra le fazioni in lotta, di svolgere un ruolo almeno in parte politico: non a caso facendo arrabbiare gli americani, per i quali l'unico obiettivo era far fuori Aidid (il cattivone di turno) e farlo nei tempi della CNN. E poi: c'è qualcuno oggi che pensa in tutta onestà che a Srebrenica i Caschi blu non dovevano sparare per impedire il compiersi del genocidio? C'è qualcuno che ritiene che sia stata una buona cosa per l'Europa accettare l'assedio di Sarajevo, aspettare che i morti in quella città salissero a 10.000, aspettare che fossero i bombardieri americani a togliere le castagne dal fuoco? Il che, ovviamente, non significa approvare l'Iraq o la dottrina della guerra prenventiva: significa riconoscere che lo slogan “contro la guerra senza se e senza ma” suona molto bene ma non serve a nulla, e non serve a nulla perché è ideologico, pre-politico, non distingue situazione da situazione, guerra da guerra.

Infine, una nota su un concetto che nel libro emerge, sì, forse, ma non con l'importanza che meriterebbe. Cioè che cooperare è bello. Dà piacere. Risponde probabilmente ad un bisogno psicologico profondo. Di solito, quando lo si ammette, lo si fa con tono colpevole. C'è il timore di far passare il messaggio che i cooperanti si divertono o si inebriano del loro ruolo, del loro potere. Non mi riferisco a questo genere di situazioni, ovviamente. Mi riferisco ad un bisogno umanissimo, un bisogno “onesto”, che è quello di relazione. E forse di avventura: l'avventura data dalla relazione, appunto, dall'andare “altrove”, dal confrontarsi con ciò che è “altro da sé”.
Molti soddisfano questo genere di bisogni in maniere più ovvie, e a casa propria. Altri – una minoranza, certo – cadono vittime dell'impulso che li spinge ad andare nei Balcani quando infuria una guerra o in Africa dove comunque prendersi per lo meno la malaria è nel novero delle possibilità. Non va sottaciuto. Fare operazione di sincerità riguardo ai moventi della cooperazione significa anche confrontarsi con questo genere di...emozioni? E non sono, a parer mio, emozioni di cui ci si debba vergognare.
E mi fermo qua perché altrimenti devo scrivere un libro a mia volta.

Il grande Zimbabwe

Il grande Zimbabwe è il nome di uno straordinario sito archeologico dell'Africa australe, composto da una serie di costruzioni murarie in un continente fatto di capanne di fango. Wilbur Smith per giustificare questo mistero scientifico s'inventò che fosse stato creato da una tribù barbara (nel senso che noi europei diamo a questa parola, leggasi "i barbari delle invasioni barbariche") che aveva perso la strada ed era finita laggiù. Ma si sa, Wilbur è uno stronzo colonialista.
Anche lo Zimbabwe-nazione è una pura creazione coloniale: venne "inventato" da Cecil Rhodes, presidente della British South African Company, si chiamò non a caso Rhodesia del Sud (quella del Nord era lo Zambia), e venne di fatto governato per cent'anni sul modello sudafricano: ai bianchi potere, terra, miniere, ai neri miserabili riserve sovrapopolate e lavori servili. In Zimbabwe è cresciuta anche Doris Lessing, una delle scrittrici più straordinarie del '900, premiata col Nobel 2 anni fa; nata in Iran, figlia di un funzionario dell'amministrazione coloniale britannica ferito durante la prima guerra mondiale e "pensionato" con un pezzo di terra in Africa, comunista, ha raccontato il paese (che abbandonò a 30 anni per trasferirsi a Londra) con straordinaria vividezza. Negli anni '60 Ian Smith proclamò unilateralmente l'indipendenza, mai riconosciuta dalla comunità internazionale; nel 1980, alla fine di una lunga guerra di liberazione, il regime bianco e razzista cadde. Vinse Robert Mugabe, i neri, divisi in due fazioni (Zanu e Zapu, che ricalcavano le divisioni etniche fra la maggioranza Shona, a cui appartiene Mugabe, e la minoranza Ndebele, che ricalcavano a loro volta le tradizionali divisioni fra agricoltori e allevatori), regolarono i loro conti piuttosto sanguinosamente. Mugabe uscì vincitore, e si aprì una stagione di grandi speranze. All'epoca tutte le persone di buona volontà credevano in Mugabe: conservo riviste degli anni '80 (quando studiavo storia dell'Africa all'Università di Bologna), riviste cattoliche, terzomondiste, di ogni tipo, in cui si magnificava il progresso del paese. Le condizioni della popolazione (nera) miglioravano, l'autosufficienza alimentare sembrava raggiunta, anzi, lo Zimbabwe (tradizionale produttore di tabacco) tornava ad esportare, Mugabe stesso appariva come un leader autorevole pragmatico, aperto alla chiesa cattolica, nonostante il suo pseudo-marxismo. Un motivetto pop ("Bobby Mugabe, comes from Zimbabwe...") ne cantava le gesta. Tutto ciò nonostante la vicinanza con uno scomodissimo vicino, il Sud Africa dell'apartheid, che fomentava guerre e guerriglie in tutti i paesi confinanti della cosiddetta front-line (quasi tutti governati da regimi socialistoidi).
I problemi sono cominciati ad emergere negli anni '90, con l'avvio della riforma agraria. Certo, è un dato di fatto che le terre migliori erano ancora in mano ad una minoranza di farmers bianchi; ma è altrettanto vero che questi farmers erano lì da una vita, davano lavoro a un sacco di neri (affittuari, mezzadri, braccianti) e sapevano il fatto loro. Togliergli le terre per darle ai "reduci" - i sostenitori di Mugabe - è stato un disastro, il che dimostra come un'idea che sembra giusta in linea di principio possa rappresentare una iattura se tradotta in pratica. Mugabe è diventato in breve una "bestia nera", e oggi gli è addirittura negato l'ingresso in Europa e negli Usa (il che francamente pare un'esagerazione, se si pensa ai salamelecchi che facciamo ad un personaggio di sicuro peggiore quale è Gheddafi, per non dire dell'appoggio dato in passato dall'Occidente a dittatori come Mobutu Sese Seko o Siad Barre). Il paese è ridotto alla fame e il regime si è avvitato su se stesso, sprofondando in un gorgo di autoritarismo e violenze. Il risultato sono le migliaia di emigrati che cercano un futuro migliore in Sud Africa (oggi come un tempo, ma oggi è forse anche peggio di un tempo perché il Sud Africa non li vuole). Sono la conflittualità diffusa, sono il colera di cui parlano i giornali in questi giorni.

Donne d'Africa





Dall'alto: Mozambico e Kenya, preparando il pranzo. Somalia, donna con bambino. Eritrea, festa a Kerèn (foto del sottoscritto).

Crudeltà vaticane 2

Dopo il no alla depenalizzazione dell'omosessualità (il progetto di dichiarazione che la Francia intende presentare a nome dell’Unione europea alle Nazioni Unite), il Vaticano esprime il proprio dissenso anche nei confronti della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, entrata in vigore l’8 maggio scorso, primo trattato sui diritti umani del Terzo Millennio approvato dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2006. Il Vaticano ha partecipato attivamente ai lavori per la stesura del testo, durati cinque anni, ma, alla conclusione, si è rifiutata di firmarlo perché il documento non ha inserito un divieto esplicito nei confronti dell’aborto (inteso anche come "diritto a..." da parte di coppie disabili).
La chiesa di papa Ratzinger sembra stia facendo di tutto per allontanarsi dal comune sentire della gente.
Chiaro che c'è dietro una (magari condivisibile) preoccupazione per l'eugenetica. Ma, una volta di più, il tutto si risolve in una mera questione di principio (il Vaticano come Rifondazione: l'importante è fare testimonianza).

Crudeltà vaticane 1.

Appello della Santa Sede all'Onu: "L'omosessualità resti reato".
La Chiesa perseguita se stessa?


Leggo su un blog (http://aconservativemind.blogspot.com/): "La paura di Ratzinger dinanzi all’Onu, dunque, è quella che Fëdor Dostoevskij mette in bocca a Ivan Karamazov: «Se Dio non esiste, tutto è permesso»." Trovo davvero fastidiosa questa pretesa dei credenti di essere gli unici depositari di una morale. Oltretutto, questa visione è una visione disperata dell'uomo, perché lo svilisce profondamente. Davvero gli uomini hanno bisogno di inventarsi un Dio per darsi delle regole di condotta? Da non-credente mi pare una considerazione inaccettabile. Oltretutto è la stessa esperienza di vita (il dato empirico, diremmo, se fossimo in un'aula universitaria) a mostrarmi pressochè quotidianamente il contrario. Credenti di ogni fede che fanno ciò che vogliono (sia in materia sessuale sia in campi assai più delicati e gravi) giustificandosi in mille modi. E agnostici - come il sottoscritto - che non accetterebbero mai compromessi tanto enormi (spesso, perlopiù, frutto di mera ipocrisia).
E poi, abbiamo alle spalle un dibattito plurisecolare sul Giusnaturalismo. Come possiamo credere che le società umane non possano autoregolarsi, come possiamo far dipendere le regole che le governano da una divinità, da una religione? Ciò significa negare non solo lo stato laico ma le fondamenta stessa della nostra cultura (anche se ai sostenitori del Papa è spesso concesso dimenticare che le radici della civiltà occidentale sono Machiavelli e Hobbes e Locke e Voltaire e Stuart Mill e...Andy Warhol, ovviamente).
Ho letto l'intervento di un sacerdote trentino (peraltro illuminato) il quale dice: "In fondo l'omosessualità è reato in 94 paesi. La Chiesa non fa che schierarsi con essi."
Sì, ma - con tutto il rispetto - quali paesi? Rwanda, Libia, Iran, Bangla Desh, Etiopia, Birmania, Sudan, Arabia Saudita, Mauritania...
Fari di democrazia, insomma.
Il rappresentante vaticano all'Onu monsignor Migliore argomenta che una dichiarazione di valore politico - quale è quella proposta dalla Francia - rischia di aggiungere "nuove categorie protette dalla discriminazione senza tener conto che, se adottate, esse creeranno nuove e implacabili discriminazioni". In pratica, gli Stati che non metteranno omo e eterosessuali sullo stesso piano, verrano fatti oggetto di pressioni indebite se non addirittura messi "alla gogna". La preoccupazione, onestamente, è un po' debole, di fronte alla lista di vessazioni a cui, in tanti paesi, l'omosessualità viene sottoposta. Ma il discorso potrebbe allargarsi: infatti molti di questi paesi in realtà discriminano pesantemente anche altre categorie di cittadini, a partire dalle donne. Le persone di buon senso si chiedono perché ciò che le persone fanno in camera da letto sia così determinante per le gerarchie eclesiastiche. Si chiedono inoltre se ci siano specie d'amore intrinsecamente peggiori di altre, da circoscrivere, da punire.