Lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor ha assunto ormai una notevole notorietà anche presso il publico italiano, dopo la pubblicazione del romanzo Necropolis, che racconta le sue vicende di deportato dei campi di concentramento nazisti, e dopo i suoi passaggi televisivi (compreso quello da Fabio Fazio). Recentemente è stato anche al festival di Mantova per un faccia a faccia con Joseph Zoderer, scrittore sudtirolese, sulla letteratura "di frontiera". Nel 1998, quando realizzai questa intervista a Trieste, assieme a Giuliana Dalla Fior (per l'annale "Comunicare", pubblicato dall'editore Il Mulino fino allo scorso anno), era ancora, in Italia, pressoché sconosciuto. Pubblico qui una sintesi di quel lungo colloquio, che ebbe come cornice il Caffè degli specchi di Piazza Italia.
UN PELLEGRINO NELLA CASA DELLE OMBRE
di Giuliana Dalla Fior e Marco Pontoni
L'espressione "società multiculturale", o "multirazziale", è oggi al centro di un ampio dibattito, non solo in Italia. Lei è cresciuto in una città, Trieste, solitamente identificata come parte di quella Mitteleuropa che, nel senso comune, ha rappresentato un esempio concreto di società multiculturale. Ma anche una città dalla quale il fascismo cercò di sradicare l'elemento sloveno, conformemente alla sua volontà di italianizzare le regioni di confine della penisola. Quanto è cambiata la Trieste della sua giovinezza rispetto a quella di oggi?
Bisognerebbe un po' ridimensionare la fama di Trieste città multiculturale e mitteleuropea. Le sue due anime, una italiana, maggioritaria da lunghissimo tempo, diciamo fin dall'epoca della colonizzazione romana, e l'altra - in senso lato - slava, in realtà sono sempre state ben distinte. C'è poi la Trieste ebraica, a cui il fascismo sferrò un colpo terribile, forse cogliendola di sorpresa, perché in un primo tempo la comunità ebraica di Trieste non aveva manifestato una particolare ostilità nei confronti del regime. Gli sloveni invece ebbero modo di farsi molto presto un'idea di che cosa avrebbe comportato l'avvento del fascismo; fin dal 1920, quando la Casa della cultura slovena di Trieste venne distrutta da un incendio provocato dai fascisti. All'epoca io avevo sette anni. Dopo il 1945 gli sloveni hanno ricostruito tutto da capo, e quindi anche un panorama culturale che, è bene sottolinearlo, non è mai stato provinciale. Ma ovviamente questo processo di ricostruzione è stato pesantemente influenzato dal nuovo assetto politico che la Jugoslavia era andata assumendo. Oggi a Trieste, fra poeti e narratori, ci saranno circa una trentina di autori sloveni. Io sono il più anziano ma non mi considerano il loro decano. Ognuno di noi in questi anni ha coltivato una sua personale visione politica, e dunque non esiste un "cenacolo".
Queste divisioni hanno influito sul suo senso di appartenenza? In altre parole, lei si sente più italiano, sloveno, o che altro?
Io mi considero totalmente sloveno e vivo in pieno la mia slovenità. Al tempo stesso, pur essendomi schierato contro il nazionalsocialismo e il fascismo, per molti anni, dopo la presa del potere da parte di Tito, non mi sono potuto recare in Slovenia, perché mi ero espresso anche contro il suo regime, una volta compreso che, a prescindere dalla nobiltà degli ideali – perché comunque io ritengo che a questo livello una differenza fra il socialismo e gli altri autoritarismi comunque esista - era pur sempre una dittatura.
Dunque che tipo di diffusione ebbero le sue opere nella Jugoslavia socialista?
All'inizio non facevano fatica a circolare, perché il loro tema principale era la "non-libertà", espressione che dopo il 1945 in Jugoslavia veniva ricondotta essenzialmente al nazifascismo. Vi sono poi altre due ragioni che forse spiegano la buona accoglienza riservata all'inizio ai miei libri. Innanzitutto in essi la "non-libertà" veniva raccontata in prima persona da un testimone oculare, non da un semplice studioso. Inoltre era una "non-libertà" subita sì, ma anche avversata, combattuta attivamente. La mia intera esistenza è stata segnata da quest'esperienza, che cominciò ben prima della deportazione nei campi di concentramento. Nei miei ricordi di bambino vedo mia madre che piange, mio padre che bestemmia... Essere colpevoli senza sapere di che cosa! E' il problema posto da Kafka, come difendersi pur ignorando i capi d'accusa. Tutto quello sviluppo psicologico ed esistenziale è presente nelle mie opere, solo che lì non c'è invenzione, perché in verità io non ho mai avvertito il bisogno di ricorrere all'invenzione. La materia è autobiografica, le vicende narrate sono reali.
Il successo letterario, ed il conseguente riconoscimento pubblico, sono giunti tardi, e comunque in Italia i suoi libri sono ancora pressoché ignorati, al di fuori dell'area friulana. Come si è sentito in tutti questi anni, a scrivere senza ottenere riscontri da parte del mercato editoriale?
Mi piace parlare soprattutto se posso dire le cose che di solito non vengono dette, ma non credo che questa sia la causa del disinteresse manifestato dagli editori italiani. Ciò che so è che per trent'anni ho mandato i manoscritti alle case editrici, ma non ho mai, o quasi mai, ricevuto risposta. Negli ultimi anni qualche promessa di interessamento...ma sinceramente, non ci conto più tanto. Invece all'estero le cose sono andate meglio. In Slovenia, innanzitutto dove ho avuto diversi riconoscimenti e dove sono inserito nella "Storia della letteratura slovena". Il successo e la fama dei miei romanzi sono comunque senza dubbio maggiori in Francia.
Spesso, per chi ha vissuto, direttamente o anche indirettamente, l'esperienza del lager, penso ad esempio a Primo Levi, o a Paul Celan, si pone il problema del "come dirlo". Quale linguaggio usare per esprimere quest'esperienza-limite. E' così anche per Necropoli?
Quando ho pensato alla scrittura di Necropoli, mi sono detto: "Devo scrivere un libro tutto mio, perché rispetto ad altri autori che hanno descritto l'esperienza del campo di concentramento io ho questo di particolare, che racconto la vicenda di un internato il quale, dopo la guerra, ritorna nel campo come "turista". Perché dopo la guerra sono tornato nel campo di Strutthof-Natzweiler sette volte, mescolato agli altri visitatori, e il libro è stato scritto dopo la seconda di queste visite. L'opera insomma doveva possedere un suo proprio carattere e non ho trovato altro modo per raggiungere le finalità che mi ero proposto che mettermi di fronte al romanzo alla maniera ad esempio di Becket, lasciando fluire la narrazione senza interromperla, senza apporre spazi, cesure, descrivendo insomma l'esperienza del ritorno al campo come un continuum. Perché il male è questo, è come una fiumana che non si arresta... Dunque la scelta estetica che salta immediatamente agli occhi è quella di non suddividere il romanzo in capitoli, così come, a mia insaputa, è stato fatto invece nell'edizione americana.
Secondo lei le generazioni future, anche leggendo i suoi libri, o quelli di altri che hanno vissuto l'esperienza del campo di sterminio, intenderanno la parola lager in maniera diversa rispetto ad una persona nata nell'immediato dopoguerra, i cui genitori, dopotutto, erano contemporanei delle vicende narrate?
Non so dare una risposta definitiva. In Necropoli ho scritto che in quei vestiti da prigionieri bisognerebbe andare a fare delle processioni nelle città europee. Queste sono idee che vengono dal cuore, naturalmente. Io credo però che la storia non sia maestra di vita. Non credo a questa frase paradigmatica. Non dico questo pensando solo a ciò che ho provato io, ma anche a ciò che è successo, ad esempio, in Bosnia. Penso che il mondo del futuro o si ravvede per un caso - ma non ad esempio per motivi religiosi - oppure l'unica via percorribile per opporsi al lager sia, come ho scritto in Primavera difficile, educare ad un rispetto del genere umano che parta dal rispetto per il corpo. Perché quando parliamo di sterminio parliamo sempre innanzitutto di annientamento dei corpi. Se qualcuno è ritenuto colpevole - streghe, eretici, perseguitati politici - è sempre il suo corpo ad essere colpito. Lo spirito resiste, ma il corpo non ha difese, soccombe.
In Primavera difficile racconta di un uomo che si riaffaccia alla vita nonostante l'orrore della guerra e del campo di sterminio, e lo fa grazie all'amore. In La villa sul lago viene descritta una sorta di "pedagogia dei sentimenti". Nei suoi libri, insomma, l'amore non è mai morboso, o foriero di sventure, ma una sorta di ancora di salvezza. E' così?
In Primavera difficile ho raccontato il lento ritorno a casa di un reduce dei campi di concentramento, le sue esperienze in un ospedale, e sì, l'amore che torna a giocare un ruolo fondamentale nella sua vita. In La villa sul lago, ambientato sul Garda, c'è questa sorta di "pedagogia sentimentale", come l'avete ben definita, nei confronti di una ragazza che si dichiara fascista semplicemente perché è stata educata così dai suoi genitori, non per una convinzione reale, profonda. Il che è probabilmente quanto accade alla "maggioranza silenziosa" sotto le dittature, che non approfondisce, non si documenta, crede a ciò che gli viene detto dagli altri, o dalla propaganda, alla versione ufficiale della verità. Certo, credo che l'amore possa servire anche in questo senso. Perlomeno, è stata la mia esperienza.
Quale opinione si è fatta del cosiddetto revisionismo, di questo tentativo di riscrivere la storia che sembra essere in atto da alcuni anni?
Per la maggior parte degli studiosi che si riconoscono in questo tentativo la definizione "revisionisti" mi sembra troppo debole. Queste sono, diciamo così, persone che vogliono negare la verità. Il vero revisionismo lo si dovrebbe avere solo in presenza di un nuovo apparato documentario, dopo nuove fondamentali scoperte. Ma non mi sembra essere questo il caso della maggior parte dei revisionisti, almeno per quanto concerne la verità storica del lager. No, non credo proprio esistano elementi in base ai quali ridimensionare il peso che il lager ha avuto nella storia del XX secolo.