U2, October e la lezione di P.



Nel 1981 gli U2 erano quattro giovani irlandesi approdati al loro secondo album, intitolato 'October'. Non ancora delle star planetarie del rock. Per Bono il Palazzo di Vetro, il papa e i capi di stato erano lontani; il fallimento, invece, sempre possibile, come per tanti altri gruppi della stagione post-punk. 'October' era un album di rock appassionato, quasi mistico, pieno di rimandi alla Bibbia. E a volte stranamente etereo. Le voci, gli armonici di the Edge, i colpi secchi della batteria risuonavano in una vasta cavità ipogea. Tanto spazio fra uno strumento e l'altro. Echi e vento.

Era ottobre e avevamo deciso di andare a trovare P.
P. era diventato da poco il parroco del paese di B., la sua chiesa stava acquattata nel cuore del centro storico, in fondo al corso principale. Dietro il campanile, le montagne. Di là dalle montagne, l’estero.

P. era stato mandato lassù, a una manciatab di chilometri dal confine, dopo un paio d'anni trascorsi nella nostra città, dove avevamo frequentato la sua parrocchia. Originario di Roma, aveva portato la sua voglia di fare, il suo anticonformismo. Gli avevamo voluto bene.
Venne ad aprirci lui in persona. Aveva sempre i capelli lunghi, quell’aria eccitata, vagamente ansiosa. Ci fece accomodare in un soggiorno triste come un ospizio. Ci accorgemmo subito che non voleva parlare del passato.
A B. aveva cercato di riproporre gli stessi schemi utilizzati con successo con noi. Una volta aveva prestato una sala dell’oratorio agli Hare Krishna. Aveva avviato un cineforum, in cui dava spazio persino a Fassbinder. Cose così, cose che in città venivano accettate, ma che in paese avevano sollevato un vespaio di critiche. Noi l'incalzavamo. Volevamo il P. di sempre, quello che per un po' ci aveva fatto da guida. Lui di rimando chiedeva che musica stessimo ascoltando. 'Vi piacciono i Duran Duran?'
Ad un certo punto s'è spazientito. 'Il P. che conoscevate non esiste più. E se per caso lo incontraste, fatemi un favore: uccidetelo.”
Lo disse col sorriso sulle labbra ma fu una botta lo stesso.

Pensavamo di pranzare assieme. Ma aveva da fare. Gente da vedere, una vecchia sul letto di morte, non so...
Ci diede appuntamento più tardi, alla fiera del bestiame. Intanto, potevamo girare il paese, o arrampicarci sul colle dietro la chiesa, dove le gote si imporporano.

Arrivammo al crepuscolo, un po' intorpiditi dalle canne. Si era alzato il vento, la luce risaliva verso le cime dei monti, accarezzando i boschi, i masi al centro dei pascoli.
C'era la folla delle grandi occasioni. Contadini da tutte le valli e qualche politico locale, a cui gli uomini rendevano omaggio togliendosi il cappello. Bambini che suonavano trombette di plastica. Wurstel e zucchero filato, stivali di gomma e brache di cuoio. Le vacche muggivano dietro ai recinti.
Sentimmo la sua voce alle nostre spalle. Ci voltammo. Non c’era nessuno.
Poi di nuovo. Chiamava i nostri nomi, a turno. O faceva semplicemente “pss…”. La voce era la sua. Ma il resto?
Girammo a vuoto per una decina di minuti, inseguendo un fantasma.
Ogni tanto si faceva vedere. Agitava una mano, poi spariva con un salto dietro uno stand, un recinto, un capannello di persone con il boccale in mano. Aveva la stessa giacca di lana del mattino. Gli stessi capelli arruffati. Ad un certo punto riuscii persino ad incrociare il suo sguardo. Sembrava serio, sembrava il contrario del suo comportamento.

P. appare e scompare. C'è e non c'è. Profilo incerto, luce riflessa, ombra che corre via.
Ben presto, ormai, solo uno dei tanti rumori di fondo. Incomprensibile, anche se sta sillabando il mio nome.

Lasciammo il terreno di gioco, avviandoci verso il parcheggio. Stavamo lasciando P. o era lui a liberarsi una volta per sempre di noi? Pensavo che la sua lezione l'avevo ben capita. Anche Bowie aveva chiuso così con Ziggy Stardust, il suo alter-ego di maggior successo.
"Non tornerò mai, dov'ero già. Non tornerò mai a prima, mai..."

Pochi mesi dopo ho saputo che si era spretato. Aveva conosciuto una donna, presto lasciò anche B.
Mi ricordo il viaggio di ritorno, ascoltando l’ottobre degli U2, accordi di pianoforte nel buio del sedile posteriore, schiacciato fra i miei amici, corpi e fiati caldi a compensare la perdita, pareti di roccia e bosco da ambo le parti, solitudini e radio accese nelle case. Going on, and on...

October
And the trees are stripped bare
Of all they wear
What do I care
October
And kingdoms rise
And kingdoms fall
But you go on.
And on.

Ottobre e gli alberi sono stati denudati
di tutte le loro vesti.
Cosa mi importa?
Ottobre
ed i regni sorgono
ed i regni cadono.
Ma tu vai avanti.

E avanti.

Non siamo Singapore

Sempre a proposito di legalità, illegalità, democrazia, nuovo autoritarismo ecc. (di cui scrivevo diffusamente sul post precedente)

certo fa un certo effetto, in un paese in cui si leggono notizie come questa:

"Scuole, parcheggi, strade, case e opere pubbliche costruite con materiale di scarto industriale, rifiuti tossici e sostanze cancerogene. E' quanto emerge dall'operazione della polizia denominata 'Black Mountains' che questa mattina ha portato al sequestro di ben 18 aree disseminate lungo tutto il territorio crotonese fino a Cutro e Isola Capo Rizzuto, aree ad alta densità mafiosa nell'entroterra (...)" ("La Repubblica")

leggere anche che

"(...) il rischio è divenire una versione ingrandita di Singapore, supertecnologici e ipersicuri laddove tutto è prescritto e controllato e sanzionato" (Filippo Facci, "Il Riformista").

No, mi pare che l'Italia non corre il rischio di diventare come Singapore.

Fine della democrazia?

Sui giornali di oggi si confrontano opinioni diametralmente opposte. "La Repubblica" pubblica ad esempio un articolo del direttore di "Famiglia cristiana", don Antonio Sciortino, nel quale si legge che "in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa. Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto. E i politici (...) ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco". Poco più avanti don Sciortino cita la tesi della rivista francese "Esprit", per la quale ci staremmo avviando verso la fine del ciclo democratico. "La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico. Ha prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell'elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente." Corollario di questa posizione è che nei desideri della gente - i desideri non mediati, i desideri "di pancia" - si esprima il populismo di fondo che alberga da sempre negli italiani (ricordo la prima lezione che imparai alla facoltà di Scienze politiche quando vi approdai da giovane matricola "di sicura fede democratica e antifascista", convinta che fosse diritto dei cittadini esprimersi sempre e comunque su tutto: "Se facessimo un referendum sulla pena di morte oggi in Italia, i sì vincerebbero senz'altro", sentenziò il mio professore di diritto costituzionale. E aveva ragione).

Di tenore diverso un articolo di Filippo Facci sul "Riformista". Riprendendo un intervento di Michele Ainis, Facci sostiene innanzitutto che è finito un ciclo. "Fra gli anni '60 e gli anni '80 l'Italia è stata il paese più libero e felice del mondo: ma era una cambiale in scadenza (...). Ciò che è finito, più che liberalismi e libertarismi estinti in ogni dove, è quel suk latino dove ogni accomodamento e mediazione italiana poteva infine trovare spazio." Per Facci, dunque, l'attuale ondata populista in fondo è soltanto l'applicazione di norme già esistenti e, se mai, fino a oggi disattese: contro i clandestini, contro i "fannulloni", contro chi devasta il patrimonio pubblico, contro chi guida ubriaco ecc. Facci riconosce che alcune misure, come il decreto sulle lucciole, sono "buffonate", e non risolvono minimamente il problema. Ma ritiene, se non ho capito male, che un "giro di vite" fosse necessario e che la minaccia più grave alla libertà sia oggi rappresentata non dall'autoritarismo quanto proprio da un eccesso di libertarismo, di richieste riguardanti la libertà e l'autonomia di individui, piccoli gruppi, "minoranze". Richieste che disgregano la società e alle quali la società risponde rinunciando a un po' di libertà in cambio di maggiore sicurezza (Freud).

A me pare che entrambe le tesi siano a loro modo suggestive. Certamente il governo Berlusconi sta interpretando una domanda di semplificazione che gli giunge da un corpo sociale a cui il pensiero complesso è sempre più estraneo. Se i problemi (poniamo, quello dell'immigrazione) sono difficili da affrontare, pieni di sfaccettature, di risvolti umani (e disumani, come le morti degli immigrati nel canale di Sicilia o il trattamento loro riservato dalle autorità libiche), la risposta al contrario dev'essere semplice, brutale, risolutiva. Don Sciortino pone inoltre il problema della democrazia dal basso, della democrazia come l'articolarsi del dibattito politico e dell'agire politico nelle comunità: è un problema che si avverte anche in territori dove la partecipazione - mediata dai corpi intermedi, come le associazioni, le cooperative, le parrocchie ecc. - è sempre stata molto forte, come ad esempio in Trentino. La convinzione di fondo è che il libero confronto, anche quando è aspro, acceso, porti a un bene superiore per tutti. Che le posizioni estremiste e più pericolose, come il razzismo, si stemperino nel percorso partecipativo, nel dialogo. Questa fede nella "dialettica" forse è molto cristiana ma per me è molto socratica (e molto nobile).

Del resto, non ha tutti i torti anche Facci quando lascia intendere che certe misure non sono né di destra né di sinistra: tutti i cittadini vogliono, almeno a parole, una giustizia efficiente e che punisca i colpevoli (specie quelli che sono protagonisti del fatti di cronaca nera), un'amministrazione pubblica più efficiente (fisco a parte) e così via. E aggiungiamo: a volte purtroppo la dialettica in Italia non porta a un bel nulla se non a un eccesso di retorica. Il nostro è (anche) il paese dell'Azzeccagarbugli.

Due osservazioni, però: la prima è che si fa fatica a prendere sul serio la voglia di rigore di un popolo che da sempre pratica disinvoltamente l'evasione fiscale, l'arte della raccomandazione, la violazione sistematica delle regole del codice della strada, l'abusivismo edilizio ecc. Un popolo insomma che con la corruttella va a braccetto, anche se poi finge di scandalizzarsi.
La seconda è che mi sembra fin troppo facile scaricare le contraddizioni del presente su chi rivendica il rispetto dei diritti individuali (o di alcune minoranze). Ci sono a tutt'oggi questioni importanti riguardanti la parità fra uomini e donne, la tutela della paternità e della maternità, la famiglia (in tutte le sue varianti), la scuola, la sessualità, l'eutanasia, la libertà della ricerca scientifica ecc. che rimangono irrisolte, vuoi per mancanza di volontà politica (a destra come a sinistra), vuoi perché, come dice anche Enrico Rusconi, "l'Italia è il meno laico dei paesi europei". Insomma, non vorrei che si dipingesse ad arte un'Italia "relativista" e "laicista" quando invece essa è tutt'altro: e cioè, ancora, per molti versi, il paese perbenista degli anni '6o e seguenti, dove politici divorziati, risposati o con codazzo di amanti e "amiche" (o "amici") sfilano al Family day e ricevono le benedizioni papali, dove i medici si dichiarano antiabortisti in pubblico e praticano gli aborti in privato (nelle loro cliniche private), dove la droga è vietata dappertutto tranne che nei salotti buoni e così via. Anche questo è il suk latino.

Intervista a Boris Pahor



Lo scrittore italo-sloveno Boris Pahor ha assunto ormai una notevole notorietà anche presso il publico italiano, dopo la pubblicazione del romanzo Necropolis, che racconta le sue vicende di deportato dei campi di concentramento nazisti, e dopo i suoi passaggi televisivi (compreso quello da Fabio Fazio). Recentemente è stato anche al festival di Mantova per un faccia a faccia con Joseph Zoderer, scrittore sudtirolese, sulla letteratura "di frontiera". Nel 1998, quando realizzai questa intervista a Trieste, assieme a Giuliana Dalla Fior (per l'annale "Comunicare", pubblicato dall'editore Il Mulino fino allo scorso anno), era ancora, in Italia, pressoché sconosciuto. Pubblico qui una sintesi di quel lungo colloquio, che ebbe come cornice il Caffè degli specchi di Piazza Italia.


UN PELLEGRINO NELLA CASA DELLE OMBRE

di Giuliana Dalla Fior e Marco Pontoni

L'espressione "società multiculturale", o "multirazziale", è oggi al centro di un ampio dibattito, non solo in Italia. Lei è cresciuto in una città, Trieste, solitamente identificata come parte di quella Mitteleuropa che, nel senso comune, ha rappresentato un esempio concreto di società multiculturale. Ma anche una città dalla quale il fascismo cercò di sradicare l'elemento sloveno, conformemente alla sua volontà di italianizzare le regioni di confine della penisola. Quanto è cambiata la Trieste della sua giovinezza rispetto a quella di oggi?

Bisognerebbe un po' ridimensionare la fama di Trieste città multiculturale e mitteleuropea. Le sue due anime, una italiana, maggioritaria da lunghissimo tempo, diciamo fin dall'epoca della colonizzazione romana, e l'altra - in senso lato - slava, in realtà sono sempre state ben distinte. C'è poi la Trieste ebraica, a cui il fascismo sferrò un colpo terribile, forse cogliendola di sorpresa, perché in un primo tempo la comunità ebraica di Trieste non aveva manifestato una particolare ostilità nei confronti del regime. Gli sloveni invece ebbero modo di farsi molto presto un'idea di che cosa avrebbe comportato l'avvento del fascismo; fin dal 1920, quando la Casa della cultura slovena di Trieste venne distrutta da un incendio provocato dai fascisti. All'epoca io avevo sette anni. Dopo il 1945 gli sloveni hanno ricostruito tutto da capo, e quindi anche un panorama culturale che, è bene sottolinearlo, non è mai stato provinciale. Ma ovviamente questo processo di ricostruzione è stato pesantemente influenzato dal nuovo assetto politico che la Jugoslavia era andata assumendo. Oggi a Trieste, fra poeti e narratori, ci saranno circa una trentina di autori sloveni. Io sono il più anziano ma non mi considerano il loro decano. Ognuno di noi in questi anni ha coltivato una sua personale visione politica, e dunque non esiste un "cenacolo".

Queste divisioni hanno influito sul suo senso di appartenenza? In altre parole, lei si sente più italiano, sloveno, o che altro?

Io mi considero totalmente sloveno e vivo in pieno la mia slovenità. Al tempo stesso, pur essendomi schierato contro il nazionalsocialismo e il fascismo, per molti anni, dopo la presa del potere da parte di Tito, non mi sono potuto recare in Slovenia, perché mi ero espresso anche contro il suo regime, una volta compreso che, a prescindere dalla nobiltà degli ideali – perché comunque io ritengo che a questo livello una differenza fra il socialismo e gli altri autoritarismi comunque esista - era pur sempre una dittatura.

Dunque che tipo di diffusione ebbero le sue opere nella Jugoslavia socialista?

All'inizio non facevano fatica a circolare, perché il loro tema principale era la "non-libertà", espressione che dopo il 1945 in Jugoslavia veniva ricondotta essenzialmente al nazifascismo. Vi sono poi altre due ragioni che forse spiegano la buona accoglienza riservata all'inizio ai miei libri. Innanzitutto in essi la "non-libertà" veniva raccontata in prima persona da un testimone oculare, non da un semplice studioso. Inoltre era una "non-libertà" subita sì, ma anche avversata, combattuta attivamente. La mia intera esistenza è stata segnata da quest'esperienza, che cominciò ben prima della deportazione nei campi di concentramento. Nei miei ricordi di bambino vedo mia madre che piange, mio padre che bestemmia... Essere colpevoli senza sapere di che cosa! E' il problema posto da Kafka, come difendersi pur ignorando i capi d'accusa. Tutto quello sviluppo psicologico ed esistenziale è presente nelle mie opere, solo che lì non c'è invenzione, perché in verità io non ho mai avvertito il bisogno di ricorrere all'invenzione. La materia è autobiografica, le vicende narrate sono reali.

Il successo letterario, ed il conseguente riconoscimento pubblico, sono giunti tardi, e comunque in Italia i suoi libri sono ancora pressoché ignorati, al di fuori dell'area friulana. Come si è sentito in tutti questi anni, a scrivere senza ottenere riscontri da parte del mercato editoriale?

Mi piace parlare soprattutto se posso dire le cose che di solito non vengono dette, ma non credo che questa sia la causa del disinteresse manifestato dagli editori italiani. Ciò che so è che per trent'anni ho mandato i manoscritti alle case editrici, ma non ho mai, o quasi mai, ricevuto risposta. Negli ultimi anni qualche promessa di interessamento...ma sinceramente, non ci conto più tanto. Invece all'estero le cose sono andate meglio. In Slovenia, innanzitutto dove ho avuto diversi riconoscimenti e dove sono inserito nella "Storia della letteratura slovena". Il successo e la fama dei miei romanzi sono comunque senza dubbio maggiori in Francia.

Spesso, per chi ha vissuto, direttamente o anche indirettamente, l'esperienza del lager, penso ad esempio a Primo Levi, o a Paul Celan, si pone il problema del "come dirlo". Quale linguaggio usare per esprimere quest'esperienza-limite. E' così anche per Necropoli?

Quando ho pensato alla scrittura di Necropoli, mi sono detto: "Devo scrivere un libro tutto mio, perché rispetto ad altri autori che hanno descritto l'esperienza del campo di concentramento io ho questo di particolare, che racconto la vicenda di un internato il quale, dopo la guerra, ritorna nel campo come "turista". Perché dopo la guerra sono tornato nel campo di Strutthof-Natzweiler sette volte, mescolato agli altri visitatori, e il libro è stato scritto dopo la seconda di queste visite. L'opera insomma doveva possedere un suo proprio carattere e non ho trovato altro modo per raggiungere le finalità che mi ero proposto che mettermi di fronte al romanzo alla maniera ad esempio di Becket, lasciando fluire la narrazione senza interromperla, senza apporre spazi, cesure, descrivendo insomma l'esperienza del ritorno al campo come un continuum. Perché il male è questo, è come una fiumana che non si arresta... Dunque la scelta estetica che salta immediatamente agli occhi è quella di non suddividere il romanzo in capitoli, così come, a mia insaputa, è stato fatto invece nell'edizione americana.

Secondo lei le generazioni future, anche leggendo i suoi libri, o quelli di altri che hanno vissuto l'esperienza del campo di sterminio, intenderanno la parola lager in maniera diversa rispetto ad una persona nata nell'immediato dopoguerra, i cui genitori, dopotutto, erano contemporanei delle vicende narrate?

Non so dare una risposta definitiva. In Necropoli ho scritto che in quei vestiti da prigionieri bisognerebbe andare a fare delle processioni nelle città europee. Queste sono idee che vengono dal cuore, naturalmente. Io credo però che la storia non sia maestra di vita. Non credo a questa frase paradigmatica. Non dico questo pensando solo a ciò che ho provato io, ma anche a ciò che è successo, ad esempio, in Bosnia. Penso che il mondo del futuro o si ravvede per un caso - ma non ad esempio per motivi religiosi - oppure l'unica via percorribile per opporsi al lager sia, come ho scritto in Primavera difficile, educare ad un rispetto del genere umano che parta dal rispetto per il corpo. Perché quando parliamo di sterminio parliamo sempre innanzitutto di annientamento dei corpi. Se qualcuno è ritenuto colpevole - streghe, eretici, perseguitati politici - è sempre il suo corpo ad essere colpito. Lo spirito resiste, ma il corpo non ha difese, soccombe.

In Primavera difficile racconta di un uomo che si riaffaccia alla vita nonostante l'orrore della guerra e del campo di sterminio, e lo fa grazie all'amore. In La villa sul lago viene descritta una sorta di "pedagogia dei sentimenti". Nei suoi libri, insomma, l'amore non è mai morboso, o foriero di sventure, ma una sorta di ancora di salvezza. E' così?

In Primavera difficile ho raccontato il lento ritorno a casa di un reduce dei campi di concentramento, le sue esperienze in un ospedale, e sì, l'amore che torna a giocare un ruolo fondamentale nella sua vita. In La villa sul lago, ambientato sul Garda, c'è questa sorta di "pedagogia sentimentale", come l'avete ben definita, nei confronti di una ragazza che si dichiara fascista semplicemente perché è stata educata così dai suoi genitori, non per una convinzione reale, profonda. Il che è probabilmente quanto accade alla "maggioranza silenziosa" sotto le dittature, che non approfondisce, non si documenta, crede a ciò che gli viene detto dagli altri, o dalla propaganda, alla versione ufficiale della verità. Certo, credo che l'amore possa servire anche in questo senso. Perlomeno, è stata la mia esperienza.

Quale opinione si è fatta del cosiddetto revisionismo, di questo tentativo di riscrivere la storia che sembra essere in atto da alcuni anni?

Per la maggior parte degli studiosi che si riconoscono in questo tentativo la definizione "revisionisti" mi sembra troppo debole. Queste sono, diciamo così, persone che vogliono negare la verità. Il vero revisionismo lo si dovrebbe avere solo in presenza di un nuovo apparato documentario, dopo nuove fondamentali scoperte. Ma non mi sembra essere questo il caso della maggior parte dei revisionisti, almeno per quanto concerne la verità storica del lager. No, non credo proprio esistano elementi in base ai quali ridimensionare il peso che il lager ha avuto nella storia del XX secolo.

Keith Richards? basta, grazie

Su "La Repubblica" di oggi l'ennesimo colloquio con Keith Richards: "La mia vita da pirata del rock". Qualcuno dovrà pur dire, prima o poi, che oggi i Rolling Stones sono i Fabio Volo del rock, il gruppo-medio per l'uomo-medio. Che l'ultimo disco buono che han fatto è "Emotional rescue", ed erano i primi anni '80. Certo, ovviamente hanno tutto il diritto di emulare i vecchi bluesmen che sono andati avanti a suonare fino a 90 anni (quelli che sono sopravvissuti). Ma i vecchi bluesmen non vanno sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, a meno che non stuprino le loro madri. Che ha da dirci ancora Keith Richards? Quali spacconate può tirare fuori uno così, che non abbia già abbondantemente utilizzato in passato? Possibile che il rock - roba per noi 40-50enni, dopotutto, giacché i minorenni oggi non ascoltano musica, la scaricano soltanto - sia così prevedibile, e così infantile? Che non parli di come ci si può sentire in una domenica del genere, alla mia età, sospesi fra il fare e non fare, le stragi insensate dei casalesi e i compiti dei figli, il razzismo che bussa alla porta e i surgelati avariati, le morose in chat e i furbetti dei mille quartierini? Ma forse il pubblico del rock questo, vuole, oggi: vuole distrazione, evasione, vuole essere anestetizzato. "Operereste qualcuno senza anestetico?", chede il personaggio di un racconto di Hemingway. "Non sono tutti buoni gli oppi del popolo?". Ecco, il rock imbottito di Viagra degli Stones come oppio dei popoli. Non ci avevo mai pensato.

La rana era un uomo


Domani toglieranno la rana di Kippenberg dal Museion di Bolzano. Tornerà a casa, dal collezionista privato che l'aveva momentaneamente prestata al museo. Il suo valore nel frattempo si è moltiplicato.


L'arte contemporanea a volte è irritante, altre volte irrilevante. Serve a aggregare la gente, a vendere birra e musica, a rimorchiare. Spesso gli artisti cercano la provocazione, perché si parli di loro. La provocazione ci può stare, ovviamente, ma poi devo trovare anche dell'altro. Nella Factory di Andy Warhol c'erano i Velvet Underground, e loro da soli sarebbero bastati a giustificare la Factory.

Ma la rana non ha niente a che vedere con questo. Quando la guardo io non penso a un cristo-rana, non penso a uno sberleffo alla religione. Penso a quello che l'artista voleva raffigurare, cioè se stesso. In croce io vedo l'uomo, anzi, gli uomini, quei tanti uomini persi che traboccano dai bar, dalle sale corse, da dispensari medici. Avvinazzati, alcolizzati, con il boccale e l'ovetto-il-micropasto-dell'alcolista-in-piedi al-bancone-del-bar in mano. Penso ai personaggi di Bukowski.
La rana è l'uomo, è l'uomo che sta su quella croce, non un dio e nemmeno un uomo-dio. Solo l'uomo, è un uomo, col fiato che puzza di birra, gli occhi strabuzzati, che si contorce, si stira, gli scappa da pisciare, prova a saltare e nemmeno quello riesce a far bene, nemmeno il salto della rana perché le sue mani sono inchiodate al legno della croce (come quelle dello studente su un banco di scuola in un'opera di Cattelan, guarda caso, e viene da chiedersi: chi ha copiato chi?). Quello che mi disturba di più della chiesa e dei politici ipocriti che sguazzano in queste cose, è che si fermino all'interpretazione più scontata. Il che è indice della loro scarsità di immaginazione.

Balkan Trip



Prima stazione: Peja/Pec, Kossovo


Una città con due nomi, come la mia Bolzano/Bozen. Ma qui è andata peggio. Al posto delle bombe sotto ai tralicci la guerra etnica e le bombe Nato (bombe che peraltro sono in pochi a rimpiangere, avendo aperto la strada all'indipendenza). Dire che sia bella come la dipinge la mia guida del Touring, datata anni '80, sarebbe esagerato. Ma è una città viva. La prima sera andiamo a fare un giro dalle parti del municipio. Giovani ovunque, donne con vestiti da sera luccicanti, minigonne, pantaloncini, tutta la mercanzia esposta, non lo si direbbe un paese a maggioranza musulmana, qui a Bin Laden prenderebbe un colpo, i talebani si trancerebbero i testicoli, altroché. Sono i Balcani, ragazzi! E i nostri luoghi comuni sull'Islam si rivelano tali.
Musiche dai bar, una buona cover dei Pink Floyd. Fuoristrada, comprati con che soldi? Pare che l'economia criminale sia fiorente: armi, droga, ogni sorta di traffico su queste montagne a due passi dall'Adriatico. Ma le strade di Peja sono sicure. Nessun militare in giro, i nostri se ne stanno in cima alla collina. Al mattino i tavolini fuori sono già pieni di uomini che fumano e bevono caffé. Alla tv le immagini di un'altra guerra. Quella che c'era in Kossovo sembra andata per sempre. Ma è facile sbagliarsi, in casa degli altri. E' facile dare colpe, tranciare giudizi: è stata colpa dell'Europa, degli americani, dei russi, delle religioni... Non voglio più farlo. Sputare sentenze, lo lascio fare ai beppegrilli.


Seconda stazione: Gorazdevac, Kossovo
L'unico posto di blocco dei Caschi blu lo troviamo pochi chilometri fuori Peja, dove inizia l'enclave serba di Gorazdevac. Le luci della città sono a due passi, ma qui è buio pesto, campagna profonda, rane e rospi. Poi una piazza sterrata, intitolata all'Italia, cinta di case coloniche fatiscenti. Gorazdevac è un ibrido: economicamente dipende dalla Serbia, dai sussidi della Serbia, più che altro (e non sono gran cosa). Gli insegnanti arrivano da Belgrado. C'è anche una rappresentanza del comune di Peja, lì accanto. Ma se c'è da mettere a posto una strada chi lo fa, la Serbia o l'amministrazione locale? Non si sa. Tutti e nessuno. In giro solo vecchie, sono loro ad avere preparato la cena: i giovani, se possono, se ne vanno. Ma dove? In città hanno paura ad andare, ci sono i kossovari. I quali probabilmente se ne fregano, pensano ad altro, all'Europa, ad annusare l'aria di libertà. Con l'aiuto dei volontari, specie quelli di Operazione Colomba, qualcuno da Gorazdevac comincia ad uscire. Va in città, entra nei negozi, saluta in serbo, non gli sparano. Va al centro giovanile Zoom, rifatto nuovo di zecca, dove giovani albanesi, serbi e rom provano a inventarsi una vita nuova, assieme. Con il teatro, la fotografia, la scrittura, esprimersi aiuta sempre. E' esprimersi, è tirarsi fuori, è raccontarsi il segreto così gelosamente conservato.
Nei monasteri sparsi fra queste montagne c'è ancora chi attizza la fiamma del conflitto etnico. Si ritiene come sempre che ci vorrà tempo.


Terza stazione: Kraljevo, Serbia
Su e giù per montagne coperte di boschi, fattorie, acqua che scroscia. Nei Balcani tutto è di più. L'acqua dei fiumi più limpida, il verde dei campi più verde.
Chiese ortodosse, monasteri. Le chiese ortodosse sono piccole perché quella ortodossa è una religione che si celebra nelle case, in famiglia. La festa più importante è quella del santo familiare. Può durare anche tre giorni.

Qualcuno tenta di avviare attività agrituristiche. Per ora gli unici che abbiano scoperto questi luoghi sembrano essere i cooperanti, o quelli che hanno preso in moglie/marito un/una a serbo/a.
A Kraljevo delle ragazze hanno aperto un centro per combattere la violenza sulle donne, i cascami della cultura machista. Ci mostrano un video, molto efficace. Anche qui, come in altri posti che ho visto, sono loro le più organizzate. Sono solidali, si uniscono, si aiutano, hanno imparato in tempo di guerra, hanno imparato dalla follia e dalla tragedia dei loro mariti, sono i pilastri veri della società.


Quarta stazione: Bratunac, Srebrenica, Bosnia Erzegovina.
Nei Balcani tutto è di più. Femmine più femmine, maschi più maschi. Anche le passioni sono così, e gli odi, i Balcani mi smuovono qualcosa e sento sempre le lacrime spingere dietro al velo dell'occhio. Arriviamo a Bratunac di notte. E' appena oltre il confine serbo, dove una poliziotta molto bella aveva fatto storie sul mio passaporto. Una via pedonale, due bar che sparano decibel nel buio, pieni all'inverosimile di gente presumibilmente bevuta. Manifesti di un gruppo rock, facce fasciste, teste rapate. Ci vuole un po' a capire che siamo a cinque chilometri da Srebrenica, il buco nero dell'Europa, che ha costretto a rispolverare la parola "genocidio". Da qui, da Bratunac, Mladic, il comandante delle truppe serbo-bosniache, ha dato disposizioni per il massacro.
Nel mattino dorato il paese sembra meno sinistro, la Drina scorre alla nostra destra, hanno sistemato una spiaggia per fare il bagno. Piantagioni di lamponi. Covoni di fieno. Un idillio agreste. Visitiamo una cooperativa, il nome è "Insieme": anche qui sono le donne le protagoniste, serbe e musulmane. Poi andiamo a Srebrenica. Srebrenica non è un posto come gli altri. La luce, il verde, rendono se possibile il tutto ancora più nero. Un cul de sac, qui le colline quasi si toccano, la cittadina scorre nel mezzo, case in stile balcanico e palazzi grigi di realismo socialista. Di fronte alla rotonda, un nuovo centro commerciale, linee postmoderne. E' come se nessuno avesse osato porre mano, cancellare i segni di ciò che è stato. Le pareti portano ancora impresse le tracce dei proiettili, delle granate. Tombe ovunque, quelle lunghe, bianche, dei musulmani. Dietro al distributore, si inerpicano su per il bosco. Ma è appena prima della città, a Potocari, che lo vedi: il memoriale della strage, consumatasi l'11-12 luglio 1995 (e nei giorni immediatamente successivi). 8.372 le vittime richiamate nel cippo all'ingresso, quasi sicuramente 10.000. L'Onu lasciò fare. I Caschi blu olandesi collaborarono con le milizie a separare gli uomini dalle donne, come da istruzioni di Mladic. Di fronte al memoriale-sacrario una grande fabbrica, con i suoi capannoni che luccicano al sole. La maggior parte è stata uccisa lì.
Ricordo di aver letto la testimonianza di una donna stuprata da un gruppo. Raccontò che uno di loro, mentre lo faceva, piangeva, e diceva: "Oh, com'è possibile che ci abbiate fatto questo, voi musulmani?" Il vittimismo dei popoli può essere un'arma mortale. E' per questo che non sopporto la Lega.


Quinta stazione: Prijedor, Bosnia Erzegovina.
Eppure la vita è più forte. Sembra una banalità, ma è così. E' sera a Prijedor, e i giovani si dedicano con passione all'arte dello "struscio", passatempo sovrano. Lo fanno nella nuova pedonale cittadina. Lo fanno mettendosi addosso il meglio che hanno. Occhi, mani, polpacci, ascelle, spalle, seni. Le gelaterie fanno affari, la vita è più forte, è sempre più forte. Saliamo sulla collina. L'avevo visitata nel 2002, era tutto un ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto. Ora è finito. Le case dei musulmani sono in gran parte in piedi. A stare peggio, ci dicono, adesso sono i serbi, profughi anch'essi, da altre zone della ex-Jugoslavia.

Ci portano alla miniera. Tutt'intorno, era sorta una cittadina vera e propria. Tracce di una cultura operaia oggi scomparsa. "Fin che abbiamo potuto, ce la siamo goduta - ci dice il nostro accompagnatore - Stavamo al centro, a metà fra il mondo socialista e quello capitalista. Abbiamo preso di quà e di là." Si ferma, poi aggiunge, sottovoce: "E' stato troppo bello. Forse dovevamo pagare un prezzo".
Saliamo in cima a una collina; solo una casa era sopravvissuta alla distruzione, un centro civico, all'epoca di Tito. Oggi è un asilo, tenuto assieme da una donna coraggiosa e instancabile. Ci raccontano: dopo l'inizio delle ostilità l'armata diede a quelli asserragliati quassù un ultimatum: consegnare le armi entro le 12. A differenza che a Srebrenica, non lo fecero. Il risultato comunque è stato il medesimo. "Almeno 1.500 persone vennero spazzate via quel giorno".
Ci portano in cima al monte Kozara, un parco naturale. Attraversiamo un villaggio vicino Omarska, che nel 1993 divenne famosa per la scoperta del primo campo di concentramento in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Hanno appena costruito una piscina. La gente va a fare il bagno, è una giornata piena di calore e di pollini. Saliamo e saliamo, curve, tornanti. Fra i sempreverdi, il cemento armato di un sacrario. Non piace a nessuno, tranne che a me. Ricorda le vittime di un'altra guerra, quella combattuta dai partigiani contro i nazifascisti. Non piace a nessuno, ma io credo che, così come si parla di archeologia industriale, si dovrebbe parlare anche di archeologia monumentale. Frutto di una concezione passata, s'impone con le dimensioni, con il suo peso che preme e schiaccia. In quest'epoca di light show, video, installazioni del cazzo, in quest'epoca di arti effimere come il fumo di un fiammifero, come potrebbe piacere? E' lontano come Marte dal gusto odierno. Penso che se vivessi qui verrei qui a leggere e a fare Tai Chi. Ad ascoltare le voci dei fantasmi. E le risa, i fantasmi sanno anche ridere. Di noi.