L'Olocausto è probabilmente uno dei temi più difficili su cui costruire un film. Ho visto ieri "The reader", di Stephen Daldry, del 2008; era la Giornata della Memoria.
Quando guardo un film del genere ho sempre il terrore che ad un certo punto mi deluda; le insidie sono infinite, ad ogni svolta della storia. Poteva scivolare sul patetico, e sarebbe stato uno spreco. Poteva indulgere in un eros un po' troppo torbido e patinato, e sarebbe stato un altro film. Poteva virare troppo decisamente in politica, poteva chiudere in maniera consolatoria, e di nuovo, qualcosa si sarebbe perso.
A me pare che non sia successo niente di tutto questo. Un'opera magistrale.
Nella Germania del 1958 - ancora povera, ci si scalda con il carbone, insomma, quel mondo lì, che sembra lontano anni luce ma appartiene all'altroieri - uno studente 15enne, mentre torna a casa da scuola, si sente male, deve vomitare. Si ripara in un androne: una donna, sui 35, bionda, naturalmente attraente, "spiccia", è gentile con lui, lo aiuta, lo rimette sulla strada di casa. Il ragazzo passa tre mesi a letto, ma non dimentica. Quando si rimette, va a trovarla. Comincia una storia, in cui la donna, Hanna, bigliettaia nei tram, una splendida Kate Winslet, inizia il ragazzo (lo chiamerà sempre così, il nome è Michael) al sesso, e lui in cambio le legge dei libri. La storia dura una estate; il ragazzo sta crescendo, la donna lo rimanda "dai suoi amici".
Passano alcuni anni; adesso il ragazzo è all'università, studia Legge. Il suo professore porta lui e altri studenti ad assistere ad un processo ad alcune Kapò, guardiane di Auschwitz e altri lager; fra le imputate, Hanna. Il ragazzo è sconvolto, dalla scoperta del passato della sua amante e, anche dalla freddezza, dal vuoto morale che le parole con cui risponde alle domande incalzanti del pubblico ministero lasciano intravvedere.
Ma Michael intuisce anche un'altra cosa: che Hanna è analfabeta. Questo elemento costituirebbe una prova a favore della donna, la metterebbe al riparo dall'accusa più grave, quella di essere stata la principale responsabile della morte di 300 donne ebree, lasciate morire nel rogo di una chiesa dove le sorveglianti le avevano rinchiuse prima di un bombardamento. Per Michael si pone un dilemma non solo esistenziale ma anche attinente all'etica professionale: se è a conoscenza di una prova così, che potrebbe cambiare la decisione dei giudici, deve rivelarla alla Corte. In questo modo Hanna andrebbe incontro ad una pena più mite. Ma Hanna è comunque colpevole, e non è pentita. Dunque, che fare? A ciò si aggiunge un conlfitto molto più intimo e personale: il ragazzo deve adoperarsi per alleviare le pene future della donna che lo ha allevato all'amore, oppure agire in nome e per conto della giustizia, e lasciare che essa si abbatta con durezza su una persona che si è macchiata di una colpa mostruosa? Michael non rivela la prova: le altre Kapò se la cavano con 4 anni di carcere, Hanna viene condannata all'ergastolo.
Gli anni passano. Michael, Ralph Fiennes, si è spostato e separato, ha una figlia, vive solo. Registra su delle cassette i romanzi che un tempo leggeva ad Hanna, le spedisce le cassette in carcere. Lei lentamente imparara a leggere e a scrivere. Scrive a Michael, l'unico suo contatto con il mondo esterno. Lui non risponde mai. Il ragazzo precoce è diventato un uomo triste, disilluso, sofferente.
Hanna ora è vecchia, Michael sempre solo. Dal carcere lo chiamano per avvisarlo che Hanna sta per uscire, che nessuno l'aspetta tranne, eventualmente, lui. Michael finalmente l'incontra, nella mensa della prigione. Non è la catarsi che forse lui (e noi) ci saremmo potuti aspettare. Per Hanna, che è una donna anziana ma conserva ancora qualche tratto dell'antica bellezza, "i morti sono morti", non c'è altro da dire.
Il giorno prima di uscire Hanna si uccide, in cella, lasciando in eredità a Michael una piccola somma, affinché la doni alla figlia dell'unica donna sopravvissuta al rogo della chiesa, a sua volta una ex-deportata.
Epilogo: Michael è negli Usa, va a trovare questa "erede". Vive in una bella casa a New York, sta invecchiando. Non si dimostra commossa, a sua volta rifiuta di dare a Michael la consolazione di una "catarsi".
"Spesso mi chiedono cosa ho imparato nel campo - dice - ma noi non eravamo là per imparare."
Il film si chiude con Michael che conduce la figlia sulla tomba di Hanna, e comincia a raccontarle la sua storia.
C'è molta materia, in questo film. C'è, nel comportamento di Michael, una pietà inflessibile, che non cede a compromessi con la morale, che non concede un facile perdono. C'è la fascinazione per la parola, il potere del libro, delle storie narrate, che però, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non basta, tiene in vita, sì, ma non redime. E c'è la natura umana in tutta la sua durezza, la sua irriducibilità; gli anni passano, le pene si scontano, non necessariamente ciò significa trovare pace, non necessariamente si approda ad una nuova maturità, alla "saggezza". C'è la luce accecante dell'eros (qui fra persone di età diversa), la vita nella sua espressione più elementare, pura, magnifica,forse anche crudele (l'Hanna che chiede al "ragazzo" di leggerle dei libri prima di fare l'amore replica un comportamento che le era solito anche quando faceva la sorvegliante del lager, scegliere giovani ragazze ebree che le tenessero compagnia, assieme ad un libro, per la notte). E c'è l'altra faccia dell'eros, l'oscuro vissuto che l'amante si porta appresso, ciò che siamo destinati a non conoscere, di là dai sensi, di là dalla grande "O" dell'orgasmo.
Hanna e' un personaggio affascinante: un'amante generosa, anche se spesso ruvida, scostante, "selvatica", una donna adulta che non si accanisce sul ragazzo, lo lascia andare, pur dopo averlo sedotto e dopo essersi rivolta a lui, a volte, con molta durezza.
Ma e' anche e soprattutto una persona ottusa, che non comprende l'entità di cio' che ha fatto, che nel giustificarsi per il non avere aperto le porte della chiesa dove le prigioniere stavano bruciando vive si giustifica dicendo che "aveva delle responsabilita'". In altre parole la banalita' del Male della Harendt in una delle sue tante personificazioni. Hanna non prova vergogna per il suo passato nazista, ma prova vergogna per il suo analfabetismo, che non confessa mai, anche se cio' le costa una condanna durissima. Quali sono i percorsi della vergogna? Quanto questa emozione può essere inadeguata?
C'è infine naturalmente, nel film, il tema della "doppia colpa": individuale, dei singoli che il Male l'hanno commesso, in prima persona, e quella più generale di una nazione, un popolo, una cultura. Inutile dire che il film non lo risolve, né potrebbe farlo. Ci dice però alcune cose: che ci sono scelte che si possono o non si possono fare (Hanna non venne reclutata a forza, scelse volontariamente di lasciare il lavoro in fabbrica perché aveva sentito che "le SS reclutavano sorveglianti"). Ci dice inoltre che la giustizia dell'uomo spesso arriva tardi, non incide abbastanza a fondo, e
che non è un balsamo sufficiente per certe ferite. Come non lo è la cultura, non lo sono, in ultima analisi, nemmeno i libri (come ha detto Abraham Yehoshua recentemente; e sì, se bastasse la cultura, se bastassero i libri, la nazione di Goethe e di Mann non avrebbe partorito i campi di sterminio, quella di Manzoni e Foscolo non avrebbe usato l'iprite contro gli etiopi e non avrebbe varato le leggi razziali, e forse quella Yehoshua e Oz forse non annovererebbe fra gli episodi della sua breve, tragica storia Sabra e Chatila e l'operazione "Piombo fuso").