Balkan Trip



Prima stazione: Peja/Pec, Kossovo


Una città con due nomi, come la mia Bolzano/Bozen. Ma qui è andata peggio. Al posto delle bombe sotto ai tralicci la guerra etnica e le bombe Nato (bombe che peraltro sono in pochi a rimpiangere, avendo aperto la strada all'indipendenza). Dire che sia bella come la dipinge la mia guida del Touring, datata anni '80, sarebbe esagerato. Ma è una città viva. La prima sera andiamo a fare un giro dalle parti del municipio. Giovani ovunque, donne con vestiti da sera luccicanti, minigonne, pantaloncini, tutta la mercanzia esposta, non lo si direbbe un paese a maggioranza musulmana, qui a Bin Laden prenderebbe un colpo, i talebani si trancerebbero i testicoli, altroché. Sono i Balcani, ragazzi! E i nostri luoghi comuni sull'Islam si rivelano tali.
Musiche dai bar, una buona cover dei Pink Floyd. Fuoristrada, comprati con che soldi? Pare che l'economia criminale sia fiorente: armi, droga, ogni sorta di traffico su queste montagne a due passi dall'Adriatico. Ma le strade di Peja sono sicure. Nessun militare in giro, i nostri se ne stanno in cima alla collina. Al mattino i tavolini fuori sono già pieni di uomini che fumano e bevono caffé. Alla tv le immagini di un'altra guerra. Quella che c'era in Kossovo sembra andata per sempre. Ma è facile sbagliarsi, in casa degli altri. E' facile dare colpe, tranciare giudizi: è stata colpa dell'Europa, degli americani, dei russi, delle religioni... Non voglio più farlo. Sputare sentenze, lo lascio fare ai beppegrilli.


Seconda stazione: Gorazdevac, Kossovo
L'unico posto di blocco dei Caschi blu lo troviamo pochi chilometri fuori Peja, dove inizia l'enclave serba di Gorazdevac. Le luci della città sono a due passi, ma qui è buio pesto, campagna profonda, rane e rospi. Poi una piazza sterrata, intitolata all'Italia, cinta di case coloniche fatiscenti. Gorazdevac è un ibrido: economicamente dipende dalla Serbia, dai sussidi della Serbia, più che altro (e non sono gran cosa). Gli insegnanti arrivano da Belgrado. C'è anche una rappresentanza del comune di Peja, lì accanto. Ma se c'è da mettere a posto una strada chi lo fa, la Serbia o l'amministrazione locale? Non si sa. Tutti e nessuno. In giro solo vecchie, sono loro ad avere preparato la cena: i giovani, se possono, se ne vanno. Ma dove? In città hanno paura ad andare, ci sono i kossovari. I quali probabilmente se ne fregano, pensano ad altro, all'Europa, ad annusare l'aria di libertà. Con l'aiuto dei volontari, specie quelli di Operazione Colomba, qualcuno da Gorazdevac comincia ad uscire. Va in città, entra nei negozi, saluta in serbo, non gli sparano. Va al centro giovanile Zoom, rifatto nuovo di zecca, dove giovani albanesi, serbi e rom provano a inventarsi una vita nuova, assieme. Con il teatro, la fotografia, la scrittura, esprimersi aiuta sempre. E' esprimersi, è tirarsi fuori, è raccontarsi il segreto così gelosamente conservato.
Nei monasteri sparsi fra queste montagne c'è ancora chi attizza la fiamma del conflitto etnico. Si ritiene come sempre che ci vorrà tempo.


Terza stazione: Kraljevo, Serbia
Su e giù per montagne coperte di boschi, fattorie, acqua che scroscia. Nei Balcani tutto è di più. L'acqua dei fiumi più limpida, il verde dei campi più verde.
Chiese ortodosse, monasteri. Le chiese ortodosse sono piccole perché quella ortodossa è una religione che si celebra nelle case, in famiglia. La festa più importante è quella del santo familiare. Può durare anche tre giorni.

Qualcuno tenta di avviare attività agrituristiche. Per ora gli unici che abbiano scoperto questi luoghi sembrano essere i cooperanti, o quelli che hanno preso in moglie/marito un/una a serbo/a.
A Kraljevo delle ragazze hanno aperto un centro per combattere la violenza sulle donne, i cascami della cultura machista. Ci mostrano un video, molto efficace. Anche qui, come in altri posti che ho visto, sono loro le più organizzate. Sono solidali, si uniscono, si aiutano, hanno imparato in tempo di guerra, hanno imparato dalla follia e dalla tragedia dei loro mariti, sono i pilastri veri della società.


Quarta stazione: Bratunac, Srebrenica, Bosnia Erzegovina.
Nei Balcani tutto è di più. Femmine più femmine, maschi più maschi. Anche le passioni sono così, e gli odi, i Balcani mi smuovono qualcosa e sento sempre le lacrime spingere dietro al velo dell'occhio. Arriviamo a Bratunac di notte. E' appena oltre il confine serbo, dove una poliziotta molto bella aveva fatto storie sul mio passaporto. Una via pedonale, due bar che sparano decibel nel buio, pieni all'inverosimile di gente presumibilmente bevuta. Manifesti di un gruppo rock, facce fasciste, teste rapate. Ci vuole un po' a capire che siamo a cinque chilometri da Srebrenica, il buco nero dell'Europa, che ha costretto a rispolverare la parola "genocidio". Da qui, da Bratunac, Mladic, il comandante delle truppe serbo-bosniache, ha dato disposizioni per il massacro.
Nel mattino dorato il paese sembra meno sinistro, la Drina scorre alla nostra destra, hanno sistemato una spiaggia per fare il bagno. Piantagioni di lamponi. Covoni di fieno. Un idillio agreste. Visitiamo una cooperativa, il nome è "Insieme": anche qui sono le donne le protagoniste, serbe e musulmane. Poi andiamo a Srebrenica. Srebrenica non è un posto come gli altri. La luce, il verde, rendono se possibile il tutto ancora più nero. Un cul de sac, qui le colline quasi si toccano, la cittadina scorre nel mezzo, case in stile balcanico e palazzi grigi di realismo socialista. Di fronte alla rotonda, un nuovo centro commerciale, linee postmoderne. E' come se nessuno avesse osato porre mano, cancellare i segni di ciò che è stato. Le pareti portano ancora impresse le tracce dei proiettili, delle granate. Tombe ovunque, quelle lunghe, bianche, dei musulmani. Dietro al distributore, si inerpicano su per il bosco. Ma è appena prima della città, a Potocari, che lo vedi: il memoriale della strage, consumatasi l'11-12 luglio 1995 (e nei giorni immediatamente successivi). 8.372 le vittime richiamate nel cippo all'ingresso, quasi sicuramente 10.000. L'Onu lasciò fare. I Caschi blu olandesi collaborarono con le milizie a separare gli uomini dalle donne, come da istruzioni di Mladic. Di fronte al memoriale-sacrario una grande fabbrica, con i suoi capannoni che luccicano al sole. La maggior parte è stata uccisa lì.
Ricordo di aver letto la testimonianza di una donna stuprata da un gruppo. Raccontò che uno di loro, mentre lo faceva, piangeva, e diceva: "Oh, com'è possibile che ci abbiate fatto questo, voi musulmani?" Il vittimismo dei popoli può essere un'arma mortale. E' per questo che non sopporto la Lega.


Quinta stazione: Prijedor, Bosnia Erzegovina.
Eppure la vita è più forte. Sembra una banalità, ma è così. E' sera a Prijedor, e i giovani si dedicano con passione all'arte dello "struscio", passatempo sovrano. Lo fanno nella nuova pedonale cittadina. Lo fanno mettendosi addosso il meglio che hanno. Occhi, mani, polpacci, ascelle, spalle, seni. Le gelaterie fanno affari, la vita è più forte, è sempre più forte. Saliamo sulla collina. L'avevo visitata nel 2002, era tutto un ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto. Ora è finito. Le case dei musulmani sono in gran parte in piedi. A stare peggio, ci dicono, adesso sono i serbi, profughi anch'essi, da altre zone della ex-Jugoslavia.

Ci portano alla miniera. Tutt'intorno, era sorta una cittadina vera e propria. Tracce di una cultura operaia oggi scomparsa. "Fin che abbiamo potuto, ce la siamo goduta - ci dice il nostro accompagnatore - Stavamo al centro, a metà fra il mondo socialista e quello capitalista. Abbiamo preso di quà e di là." Si ferma, poi aggiunge, sottovoce: "E' stato troppo bello. Forse dovevamo pagare un prezzo".
Saliamo in cima a una collina; solo una casa era sopravvissuta alla distruzione, un centro civico, all'epoca di Tito. Oggi è un asilo, tenuto assieme da una donna coraggiosa e instancabile. Ci raccontano: dopo l'inizio delle ostilità l'armata diede a quelli asserragliati quassù un ultimatum: consegnare le armi entro le 12. A differenza che a Srebrenica, non lo fecero. Il risultato comunque è stato il medesimo. "Almeno 1.500 persone vennero spazzate via quel giorno".
Ci portano in cima al monte Kozara, un parco naturale. Attraversiamo un villaggio vicino Omarska, che nel 1993 divenne famosa per la scoperta del primo campo di concentramento in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Hanno appena costruito una piscina. La gente va a fare il bagno, è una giornata piena di calore e di pollini. Saliamo e saliamo, curve, tornanti. Fra i sempreverdi, il cemento armato di un sacrario. Non piace a nessuno, tranne che a me. Ricorda le vittime di un'altra guerra, quella combattuta dai partigiani contro i nazifascisti. Non piace a nessuno, ma io credo che, così come si parla di archeologia industriale, si dovrebbe parlare anche di archeologia monumentale. Frutto di una concezione passata, s'impone con le dimensioni, con il suo peso che preme e schiaccia. In quest'epoca di light show, video, installazioni del cazzo, in quest'epoca di arti effimere come il fumo di un fiammifero, come potrebbe piacere? E' lontano come Marte dal gusto odierno. Penso che se vivessi qui verrei qui a leggere e a fare Tai Chi. Ad ascoltare le voci dei fantasmi. E le risa, i fantasmi sanno anche ridere. Di noi.