Non ho ascoltato nulla di straordinariamente nuovo nella relazione di David Putnam ieri nel corso della prima giornata del Festival dell'Economia. Sarà che da Putnam mi aspettavo molto, sarà forse che se sei nato in Alto Adige, dove sei costretto a dichiararti per forza appartenente ad un gruppo linguistico (pena la perdita di diritti concretissimi), il tema dell'identità lo conosci come le sue tasche.
Forse, però, quello che ha detto l'accademico di Harvard - che l'identità è un costrutto sociale, che cambia nel tempo, che va decostruita (o che si decostruisce da sé - per effetto, tra l'altro, delle migrazioni e dei matrimoni misti - non si è ben capito...)- per molte persone rappresenta una novità. Certo, Langer queste cose le diceva in maniera forte, chiara e scomoda 20 e più anni fa (c'era la guerra nella ex-Jugoslavia, la guerra delle identità fratricide): non viene ricordato come uno degli intelletuali più influenti del suo tempo, non è diventato consigliere di Clinton e Obama, gli impedirono persino di candidarsi a sindaco di Bolzano (perchè appunto non si era dichiarato appartenente ad uno dei tre gruppi in cui l'apartheid altoatesino ha diviso la popolazione della provincia).
L'anno scorso ad un incontro "minore" del Festival, quello con Remotti, un antropologo italiano, si erano sentite parole più forti, contro il Moloch dell'identità ; lì però il punto di partenza non erano gli Usa di "Gran Torino" ma il Ruanda del 1994...
Poi, la struttura stessa della relazione di Putnam mi ha lasciato perplesso. Nella prima parte si è detto che in verità nelle società multietniche il capitale sociale è più basso; la gente è diffidente, c'è "l'effetto tartaruga", la creazione di reti amicali è più difficile. Questa l'evidenza empirica delle ricerche condotte negli Usa. Nella seconda parte della relazione, però, Putnam ha detto che le migrazioni (e più in generale il lento scorrere del tempo) comunque cambiano le identità, spostano le soglie e i confini che definiscono i gruppi, e che in definitiva il pluralismo etnico e culturale produce ricchezza e creatività. Il nesso logico fra la prima parte e la seconda era invero un po' labile.
Mi ha anche lasciato freddo l'affermazione secondo la quale, nelle società dove il capitale sociale è più alto, "le persone trovano lavoro in virtù di chi conoscono piuttosto che di cosa conoscono"; tutto vero, ovviamente, però sembrerebbe una fotografia della vituperata Italia dei raccomandati e dei bamboccioni. Solo che Putnam poi ricorda che delle esternalità positive delle reti amicali beneficiano tutti, anche coloro che ne stanno fuori, anche quelli che non partecipano ai barbeque. Vabbé, lui è americano, ha in mente un'altra realtà, quella delle confraternite, dei club, delle lobbies, dell'associazionismo diffuso che tanto impressionò Tocqueville (anche se oggi pare sia in calo).
In ogni modo, tutto fa brodo contro al razzismo. Quindi forse non è il caso di sottilizzare come se si fosse in un'aula universitaria. Dopotutto, questi festival sono eventi popolari. Dire che integrazione non significa omologazione significa dire una cosa importante nei confronti di chi (come quella lettrice che scrive oggi su "L'Adige") ritiene che gli immigrati debbano abbandonare le loro culture di riferimento per diventare compiutamente italiani. "L'identità non è data da Dio, è una costruzione sociale, come il linguaggio che adoperiamo per definire le cose, si può essere americani, buoni americani, pur mantendendo le proprie tradizioni italiane, irlandesi ecc. Anzi, queste stesse tradizioni sono 'americane'." Langer avrebbe detto forse qualcosa di più; avrebbe detto che per unire gruppi diversi sono necessari dei "traditori", che però non si limitano a passare dall'altra parte, che conservano un'appartenenza. Ragionamento molto sofisticato.
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