Apartheid italiano
Una piccola lezione di storia alla luce dei fatti recenti di Rosarno.
L'apartheid in Sud Africa nacque fra la fine degli anni '40 e i primi anni '50 del secolo scorso; dopo la Seconda guerra mondiale, dunque, una guerra combattuta, in ultima analisi, contro un'ideologia razzista elevata all'ennesima potenza.
Ma le basi del sistema erano state poste agli inizi del '900, con una legge chiamata Land Act, varata nel 1913; in base a questa legge i "nativi" (cioé i neri, o Bantu) potevano esercitare diritti di proprietà su una percentuale del suolo sudafricano non superiore al 13% circa. Oviamente si trattava delle aree più povere del Paese, quelle prive di giacimenti minerari e più difficili da coltivare. L'origine dei Bantustan, le famigerate "patrie tribali" dell'apartheid, è questa.
Ora, a cosa servivano i Bantustan? A rinchiudere i neri? A tenerli lontani dalle miniere d'oro e diamanti del Witwatersrand? Dai latifondi dei Boeri? Dalle metropoli "bianche"? Solo in parte. In realtà i neri continuarono ad affluire a migliaia, a milioni, in quelle miniere, in quei latifondi, in città come Johannesburg. Ci arrivavano come lavoratori migranti. Lavoratori privi di ogni diritto legato alla cittadinanza (essendo essi, formalmente, cittadini dei Bantustan, delle loro patrie tribali, che nessuna nazione al mondo riconosceva come tali tranne ovviamente il Sud Africa e la vicina Rodhesia). Lavoratori assunti con contratti a termine - questo dalle imprese di maggiori dimensioni, in particolare dalle industrie minerarie - o semplicemente "in nero", come ancora oggi continuiamo a dire, e significherà pure qualcosa. Lavoratori che quindi, in virtù del loro particolare status, potevano essere espulsi inn qualsiasi momento. Lavoratori a basso costo, ammassati a decine in accampamenti di baracche malsane, ricattabili, resi docili dalla precarietà prima ancora che dalla violenza della coercizione. Lavoratori privi di famiglie al seguito (rimaste nei Bantustan), e dei costi sociali che esse generano, in termini di assistenza sanitaria, diritto allo studio e così via. Lavoratori che, una volta scaduto il loro contratto, venivano rimandati nei Bantustan; spesso a morire di silicosi o di una delle altre malattie contratte lavorando nelle viscere della terra per scavar fuori quella ricchezza che poi approdava in altra forma nei mercati europei, facendo la fortuna di realtà come la De Beers o la Anglo American Corporation. Chi sfuggiva alle maglie del sistema - spesso perchè il sistema stesso giudicava, in ultima analisi, che fosse meglio così -andava ad affollare le baraccopoli come Soweto, città-fantasma tollerate proprio in quanto serbatoi di forza lavoro a buon mercato, ma prive di qualsivoglia riconoscimento ufficiale e quindi smantellabili da un giorno all'altro, al minimo indizio di protesta o di rivolta.
Se qualcuno vede qualche analogia fra questa realtà e quella dei migranti clandestini di oggi, che affollano le campagne calabresi o le baraccopoli di tante città italiane, è ovviamente autorizzato a farlo. L'immigrazione clandestina non è una iattura che l'Italia si trova suo malgrado a dover sopportare; è un sistema funzionale ad un certo tipo di economia. Semisommersa, nella migliore delle ipotesi. Mafiosa, criminale, banditesca, nella peggiore. In questo sistema il clandestino è l'anello debole della catena. La sua "appetibilità", agli occhi del datore di lavoro, è data appunta dalla sua debolezza. Una debolezza che i proiettili dei boss o - in maniera meno cruenta ma non più pietosa - gli sgomberi forzati possono, se necessario, ribadire. Una debolezza accentuata dalla attuale legge sull'immigrazione, la Bossi-Fini del 2002, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno, della residenza e cittadinanza italiana solo alle persone che dimostrino di avere un lavoro o un reddito sufficienti per il loro mantenimento economico. L'uomo, questa entità complessa e per tanti versi misteriosa, questo impasto di vissuto, ereditarietà, emozioni, idee, passione, questa straordinaria "macchina desiderante", come veniva definita un tempo, ridotto alle sue funzioni economiche, a pura forza lavoro. In questo caso, forza lavoro "cheap".
Pubblicato oggi anche sul quotidiano "Il Trentino".
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