"Quelli che ami non muoiono" intitola Mario Fortunato il suo ultimo libro, edito da Bombiani (citando Brodskij). Ed è così.
C'è un bell'articolo oggi su XL di Repubblica, dedicato a Joe Strummer.
C'è un bell'articolo oggi su XL di Repubblica, dedicato a Joe Strummer.
Joe Strummer, cantante e chitarista dei Clash (non uso la parola "leader", penso non sia intonata al gruppo) è morto nel dicembre 2002. I Clash rappresentano, nella storia del rock e in generale della cultura (controcultura? si usa ancora questa parola?) contemporanea, il gruppo punk per eccellenza, assieme ai Sex Pistols. Se penso a come erano conosciuti, amati, osannati all'inizio degli anni '80, la loro parabola discendente ha dell'incredibile.
Recentemente ho visto "The future is unwritten", del regista Julien Temple. Una testimonianza completa e a tratti commovente dell'artista e dell'uomo: figlio di un diplomatico - il che cozzava un po' con l'immagine del "clash city rocker" ribelle e scavava un solco con l'altra primadonna del punk targato 1976, Johnny Rotten-Lydon, appartenente invece al verace proletariato londinese di origine irlandese - Strummer aveva viaggiato molto e aveva studiato in un college assieme al fratello (che morì suicida giovanissimo), prima di tuffarsi nel mondo rutilante della Londra alternativa. Il successo dei Clash fu molto veloce, come per altri gruppi dell'epoca, che diedero un calcio in pancia all'accademia del rock, Led Zep , Genesis, Jethro Tull e compagnia, restituendo alla musica l'urgenza originaria (quella che fa imbracciare le chitarre a tanti ragazzi in ogni parte del mondo anche se sanno suonare solo 3 accordi). Ma la loro carriera terminò presto; già nel settembre dell'83 la formazione storica aveva cessato di esistere, con l'allontanamento dalla band di Mick Jones. Il gruppo come tale morì 2 anni dopo.
Dei Clash restano dischi storici: l'album di esordio, innanzitutto, quintessenza del vero punk-rock, dove già il rock "bianco" incontrava il reggae e il dub "neri", prefigurando i nuovi orizzonti della musica pop, meticci e multietnici. E poi "London Calling", vera enciclopedia musicale, e "Sandinista", di cui all'epoca si scrisse: "Ha costretto i giornalisti musicali a rispolverare i libri di storia per scoprire chi era Sandino e a interessarsi alle vicende del Nicaragua (travagliato paese dell'America centrale all'epoca lacerato da una guerriglia finanziata dagli Usa, con le modalità che poi lo scandalo Oliver North renderà note: vendita sottobanco di armi all'Iran di Khomeini, ovvero a uno dei paesi del cosiddetto "asse del male", per finanziare appunto la guerriglia Contra in Nicaragua ndr).
E poi, come dimenticare i loro ultimi successi, in particolare il gioioso, liberatorio, "Rock the Kasbah", con quel video in cui un rabbino e uno sceicco se ne vanno a braccetto per il deserto scolandosi una bottiglia di wisky? Tutti avremmo voluto vivere in un mondo così, anziché in quello della guerra fredda , dello scudo spaziale e Ronald Reagan.
Ma siccome a me affascinano sempre le vicende "ultime" dei personaggi famosi, quelle che scivolano oltre i riflettori (non so, come avrà passato il suo tempo Napoleone a Sant'Elena, per esempio?), della testimonianza pubblicata oggi sul supplemento di Repubblica, di un discografico della Polygram che curò il tentativo di rilancio di Joe Strummer nel mondo musicale, alla fine degli anni '90, mi colpiscono soprattutto alcuni dettagli. Perché è da questo, è dai dettagli, che vedi di che pasta è fatta una persona.
Cito:
"...l'artista inglese Damien Hirst, suo grande fan e amico, gli aveva detto: «Tu devi tornare assolutamente a fare il tuo lavoro. Ma per farlo devi reintrodurti, conoscere gente, far capire chi eri, la tua storia...».Qualche settimana dopo è venuto a Milano per le interviste (...). La prima sera andammo a cena. Ci trovammo in un bar assolutamente anonimo vicino a Corso Buenos Aires a Milano. Non c'erano limousine a disposizione, come all'epoca era consuetudine per gli artisti, lui non l'aveva voluta. Ma c'era un mio amico con una golf turbodiesel scassata che si offrì di accompagnarci a bere l'aperitivo e poi a cena. Strummer ci disse che voleva andare a mangiare in un ristorante siciliano e noi lo portammo al Merluzzo Felice, vicino a Piazzale Corvetto. Aveva sempre con sé il suo ghettoblaster e le sue lattine di bevande energetiche: ne comprava a decine in un negozio africano vicino alla stazione centrale e ce ne offriva in continuazione. Erano imbevibili, piene di caffeina. Arrivati al Merluzzo Felice ricordo che aveva tirato fuori un taccuino su cui prendeva appunti riguardo le cose che dicevamo. Mi faceva domande sulla situazione politica in Italia, era molto interessato a tutto quello che succedeva. Gli raccontai che anni prima mio fratello che non aveva ancora la macchina, si fece 40 chilometri in bicicletta per riuscire ad andare a vedere "Rude Boy", il rockumentary sui Clash del 1980. Lui mi chiese di telefonare a mio fratello e di passarglielo per poterlo in qualche modo ringraziare. Nel ristorante c'era un chitarrista - tipo Apicella, per intenderci - che suonava canzoni siciliane. A un certo punto della serata, Strummer prese la sua chitarra e si mise a suonare London Calling. La cameriera, all'inizio dubbiosa, chiese chi era davvero quel tipo che suonava. Quando noi gli dicemmo che era Joe Strummer lei scoppiò a piangere per l'emozione. Il giorno dopo un mio collega mi disse che i Negrita stavano girando un nuovo video e volevano che chiedessi a Strummer di rimanere per un cameo. Lui, prima di decidere, telefonò alla moglie e ai figli (che chiamava e di cui parlava in continuazione) e alla fine disse che gli sarebbe piaciuto davvero ma che doveva tornare a Londra per stare con la famiglia."
E' un po' il Joe Strummer che veniva fuori anche nel film. Un uomo che aveva assaporato la fama, il successo, le copertine dei giornali, la New York di Andy Warhol, e che si era anche abituato (forse un po' mestamente, ma senza disperazione alcolica o atteggiamenti da star decaduta) alla vita del padre di famiglia, alle passeggiate attorno a casa sua (beh, una tenuta, ovviamente...), alle feste tardo-hippy che periodicamente organizzava con gli amici, all'aperto, attorno a grandi falò.
Parafrasando Allen Ginsberg, lasciatemi dire "...ah, caro Joe, corto di capello, vecchio sincero maestro di coraggio...".