Little Wing
E questa invece è una canzone che suona (sia nell'originale di Hendrix sia in questa versione di Sting, non una delle tante) come un inno alla vita (e alla chitarra elettrica). Meno elegante di quelle jazzate che Sting ha realizzato con la Gil Evans Orchestra, meno perfetta di quella incisa sul disco, ha comunque il potere di farti felice.
Lei sta passeggiando fra le nuvole
Con il circo della sua mente che corre sfrenato
Farfalle e zebre e raggi di luna e storie di fate
Questo da sempre il mondo dei suoi pensieri
Cavalcando con il vento
Quando sono triste lei viene da me
A regalarmi mille sorrisi
Va tutto bene, dice, va tutto bene
Prendi da me tutto quello che vuoi
Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa
Vola, piccola ala
Spero di morire prima di diventare vecchio
Del resto, dagli Who in poi questa è sempre stata l'aspirazione delle popstars (talkin' 'bout my generation).
Michael Jackson, geniale pacchiano
Michael Jackson come Elvis, alla fine. Entrambe star "trasversali", capaci di unire pubblici diversi, generazioni diverse. Michael Jackson più di altri ha mescolato le carte, ha portato la musica nera ad un pubblico vastissimo, non solo "bianco" ma mondiale, frullando il R&B e il funky con l'elettronica, il rap, il rock (ricordate l'assolo di "Beat it", affidato a quello che all'epoca era IL chitarrista metal per eccellenza, Edward Van Halen?). Certo, prima di lui o accanto a lui c'erano stati Diana Ross, Tina Turner e Marvin Gaye, c'erano state altre star della Motown e della disco music, ma con Michael Jackson tutto è avvenuto su scala più vasta. E dopo di lui (e di Madonna), la dance è rimasta quella cosa che conosciamo, quella cosa enorme che oggi bacia in fronte Britney, Justin' e co. Michael Jackson è stato anche tra i primi a forzare i confini della videomusica, facendone, con "Thriller", un business pazzesco e una forma d'arte a se stante. Ed è stato, ovviamente, uno dei più radicali sperimentatori con la chirurgia plastica; anche fisicamente è diventato un "bianconero", un meticcio virtuale, prodotto da bisturi e collagene, un cartone animato danzante, senza razza né età, molto bello da giovane, diciamo fino alla fine degli anni '80.
Infine, come Elvis, Michael Jackson è morto soffocato da troppa fama, troppe nevrosi, troppi debiti, troppi cattivi consiglieri. Del resto, era un musicista geniale (o forse geniale era Prince, lui era il musicista giusto al momento giusto, diciamo), ma era anche un bambino, con i gusti zuccherosi di un bambino, disarmanti in un uomo fatto.
Nel mio libro (non gli faccio pubblicità spesso, ne converrete), l'ho trattato un po' male. Ecco il passaggio.
"Una sera ho guardato un'intervista a Michael Jackson. Ero avvolto dalla nebbia della malattia, comunque riuscivo ancora a ragionare; e ho pensato che è strano il modo in cui la sorte distribuisce i suoi talenti alla gente. Jackson è indubbiamente un talento musicale, abbastanza versatile da coprire canto, composizione, ballo, coreografia, ideazione e regia di video tra i migliori della storia della musica pop. Al tempo stesso, è una persona del tutto priva di cultura e di gusto.
La sua casa – la casa che mostravano in tv – un luna park infantile e ridondante, con tanto di zoo privato: e per le vacanze si sposta in un albergo a Las Vegas (!), città che con le sue luci, i suoi scenari di cartapesta, la sua grandiosità kitsch è esteticamente identica alla sua casa.
Il senso del bello di Michael Jackson è modellato sulle architetture e sugli arredi dei centri commerciali. Dice al giornalista di ammirare 'un meraviglioso soffitto a cassettoni', come se fosse veramente un soffitto a cassettoni del '500 e non la sua imitazione in un megastore. Nel suo shopping miliardario Jackson fa incetta di cose che farebbero inorridire chiunque sia dotato di un briciolo di educazione artistica. Quadri, anfore: oggetti che sono la più totale negazione dello stile e del valore, anche se costosissimi. In una parola: pacchiani, fatti per impressionare un bambino.
Non so dire in realtà se Michael Jackson sia come il resto dei suoi connazionali. Se davvero incarni le preferenze dell'americano medio, l'americano tamarro coi dollari, da barzelletta, che ti chiede se Dante è ancora vivo o se si può comperare un pezzo di Colosseo. Il tipo di persona che, non essendo abituata a vivere circondata dalle opere d'arte lasciate dalle generazioni passate è incapace di distinguere ciò che vale davvero da ciò che vale nulla (anche se per averlo bisogna staccare un assegno con molti zeri).
Può darsi che sia così. In ogni caso, fa impressione vedere come un uomo ricco, famoso e dotato di una grande creatività, un uomo ammirato dai ragazzi e dalle ragazze di tutto il mondo, sia una così totale testa di cazzo."
da Music Box, Curcu& Genovese, Trento, 2006.
Però devo dire anche che non credo abbia mai fatto del male a qualcuno, men che meno a dei bambini. Forse solo a se stesso.
You are not alone (per quanto non scritta da lui) commuove un po' a sentirla, oggi. Il video non si può postare perché youtube li ha tutti disabilitati (succede sempre più spesso), ma il testo, così semplice, esprime quello che deve avere provato lui in tutti questi ultimi anni di successo-non-successo, processi, media spietati e chirurgie plastiche.
Un altro giorno è andato
Io sono ancora tutto solo
Come può essere
Tu non sei qui con me
Non hai mai detto arrivederci
Qualcuno mi dica perchè
Sei dovuta andare
lasciando il mio mondo così freddo
Qui un esempio piuttosto spassoso dell'influenza planetaria di Jackson.
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Dolomiti patrimonio dell'umanità
Non so se n'è accorto qualcuno, occupati come eravamo a discutere della morte di Michele Jackson, ma ieri, 26 giugno, a Siviglia, le Dolomiti sono state proclamate patrimonio dell'umanità dell'Unesco (all'unanimità, ovvero tutti i 21 membri della commissione hanno detto sì). Ora, lo so che in ogni paesuccolo in cui andate in vacanza c'è un patrimonio dell'umanità da andare a vedere, ma qui si parla di qualcosa di un po' più raro, ovvero della lista dei beni naturali dell'Unesco, non di quelli culturali. Tanto per dire, in Italia solo un altro sito ha ottenuto questo riconoscimento, le isole Eolie.
Io sulle Dolomiti ci vado poco, perchè le trovo già un po' troppo sfruttate turisticamente, forse, o perché amo paesaggi più severi. Però, insomma, fa piacere il riconoscimento ufficiale a questi giganti di pietra corallina dalle forme incredibili, a questi monti pallidi spalmati sul territorio di 5 province (Trento, Bolzano, Belluno, Pordenone, Udine; perciò si parla di un riconoscimento "seriale", andato cioé a un bene sparso su un'area molto vasta che interessa entità politico-amministrative diverse). Che lasciarono a bocca aperta i primi grandi viaggiatori che le visitarono (lasciamo stare il termine "scoprire", che non è corretto neanche per l'Africa), e che diedero per secoli asilo a popolazioni di lingue e culture diverse (i ladini su tutti, ma oggi anche i tanti slavi o marocchini che lavorano nelle cucine degli alberghi). Che costituiscono un museo geologico a cielo aperto di enorme importanza, mai abbastanza studiato. Che sono il sogno del sublime di chi la montagna magari l'ha solo immaginata, con quelle verticalità estreme, quelle cime seghettate, quei pinnacoli, quei profili, quei colori. Che ogni tanto sfarinano, vengon giù, come avvenne un paio d'anni fa in val Fiscalina, Alto Adige (potenza dei cambiamenti climatici?) ma che per il momento rappresentano un fondale strepitoso dove far tramontare il sole.
Sui giornali già si confrontano due posizioni: c'è chi dice che il tutto è solo un affare e che non significherà più tutela delle montagne, e chi invece sostiene che la montagna non è un museo ad uso e consumo dei professorini e degli avvocatuzzi di città, che va vissuta e deve dare da vivere. Probabilmente la verità, come spesso accade, sta nel mezzo: è vero che vivere in montagna non è uno scherzo e chi lo fa non vuole troppi freni e troppi vincoli imposti dall'alto, ma è anche vero che le genti di montagna in quanto ad avidità a volte non scherzano neanche loro e che un freno agli appetiti dei "cittadini" che vedono nelle alte quote solo il luogo dove farsi la seconda casa va messo. Il sindaco di Lipari dice che dopo il riconoscimento alle Eolie sono successe cose contraddittorie (e allarmanti): da un lato, a causa delle raccomandazioni Unesco, non vincolanti ma comunque "pesanti", è stata chiusa la cava di pomice, che era a tutti gli effetti un'attività economica vera, "autoctona", dall'altro c'è stato un boom del turismo, che è spesso più invasivo di altre industrie.
Io comunque spero che il riconoscimento Unesco si straduca in meno gatti delle nevi, mototour e piste da sci e in più cultura della montagna, ovvero, in più scarponi, piedi, agricoltura sostenibile. Spero inoltre che le Dolomiti siano sempre di più un luogo di meditazione, benessere, paesaggio, poesia.
Riguardo invece ad un cattivo uso del nome "Dolomiti" (per fare business addirittura in Cina, e da parte di una società che non avrebbe bisogno di questi mezzucci), leggi invece qui, anche se la storia è vecchia.
Vabbé, che poi alle agenzie turistiche cinesi (l'ho sentita con le mie orecchie) quello che interessa della nostra zona è Gardaland!
Di montagne e salite
Potendo scegliere, avrei scelto il mare.
La montagna, ho iniziato ad avvicinarmi tardi alla montagna, si sa, il mare è per i ragazzini, la montagna è per gli adulti.
Non parlo della montagna ibrida dei fondovalle; può essere più o meno bella, a volte un contrasto stridente fra i boschi verticali che si alzano oltre le ultime case e i capannoni della periferia, l'insalata urbana che trovi dappertutto: zone industriali, centri commerciali, neon, magazzini, discoteche, lottizzazioni. Da un punto di vista cittadino, la montagna significa forse una cosa, su tutte: non avere lunghi tramonti. Il sole va dietro la cresta, che se l'ingoia. E magari sono solo le quattro del pomeriggio.
Se fossi un fotografo direi che è meglio la pianura, dove il sole dura più a lungo e fa in tempo ad accarezzare muri e vetri con i suoi ultimi raggi, i più struggenti. Luce obliqua di tramonto, il "sottile suono di mercurio" che sentiva Dylan passeggiando da giovane, rumori di finestre, di piatti e posate nelle cucine, voci che fuoriescono dagli appartamenti.
Parlo dell'alta montagna.
L'alta montagna per me si raggiunge solo in un modo: camminando.
Niente orpelli, niente trucchi, niente seggiovie, ferri o ferrate.
Si va per i sentieri, quelli che hanno calcato i pastori prima di noi.
Niente corde, niente chiodi. Personalmente, penso che anche bastoni e bastoncini siano superflui.
L'alta montagna la si raggiunge dal basso. Più basso è più è fatica, ed è tanto di guadagnato. L'alta montagna fa parte di quel pugno di cose che è bello sudare per averle. L'alta montagna è pura ma è anche erotica.
L'alta montagna non necessita di nulla. Non musica, non ipod, non necessariamente compagnia. Alla fin fine, l'alta montagna è per gli spiriti stilizzati, per chi si inebria dell'essenziale, per chi dalla vita sfronda il superfluo, almeno un giorno all'anno: superflua tecnologia, superflue immagini sovrabbondanti, superflui pensieri d'ambizione, ego e vanagloria.
Si parte dal basso, allora, e la partenza di solito è la parte più dura. Si risalgono sentieri all'ombra dei larici, si risalgono valli, poi per pascoli, pini mughi, i gracchi fanno i loro mestieri aerei.
E' una fatica mentale, con cui fai a gara. Anche il piacere è mentale. Tutto nasce nella testa, poi si diparte, gambe, spalle, polpacci, mani.
Non bisogna essere né superuomini né superdonne. Bisogna avere i contatti interni a posto, le connessioni, l'io e il superio, l'in e l'out, bisogna che il respiro sia ritmico, l'ansimare ben bilanciato, gli alti e i bassi, anche il dolore al fianco, se del caso, anche il sudore che brucia negli occhi.
Scisti, granito, porfido, dolomie. Ogni roccia ha le sue qualità.
C'è sempre un momento in cui la montagna mi mostra il suo volto severo. C'è un momento di insicurezza, la sensazione, la vertigine di stare in equilibrio sulle spalle di un gigante, di essere sul punto di volare non in basso ma nello spazio, precipitando oltre le cime più alte oltre il cielo pieno di cicatrici oltre l'atmosfera nel vuoto senza attrito.
C'è a volte il cielo che si abbassa, le nuvole si fanno dense, cade la pioggia gelida, la grandine, l'alta montagna si rivela per ciò che è, un posto inadatto agli uomini, una pietraia ostile, sfasciumi e burroni e licheni e neve e laghi gelati e strapiombi e creste e frane.
C'è a volte un momento in cui la montagna fa pensare a Nietzsche, o al Kerouac dei "Vagabondi del Dharma" o a Eliot o a Krakauer. Suppongo dovrebbe fare pensare anche a Rigoni Stern e a Corona ma non lo so perché non li ho letti.
A volte penso che Jim Morrison si sarebbe divertito in montagna. Avrebbe fatto cose diverse che nel deserto. Avrebbe visto dei nella roccia e non fantasmi di indiani morti. Avrebbe visto il cristo dei fulmini aggirarsi nel pascolo con una verga in mano i capelli pieni di pioggia, avrebbe visto il dio delle mucche tenere a bada l'orso, avrebbe riconosciuto l'estasi semplice della montagna quando rasserena, le nuvole si aprono e scocca l'arcobaleno, un raggio colpisce la cima di fronte, l'ombra risale il versante, il limite, lo steccato, il limite è lì?
Il trionfo della cima è di breve durata. Non mi attardo sotto alle croci. In fondo è come finire l'amore. Subentra un altro tipo di desiderio.
Presto sei già sulla strada di casa.
La montagna, ho iniziato ad avvicinarmi tardi alla montagna, si sa, il mare è per i ragazzini, la montagna è per gli adulti.
Non parlo della montagna ibrida dei fondovalle; può essere più o meno bella, a volte un contrasto stridente fra i boschi verticali che si alzano oltre le ultime case e i capannoni della periferia, l'insalata urbana che trovi dappertutto: zone industriali, centri commerciali, neon, magazzini, discoteche, lottizzazioni. Da un punto di vista cittadino, la montagna significa forse una cosa, su tutte: non avere lunghi tramonti. Il sole va dietro la cresta, che se l'ingoia. E magari sono solo le quattro del pomeriggio.
Se fossi un fotografo direi che è meglio la pianura, dove il sole dura più a lungo e fa in tempo ad accarezzare muri e vetri con i suoi ultimi raggi, i più struggenti. Luce obliqua di tramonto, il "sottile suono di mercurio" che sentiva Dylan passeggiando da giovane, rumori di finestre, di piatti e posate nelle cucine, voci che fuoriescono dagli appartamenti.
Parlo dell'alta montagna.
L'alta montagna per me si raggiunge solo in un modo: camminando.
Niente orpelli, niente trucchi, niente seggiovie, ferri o ferrate.
Si va per i sentieri, quelli che hanno calcato i pastori prima di noi.
Niente corde, niente chiodi. Personalmente, penso che anche bastoni e bastoncini siano superflui.
L'alta montagna la si raggiunge dal basso. Più basso è più è fatica, ed è tanto di guadagnato. L'alta montagna fa parte di quel pugno di cose che è bello sudare per averle. L'alta montagna è pura ma è anche erotica.
L'alta montagna non necessita di nulla. Non musica, non ipod, non necessariamente compagnia. Alla fin fine, l'alta montagna è per gli spiriti stilizzati, per chi si inebria dell'essenziale, per chi dalla vita sfronda il superfluo, almeno un giorno all'anno: superflua tecnologia, superflue immagini sovrabbondanti, superflui pensieri d'ambizione, ego e vanagloria.
Si parte dal basso, allora, e la partenza di solito è la parte più dura. Si risalgono sentieri all'ombra dei larici, si risalgono valli, poi per pascoli, pini mughi, i gracchi fanno i loro mestieri aerei.
E' una fatica mentale, con cui fai a gara. Anche il piacere è mentale. Tutto nasce nella testa, poi si diparte, gambe, spalle, polpacci, mani.
Non bisogna essere né superuomini né superdonne. Bisogna avere i contatti interni a posto, le connessioni, l'io e il superio, l'in e l'out, bisogna che il respiro sia ritmico, l'ansimare ben bilanciato, gli alti e i bassi, anche il dolore al fianco, se del caso, anche il sudore che brucia negli occhi.
Scisti, granito, porfido, dolomie. Ogni roccia ha le sue qualità.
C'è sempre un momento in cui la montagna mi mostra il suo volto severo. C'è un momento di insicurezza, la sensazione, la vertigine di stare in equilibrio sulle spalle di un gigante, di essere sul punto di volare non in basso ma nello spazio, precipitando oltre le cime più alte oltre il cielo pieno di cicatrici oltre l'atmosfera nel vuoto senza attrito.
C'è a volte il cielo che si abbassa, le nuvole si fanno dense, cade la pioggia gelida, la grandine, l'alta montagna si rivela per ciò che è, un posto inadatto agli uomini, una pietraia ostile, sfasciumi e burroni e licheni e neve e laghi gelati e strapiombi e creste e frane.
C'è a volte un momento in cui la montagna fa pensare a Nietzsche, o al Kerouac dei "Vagabondi del Dharma" o a Eliot o a Krakauer. Suppongo dovrebbe fare pensare anche a Rigoni Stern e a Corona ma non lo so perché non li ho letti.
A volte penso che Jim Morrison si sarebbe divertito in montagna. Avrebbe fatto cose diverse che nel deserto. Avrebbe visto dei nella roccia e non fantasmi di indiani morti. Avrebbe visto il cristo dei fulmini aggirarsi nel pascolo con una verga in mano i capelli pieni di pioggia, avrebbe visto il dio delle mucche tenere a bada l'orso, avrebbe riconosciuto l'estasi semplice della montagna quando rasserena, le nuvole si aprono e scocca l'arcobaleno, un raggio colpisce la cima di fronte, l'ombra risale il versante, il limite, lo steccato, il limite è lì?
Il trionfo della cima è di breve durata. Non mi attardo sotto alle croci. In fondo è come finire l'amore. Subentra un altro tipo di desiderio.
Presto sei già sulla strada di casa.
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Paradisi: Lavenna-Langfenn:
Passeggiata sull'altopiano del Salto, sopra San Genesio, 15 minuti d'auto da Bolzano città. Dall'Edelweiss la strada bianca si snoda fra pascoli e boschi fino a Lavenna-Langfenn (ristorante), e all'antica chiesa di San Giacomo. Lungo il cammino si trovano delle installazioni "rustiche" che sfruttano alberi e fienili, realizzate dai bambini della scuola di San Genesio: illustrano alcune leggende della zona, riepilogate in tre lingue su cippi di legno che, a intervalli regolari, invitano alla sosta. Sono storie dalla morale contadina, essenzialmente due ordini di insegnamenti:
1)se te la spassi, se godi troppo, sarai punito (storie del tipo: in quel fienile uomini e donne si ritrovavano per bere, ballare, condurre una vita licenziosa: una notte la terra si spalancò e li inghiotti...oppure, venne un diavolo e diede fuoco al tutto);
2) non essere avido e non chiedere mai l'origine delle tue fortune, accetta le cose come sono (storie del tipo: una strega regalò al giovane contadino un gomitolo che non finiva mai, l'ordine era che non ne cercasse mai la fine; un giorno uno straniero di passaggio vide la moglie del contadino tessere con questo gomitolo che non rimpiccioliva, volle cercare di disfarlo per trovare la fine e il gomitolo perse la sua magica proprietà).
La società contadina, ad ogni latitudine, produce queste morali: obbedisci alle leggi divine, porta rispetto verso ciò che non conosci, verso gli spiriti e la notte, e non cercare di emergere troppo, di distinguerti dagli altri (in Africa com'è noto era in uso per il big man organizzare delle grandi feste redistributive nel corso delle quali sacrificava gran parte della ricchezza accumulata - in genere sotto forma di bestiame - e anche ai giorni nostri chi ha la fortuna di trovare un lavoro in città viene subito assediato da orde di parenti questuanti, che ha l'obbligo morale di sfamare e soddisfare; in questo modo la ricchezza non si accumula, il meccanismo di accumulazione primitiva da cui scaturisce il capitalismo viene neutralizzato, non si crea una nuova classe borghese, le gerarchie tradizionali perpetuano il loro potere).
Bella, facile passeggiata in cui potresti dimenticare tutto, una locanda accogliente alla meta, l'Alto Adige è senz'altro il paradiso, ed è per questo che noi altoatesini, quando viaggiamo nel mondo, anche al cospetto dei luoghi più spettacolari, delle grandi meraviglie della natura, non rimaniamo mai con la bocca troppo spalancata. Siamo abituati al bello, in tutte le sue forme: l'idilliaco, il drammatico, il rustico, il lezioso, il barocco, il gentile, il sublime, persino il gotico e lo spettrale. Forse, ci manca solo il bello della modernità in vetrocemento, il bello dei grattacieli e delle superfici riflettenti, anche se a Bolzano gli architetti si sono dati da fare non poco (fin dai tempi del vituperato razionalismo, con buona pace di quei turisti che visitano solo i Portici).
Bella passeggiata che vorresti durasse all'infinito, vorresti essere un vagabondo con il bastone e la sacca sulle spalle, senza tecnologia, senza cellulari, senza microfibre, senza leghe speciali in carbonio, solo il cotone e le scarpe e la tua mente libera di vagare, di posarsi...
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Diamond dogs
Era un classico di David Bowie, dall'album omonimo. Il riff, una risposta a "Brown sugar" degli Stones. Il testo, una visione del futuro (o forse del passato, il passato dickensiano, il passato dei temibili orfanotrofi britannici) all'insegna dell'antiutopia (un'altra canzone dell'album si intitolava "1984", data che negli anni '70 aveva ancora un suo fascino sinistro). Ma anche echi di Burroughs e di Factory, senza dubbio.
Beck, l'eclettico, ne ha fatta una versione postmoderna di rara efficacia. E' nella colonna sonora di Moulin Rouge, ma nel film la si sente solo per pochi secondi.
Mentre ti tiravano fuori dalla tenda ad ossigeno,
Hai chiesto dov’era l’ultimo party,
Con la tua gobba di silicone e il tuo tronco di 25 centimetri.
Eri vestito che parevi un prete,
Eri un capriccio della natura.
Strisci per il vicolo, carponi sulle mani e le ginocchia:
Sono sicuro che non sei protetto, perché si vede subito.
I Cani di Diamante sono cacciatori e si nascondono dietro gli alberi.
Fino alla morte t’inseguiranno,
Manichini con l’istinto di uccidere.
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LA FINE DEI POTENTI
Qualcuno la chiama "'a livella"...
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
Totò
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Il fascino discreto della democrazia
Oggi qualche giornale scrive che le piazze dell'Europa non si riempiono di manifestanti in favore dei cittadini iraniani che invocano una democrazia diversa da quella di Ahmadinejiad e degli ayatollah.
Tendiamo a dare per scontata la democrazia, a considerarla un prerequisito. Ci indignamo di più per l'ineguaglianza che per la mancanza di libertà.
Per questo forse non è inutile riflettere di democrazia, come ha fatto ieri la Fondazione Degasperi all'ITC/Fondazione Kessler di Trento. Mi sono annotato solo alcuni pensieri sparsi, eccoli.
Giuseppe Tognon: la democrazia e' giovane. Platone la considerava il peggior sistema di governo. Pericle però diceva che chi non si dedicava alla cosa pubblica conduceva una vita irrilevante. La chiesa cattolica - istituzione antica, prudente, complicata - riconosce la democrazia solo dal Concilio Vaticano II (pensiero che di per sé ci fa arrabbiare; ma questa è stata in fondo una straordinaria legittimazione della democrazia, sconosciuta ad altre religioni, come ad esempio l'Islam). Le societa' democratiche "stanno appese a qualcosa", ma non si sa bene a cosa. La gente considera la democrazia un diritto prescindendo dal suo funzionamento.
Marco Brunazzo: democrazia significa dare potere ai molti (Gheddafi qualche giorno fa in un suo fantasioso discorso ufficiale basato sulla presunta origine araba della parola ha detto che significa "dare sedie ai molti"). Ma il principio di maggioranza non coincide in tutto e per tutto con la democrazia. Da un lato abbiamo un criterio quantitativo (chi prende più voti comanda), dall'altro un criterio qualitativo (la democrazia come sistema migliore di tutti gli altri, quello che consente di prendere le migliori decisioni possibili).
Perché la democrazia si fonda sul criterio della maggioranza? Secondo Bobbio xche' e' "utile". Ma la forza dei numeri e' sufficiente? E se la maggioranza dà volontariamente il potere ad un dittatore? Hitler godette di molti legittimi consensi all'inizio della sua "carriera" (e così oggi Ahmadinejiad, a prescindere dai brogli elettorali). Una volta una ragazza cinese mi disse che in fondo alla Tien an men c'erano solo qualche migliaio di manifestanti, che non rappresentavano la Cina profonda, la Cina "vera".
E poi, di quale maggioranza parliamo? La maggioranza dei votanti? Com'è noto in molti paesi vota solo una percentuale ridotta degli aventi diritto. E nei paesi in cui vige solo il suffragio universale maschile, ma le donne sono escluse dal voto?
Importanza delle regole per la tutela delle minoranze. La vera democrazia si vede dagli spazi che essa garantisce all'espressione del dissenso, all'opposizione.
Fulvio Cortese: dietro il principio di maggioranza, che e' un metodo, c'e' qualcos'altro. Il numero di per se' dice poco. Un'idea stupida non diventa intelligente solo xche' sostenuta dalla maggioranza (l'abbiamo visto con la politica estera di un paese indubbiamente democratico come gli Usa).
Tocqueville: democrazia come partecipazione, come humus, cultura diffusa.
Diritti, liberta' fondamentali, principi fissati nelle costituzioni, pongono dei limiti all'esercizio del potere della maggioranza. Al tempo stesso sono un presupposto fondamentale all'esercizio del potere.
Aggiungo una postilla: di fronte alla crisi delle democrazie rappresentative, in questi anni si è parlato molto, soprattutto a sinistra, di democrazia partecipativa (Porto Alegre, i bilanci partecipati di certe municipalità dell'America latina...). Attenzione: anch'essa può diventare un mito. Maroni legittima oggi le ronde sulla base della partecipazione (facciamo partecipare i cittadini alla gestione della sicurezza pubblica).
Tendiamo a dare per scontata la democrazia, a considerarla un prerequisito. Ci indignamo di più per l'ineguaglianza che per la mancanza di libertà.
Per questo forse non è inutile riflettere di democrazia, come ha fatto ieri la Fondazione Degasperi all'ITC/Fondazione Kessler di Trento. Mi sono annotato solo alcuni pensieri sparsi, eccoli.
Giuseppe Tognon: la democrazia e' giovane. Platone la considerava il peggior sistema di governo. Pericle però diceva che chi non si dedicava alla cosa pubblica conduceva una vita irrilevante. La chiesa cattolica - istituzione antica, prudente, complicata - riconosce la democrazia solo dal Concilio Vaticano II (pensiero che di per sé ci fa arrabbiare; ma questa è stata in fondo una straordinaria legittimazione della democrazia, sconosciuta ad altre religioni, come ad esempio l'Islam). Le societa' democratiche "stanno appese a qualcosa", ma non si sa bene a cosa. La gente considera la democrazia un diritto prescindendo dal suo funzionamento.
Marco Brunazzo: democrazia significa dare potere ai molti (Gheddafi qualche giorno fa in un suo fantasioso discorso ufficiale basato sulla presunta origine araba della parola ha detto che significa "dare sedie ai molti"). Ma il principio di maggioranza non coincide in tutto e per tutto con la democrazia. Da un lato abbiamo un criterio quantitativo (chi prende più voti comanda), dall'altro un criterio qualitativo (la democrazia come sistema migliore di tutti gli altri, quello che consente di prendere le migliori decisioni possibili).
Perché la democrazia si fonda sul criterio della maggioranza? Secondo Bobbio xche' e' "utile". Ma la forza dei numeri e' sufficiente? E se la maggioranza dà volontariamente il potere ad un dittatore? Hitler godette di molti legittimi consensi all'inizio della sua "carriera" (e così oggi Ahmadinejiad, a prescindere dai brogli elettorali). Una volta una ragazza cinese mi disse che in fondo alla Tien an men c'erano solo qualche migliaio di manifestanti, che non rappresentavano la Cina profonda, la Cina "vera".
E poi, di quale maggioranza parliamo? La maggioranza dei votanti? Com'è noto in molti paesi vota solo una percentuale ridotta degli aventi diritto. E nei paesi in cui vige solo il suffragio universale maschile, ma le donne sono escluse dal voto?
Importanza delle regole per la tutela delle minoranze. La vera democrazia si vede dagli spazi che essa garantisce all'espressione del dissenso, all'opposizione.
Fulvio Cortese: dietro il principio di maggioranza, che e' un metodo, c'e' qualcos'altro. Il numero di per se' dice poco. Un'idea stupida non diventa intelligente solo xche' sostenuta dalla maggioranza (l'abbiamo visto con la politica estera di un paese indubbiamente democratico come gli Usa).
Tocqueville: democrazia come partecipazione, come humus, cultura diffusa.
Diritti, liberta' fondamentali, principi fissati nelle costituzioni, pongono dei limiti all'esercizio del potere della maggioranza. Al tempo stesso sono un presupposto fondamentale all'esercizio del potere.
Aggiungo una postilla: di fronte alla crisi delle democrazie rappresentative, in questi anni si è parlato molto, soprattutto a sinistra, di democrazia partecipativa (Porto Alegre, i bilanci partecipati di certe municipalità dell'America latina...). Attenzione: anch'essa può diventare un mito. Maroni legittima oggi le ronde sulla base della partecipazione (facciamo partecipare i cittadini alla gestione della sicurezza pubblica).
Arrivano le ronde nere (venite, venite B 52)
Per info leggi peacereporter
I miei occhi si scontrano faccia a faccia con cimiteri ripieni,
inseguo falsi scopi,
verso la meschinità che gioca così duramente,
cammina a rovescio all'interno di manette,
calcia le mie gambe fino a spezzarle.
Dico: OK ne ho avuto abbastanza
che altro avete da mostrarmi?
It's all right, ma' (i'm only bleeding)
Bob Dylan
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Venite,
venite B 52
Il leone del deserto
Ieri il grande pubblico italiano ha potuto vedere per la prima volta - su Sky - il film del 1979, distribuito in Europa nel 1981, "Il leone del deserto", che narra le vicende della resistenza libica al colonialismo italiano durante il fascismo. Il film, parzialmente finanziato da Gheddafi in persona, che ha per protagonista l'eroe libico Omar Al Mukhtar , interpretato da Anthony Quinn, è stato criticato (come sempre avviene per le pellicole di questo genere) per le sue inesattezze e qui e là per le sue manipolazioni storiche (che riguardano più questioni interne alla Libia che il comportamento tenuto dall'Italia in quel paese). A prescindere da questo, a me è sembrato un onesto film di guerra, in stile anni 60-70 (non è Apocalyspe Now, per intenderci, non parla certo un linguaggio innovativo, è "hoolywodiano", come scrive Leonardo in un post di qualche tempo fa). Non è nemmeno una cagata come ha sentenziato qualche critico snob, è semplicemente un film che tratta gli italiani così come in moltissimi film di guerra sono stati trattati i tedeschi, cioè male, come meritano, del resto, perché la "riconquista della Libia" ad opera soprattutto di Graziani fu macchiata da atrocità vergognose, come sanno tutti coloro che hanno letto i libri di Angelo del Boca. E comunque sia, di colonialismo si trattava: cioé di conquista di terre altrui, di rapina, di sopraffazione.
Ora, com'è noto il film, in Italia, venne immediatamente censurato, e non è mai stato oggetto di proiezioni in pubblico (ci provarono a Trento nel 1987, e ovviamente intervenne subito la Digos).
Ora, mi chiedo, chi è quel fariseo che ha deciso di censurare "Il leone del deserto"? C'è chi dice Andreotti (quello che ieri ha mostrato apprezzamento per il discorso pronunciato da Gheddafi), chi l'allora sottosegretario Costa. Di certo è stato qualche esponente della classe dirigente (perlopiù democristiana) dell'epoca, anche se non è chiaro a tutt'oggi l'iter seguito. Ecco, questa è l'Italia, se non si fosse ancora capito. Un paese che per quasi trent'anni ha sottoposto a censura un film che, ripeto, al di là delle cose mostrate, è sostanzialmente un film di guerra come tanti altri, certo emotivamente molto "forte" per i libici, ma anche assai meno cruento di certe pellicole americane sul Vietnam, per esempio. La motivazione è che che getterebbe discredito sulle nostre forze armate (quelle che in Africa usarono i gas asfissianti, quelle che rinchiusero le popolazioni "ribelli" in campi di concentramento-lager in mezzo a deserto, quelle delle esecuzioni sommarie...). E' come se in Inghilterra avessero vietato la proiezione del film "Ghandi" perché raccontava la repressione messa in atto all'epoca dagli inglesi in India (la famosa scena dello sciopero del sale, ad esempio...).
Come stupirsi non solo del dilagare del razzismo, ma anche della fondamentale doppiezza morale dell'italico popolo? Come stupirsi degli accordi presi fra il nostro governo e un dittatore che ha alimentato una buona parte dei conflitti scoppiati in Africa negli ultimi decenni, che ha finanziato banditi truculenti come Charles Taylor, che ha armato la mano del terrorismo internazionale? Come stupirsi dello spauracchio dei barconi dei clandestini continuamente agitato davanti al muso della buona e brava gente dell'operoso Nord est, che risponde votanto Lega a più non posso? Dietro a tutto c'è precisamente questa cultura, la cultura non-cultura degli "italiani brava gente", la cultura non-cultura "ma noi gli abbiamo fatto le strade e i ponti", la cultura non-cultura del fascismo strisciante e delle ipocrisie andreottiane. Ma poi, chissenefrega, l'importante è che nostre imprese facciano buoni affari e la Libia continui a rifornirci di petrolio e gas, no?
Non sono un pacifista ad oltranza, mi pare di averlo già scritto. Secondo me i militari in zone come l'Afghanistan o la Somalia ci vogliono (o ci vorrebbero), anche se bisogna vedere qual è il loro mandato. Non sono nemmeno un ammiratore di Gheddafi, penso si capisca. Ma non sopporto la ragion di Stato, non sopporto l'italico vezzo dei due pesi e delle quattordici misure. E soprattutto non sopporto la censura, perché è la morte dell'intelligenza.
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Bruxelles 2 - glasses, lines
Linee aeree, superfici riflettenti. Bruxelles il giorno dopo le elezioni. Algida e spazi vuoti, grisaglie, donne che vanno di fretta trascinando trolley. Il cielo, continuamente mutevole, sole al mattino, pioggia la sera, nuvole.
Due spunti da "Neweurope":
1) Se la gente oggi sente meno che in passato il bisogno di votare in una consultazione europea, ciò è dovuto non ad un fallimento ma ad un successo della UE. L'Europa ha avuto successo nel dare alla gente sicurezza e opportunità, ovvero le cose che mancavano nel secondo Dopoguerra; oggi esse vengono date per scontate.
B) gli USA hanno fallito in politica estera perche' hanno pensato che bisognasse investire in spedizioni militari e non in sviluppo. In posti come Afghanistan, Somalia o Iraq tanti giovani si arruolano nelle milizie e nelle cellule terroriste per mancanza di opportunita', lavoro, prospettive di futuro. La UE (assieme ad Obama) potrebbe dare un contributo non piccolo a correggere questa rotta.
Due osservazioni su questo (mie, stavolta):
a) se ciò è vero, se è vero che l'Europa è in crisi per troppo successo, in crisi di salute, è vero anche che la politica non tollera il vuoto. Se si apre un vuoto (di idee, di rappresentanza, di cultura, di passione), qualcuno lo riempirà e in questo caso rischiano di riempirlo (in parte lo hanno già fatto, vedi Austria o Ungheria) forze antieuropee, nazionaliste e xenofobe. Facile anche che ci sia chi dà la colpa della crisi economica internazionale all'Europa (e finisca col votare a destra, quando questa crisi è in primo luogo un prodotto del neoliberismo. Già, perché la destra oggi occupa tutto lo spazio politico, quello capitalista-rampante, finanziario, "modernizzante", e quello antimoderno, protezionista, populista, autarchico, arcaico. La destra esprime tutto e il contrario di tutto ed è così che passa indenne attraverso le tempeste).
b) un nuovo modello di difesa europeo (o anche euroamericano) è ancora molto lontano dall'essere stato anche solo pensato. Su questo piano finora gli Usa hanno semmai usato l'allargamento dell'Europa ad est per tenere la Russia sulla corda e introdurre elementi di disgregazione nella stessa Unione. Però adesso Obama in Medio oriente sta facendo bene, dice a Israele che non può continuare a fare il cazzo che vuole. Ha un'autorevolezza che l'Europa, con i suoi periodici rigurgiti di antisemitismo, non ha.
Un'osservazione colta al volo da un funzionario europeo subito dopo le elezioni:
"Circolano molti luoghi comuni sulle istituzioni comunitarie. Si dice ad esempio che ci sia una burocrazia elefantiaca. Gli euroburocratri in realtà sono 42.000, la metà di quelli che amministrano il comune di Parigi. E gestiscono faccende che riguardano mezzo miliardo di persone. Si dice anche che la Ue tolga sovranità agli stati. Non è affatto così: gli stati sanno benissimo cosa fa l'Unione, perché sono loro a decidere cosa debba fare."
Per anni parlare male dell'Europa è stato di moda; oggi ci accorgiamo che andava difesa, come una donna bella e fragile, che sembra tirarsela ma solo perché non riesce a farsi capire.
Questa è una tiritera che a Bruxelles ripetono tutti, come un mantra: L'Europa non sa comunicare, non sa spiegarsi, è sempre e solo la burocrazia che misura la lunghezza delle banane.
Bruxelles è una bella metafora dell'Europa: un po' nuova, un po' cadente, popolata di persone giovani o di mezza età (bambini e vecchi sono nascosti da qualche parte, evidentemente), beve birra, tè, sfreccia su ciclabili disegnate sull'asfalto, sembra sempre covare qualcosa di sordido sotto la coperta dell'efficenza e del benessere.
Bruxelles
Stasera volo a Bruxelles, per un servizio su quelli che, dal Trentino, sono andati a lavorare nei meandri della burocrazia UE. In Trentino, terra di soli 500.000 abitanti, si capitalizza tutto, non si butta via nulla (o quasi; c'è giusto una sorta di sovrana indifferenza verso gli scrittori, ma questa è un'altra storia...).
Quelle che vado a raccogliere dovrebbero diventare delle piccole "storie esemplari" per altri giovani studenti universitari interessati a percorrere la stessa strada. Il Trentino, che vuole essere glocale, incoraggia questa fuoriuscita di cervelli. A patto che un legame rimanga, ovviamente.
Quindi, saprò come sono andate le elezioni nella città sede della Commissione.
Devo dire che stamattina, leggendo alcuni blog, ad esempio quello di Ludik, ero un po' sconcertato: parlavano di astensione alle provinciali. Provinciali? Poi mi sono reso conto che noi trentini siamo, come sempre, sfasati rispetto al resto del Paese. Noi le provinciali le abbiamo fatte mesi fa.
No, personalmente non mi pongo il problema dell'astensione. Il candidato che voterò, qui, mi pare persona intelligente, e comunque, il vero problema è che i temi europei in questa campagna elettorale sono stati solo sfiorati. Gli unici che hanno coniato uno slogan veramente a tema sono quelli della Lega e lo slogan è: no alla Turchia in Europa (a prescindere da ciò che si possa pensare dell'allargamento della Ue fino al lago di Van e al monte Ararat, non mi pare sia una delle questioni prioritarie).
Il Trentino, assieme all'Alto Adige e al Tirolo austriaco, ha creato alcuni anni fa una Euroregione transfrontaliera e ha aperto una rappresentanza comune a Bruxelles. C'è chi dice che non serva a nulla. Lucio Caracciolo, in margine al festival dell'Economia, sosteneva che le euroregioni sono già morte, e che comunque l'identità trentina non si può fondare su queste nostalgie austriacanti. Sulle nostalgie sarei anche d'accordo, quantunque poi c'è chi ricorda ancora molto bene come il proprio nonno, a suo tempo, sia morto con la divisa del Kaiserjager (e furono la maggioranza; in Trentino l'irredentismo non ebbe mai un gran seguito, con buona pace di Cesare Battisti). Però a me pare anche che le province (autonome, quindi dotate di poteri reali) siano più interessate ai progetti del presente che alle nostalgie del passato (uno per tutti: il raddoppio della ferrovia del Brennero, che sarà parzialmente finanziato proprio dai governi locali, attraverso i proventi della A22).
Sinceramente, da un lato a volte mi dispiace vivere in una terra che sembra così avulsa dagli scenari nazionali; dopo quaranta e passa anni uno fa fatica ad appassionarsi ancora al tema dell'identità (in provincia di Bolzano,ovviamente, è ancora peggio). Dall'altra però non c'è volta in cui non constati come l'Italia di queste terre di confine mediamente non sappia nulla. Ragiona per slogan e pregiudizi, rifiuta di metterci veramente il naso nelle questioni dell'autonomia e dei rapporti transfrontalieri. Proprio quando dovrebbe invece occuparsene di più, visto che ormai più o meno tutti propendono per un modello federalista (a parole! in realtà persino la Lega è parsa accontentarsi, in passato, di un piatto di lenticchie berlusconiane).
In quanto all'Europa, mi pare una costruzione venuta su a prescindere dagli schieramenti ideologici. Chi l'ha immaginata, in fondo? In Italia uno come Degasperi: trentino, democristiano, già deputato al parlamento di Vienna, anticomunista ma capace di dire no persino al Vaticano quando gli chiese di prendere a bordo i missini, ovvero di far posto agli ex-fascisti nel suo governo. Una persona fuori dagli schemi, insomma, anche se dotato probabilmente di quel robusto pragmatismo valligiano che qui domina.
E' quello che vedo negli occhi dei funzionari che lavorano nelle istituzioni comunitarie. Certo, tecnici, o per dirla in altra maniera, più dispregiativa, "tecnocrati" (si sa, gli italiani sono santi, eroi e navigatori, l'idea che un buon burocrate hegelianamente inteso possa avere una sua non piccola utilità fatica a penetrare nelle loro menti fantasiose). Tecnici senza fronzoli, dunque, senza bizantinismi, algidi, plurilingui, preparati. Per questo forse l'Unione europea non infiamma i cuori. La sua è una dimensione postideologica, a volte un po' pavida sulle grandi scelte politiche (rimane sempre la grande vergogna delle guerre balcaniche). Ma l'Europa del XX secolo fuochi e fiamme ne ha fatti abbastanza. O no? Forse è di questo che ha bisogno oggi. Di regole comuni, di piccoli passi, di decisioni assunte senza fanfare e sventolio di bandiere, che si insinuano silenziosamente nelle nostre vite e le cambiano, ci auguriamo, in meglio. Di funzionari e tecnici dagli occhi azzurri, che quando hanno finito il loro lavoro vanno a farsi una birra alla Gran Place.
Quelle che vado a raccogliere dovrebbero diventare delle piccole "storie esemplari" per altri giovani studenti universitari interessati a percorrere la stessa strada. Il Trentino, che vuole essere glocale, incoraggia questa fuoriuscita di cervelli. A patto che un legame rimanga, ovviamente.
Quindi, saprò come sono andate le elezioni nella città sede della Commissione.
Devo dire che stamattina, leggendo alcuni blog, ad esempio quello di Ludik, ero un po' sconcertato: parlavano di astensione alle provinciali. Provinciali? Poi mi sono reso conto che noi trentini siamo, come sempre, sfasati rispetto al resto del Paese. Noi le provinciali le abbiamo fatte mesi fa.
No, personalmente non mi pongo il problema dell'astensione. Il candidato che voterò, qui, mi pare persona intelligente, e comunque, il vero problema è che i temi europei in questa campagna elettorale sono stati solo sfiorati. Gli unici che hanno coniato uno slogan veramente a tema sono quelli della Lega e lo slogan è: no alla Turchia in Europa (a prescindere da ciò che si possa pensare dell'allargamento della Ue fino al lago di Van e al monte Ararat, non mi pare sia una delle questioni prioritarie).
Il Trentino, assieme all'Alto Adige e al Tirolo austriaco, ha creato alcuni anni fa una Euroregione transfrontaliera e ha aperto una rappresentanza comune a Bruxelles. C'è chi dice che non serva a nulla. Lucio Caracciolo, in margine al festival dell'Economia, sosteneva che le euroregioni sono già morte, e che comunque l'identità trentina non si può fondare su queste nostalgie austriacanti. Sulle nostalgie sarei anche d'accordo, quantunque poi c'è chi ricorda ancora molto bene come il proprio nonno, a suo tempo, sia morto con la divisa del Kaiserjager (e furono la maggioranza; in Trentino l'irredentismo non ebbe mai un gran seguito, con buona pace di Cesare Battisti). Però a me pare anche che le province (autonome, quindi dotate di poteri reali) siano più interessate ai progetti del presente che alle nostalgie del passato (uno per tutti: il raddoppio della ferrovia del Brennero, che sarà parzialmente finanziato proprio dai governi locali, attraverso i proventi della A22).
Sinceramente, da un lato a volte mi dispiace vivere in una terra che sembra così avulsa dagli scenari nazionali; dopo quaranta e passa anni uno fa fatica ad appassionarsi ancora al tema dell'identità (in provincia di Bolzano,ovviamente, è ancora peggio). Dall'altra però non c'è volta in cui non constati come l'Italia di queste terre di confine mediamente non sappia nulla. Ragiona per slogan e pregiudizi, rifiuta di metterci veramente il naso nelle questioni dell'autonomia e dei rapporti transfrontalieri. Proprio quando dovrebbe invece occuparsene di più, visto che ormai più o meno tutti propendono per un modello federalista (a parole! in realtà persino la Lega è parsa accontentarsi, in passato, di un piatto di lenticchie berlusconiane).
In quanto all'Europa, mi pare una costruzione venuta su a prescindere dagli schieramenti ideologici. Chi l'ha immaginata, in fondo? In Italia uno come Degasperi: trentino, democristiano, già deputato al parlamento di Vienna, anticomunista ma capace di dire no persino al Vaticano quando gli chiese di prendere a bordo i missini, ovvero di far posto agli ex-fascisti nel suo governo. Una persona fuori dagli schemi, insomma, anche se dotato probabilmente di quel robusto pragmatismo valligiano che qui domina.
E' quello che vedo negli occhi dei funzionari che lavorano nelle istituzioni comunitarie. Certo, tecnici, o per dirla in altra maniera, più dispregiativa, "tecnocrati" (si sa, gli italiani sono santi, eroi e navigatori, l'idea che un buon burocrate hegelianamente inteso possa avere una sua non piccola utilità fatica a penetrare nelle loro menti fantasiose). Tecnici senza fronzoli, dunque, senza bizantinismi, algidi, plurilingui, preparati. Per questo forse l'Unione europea non infiamma i cuori. La sua è una dimensione postideologica, a volte un po' pavida sulle grandi scelte politiche (rimane sempre la grande vergogna delle guerre balcaniche). Ma l'Europa del XX secolo fuochi e fiamme ne ha fatti abbastanza. O no? Forse è di questo che ha bisogno oggi. Di regole comuni, di piccoli passi, di decisioni assunte senza fanfare e sventolio di bandiere, che si insinuano silenziosamente nelle nostre vite e le cambiano, ci auguriamo, in meglio. Di funzionari e tecnici dagli occhi azzurri, che quando hanno finito il loro lavoro vanno a farsi una birra alla Gran Place.
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Ieri sera, prima del temporale (un altro esercizio di stile)
Quando uscì, si accorse che stava per iniziare a piovere. Il temporale estivo era venuto avanti lento, trascinandosi per tutto il pomeriggio, con impercettibili cambiamenti nella luce diffusa del cielo, dall’azzurro camicia al livido biancore, con scuraglie improvvise dietro alle montagne, e ora tutta quella elettricità e tensioni stavano per trovare sfogo, ma non ancora, avrebbe fatto in tempo a raggiungere la sua macchina, forse ad arrivare a casa.
Si rese conto che all’improvviso, qualche minuto prima, era stato molto felice, per due o tre secondi. La felicità l’aveva attraversato, mentre si sforzava di portare a termine un esercizio, aveva guizzato fra i muscoli doloranti e le molle della legs curl, un piacere così a lungo rimandato. Era stata felicità per niente, l’attimo della chiara consapevolezza di essere solo un individuo, di appartenere solo a se stesso, di avere, in fin dei conti, il pieno possesso, la piena sovranità su se stesso. Di non appartenere a lei o a lui o a loro, alle paure che accompagnavano ogni momento della sua esistenza, agli obblighi lavorativi e familiari, all’incalzare del tempo, alle indecisioni.
Si riempì bocca e polmoni di aria umida. Durava solo qualche secondo, certo, era comprensibile, lo capiva bene, lui, capiva bene tutto, non come Romano, che non aveva responsabilità su niente e nessuno. Però, se fosse potuta durare di più. Se solo ci fosse stato il modo per conciliare entrambe le cose…
Premette il tasto sulla chiave. Le porte dell’auto si aprirono con un rumore caratteristico e il lampeggiare di spie luminose.
Apparteneva ad quella specie di persone che amano a dismisura la libertà e non fanno nulla per coltivarla, aveva generazioni come lui alle sue spalle, avrebbe dovuto ricordarselo. Avrebbe dovuto tenerlo sempre bene a mente, come si tiene il portafoglio in tasca.
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Sister Europe
Nel giorno delle elezioni europee, mi sembra indicata la prima canzone di successo delle Psychedelic Furs, che quando venne incisa Maastricht era ancora un miraggio.
E se l'identità europea si fondasse - anche - su questo splendido romanticismo pop? Se fosse questo che ci distingue veramente dai cinesi?
(In realtà il cantante scrisse il pezzo perché era estate e la sua morosa era andata a farsi un giro in Italia da sola. Ma ne venne fuori un gioiellino assolutamente denso e decadente...ah, potenza dell'arte, che trasfigura un lavello in una pala d'altare!).
stupid on the steinway
o sick upon a steinway
the sailors drown
see them talk and see them drown
and see them drink and fall around
upon the floor
sister of mine, home again
sister of mine, home again
lonely in a crowded room
the radio plays out of tune
so silently
the radio upon the floor
is stupid, it plays aznavour
so out of key
sister of mine, home again
sister of mine, home again
broken on a ship of fools
even dreams must fall to rules
so stupidly
words are all just useless sound
just like cards, they fall around
and we will be
sister of mine, home again
sister of mine, home again
ah ssss...
buy a car and watch it rust
sister see them fall to dust
they fall around
in another crowded room
paint me like the shirt i'm in
honestly
sister of mine, home again
sister of mine, home again
ah ssss...
sister of mine
sister of mine
sister of mine
sister of mine
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Lo straniero
Ieri sera, nonostante fossi molto stanco, prima di dormire ho letto qualche pagina de "Lo straniero" di Albert Camus (1942). Ricordavo di avere visto anche il film di Visconti, tanti anni fa, assieme a mia madre, in televisione. Oggi sono andato su youtube e l'ho ritrovato, avevo completamente dimenticato che il protagonista fosse Mastroianni.
Faceva caldo, ieri; nell'addormentarmi mi sono sentito trasportare per un attimo nell'Algeria di Camus, mi sono sentito anch'io uno di quei corpi bruni stesi al sole (anche se il mio è il corpo bianco di uno che vive sulle Alpi, dopo uno degli inverni peggiori degli ultimi anni).
C'è una certa durezza, che traspare, dai romanzi di quel periodo. Ad esempio un atteggiamento molto "macho", molto brusco, a volte sprezzante, verso le donne. C'è nei personaggi di Camus e c'è ad esempio in certi personaggi di Pavese, anche se è noto che lo scrittore italiano avesse le sue difficoltà con l'altro sesso. Non so, penso che oggi, nonostante stupri e violenze domestiche, quell'atteggiamento possa sembrare un po' datato. Ho come l'impressione che oggi le donne siano viste semmai con un misto di curiosità, risentimento, desiderio e timore. Non come "delicate prede" (per usare un altro titolo letterario di uno scrittore dell'epoca, Paul Bowles). Come barbies postatomiche, semmai.
Ma forse è semplicemente l'esistenzialismo ad essere passato di moda, quel modo sofferto, virile e fatalista di stare al mondo, di affrontare l'assurdo del mondo, che ha probabilmente ispirato le paranoie, i "probblemi" della stagione successiva, quella del '68, e anche un certo romanticismo tutto virato al maschile.
Camus, com'è noto, supererà (filosoficamente) la posizione espressa in "Lo straniero" nel suo romanzo successivo, "La peste", anch'esso ambientato in Algeria.
I Cure all'inizio della loro carriera incisero una canzone, "Killing an arab", ispirata a "Lo straniero". Venne stupidamente accusata di essere una canzone razzista, e i Cure, altrettanto stupidamente, cambieranno in seguito il testo nelle esecuzioni dal vivo ("killing another" anziché "killing an arab"). Potenza del linguaggio "politicamente corretto".
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Uno scrittore: Louis Férdinand Céline
Non conosco il francese, non so le lingue, sono ignorante.
Ho letto il Viaggio al termine della notte per la prima volta circa 20 anni fa, Morte a credito invece nel 1994, me lo ricordo bene, lo leggevo in treno, quando facevo il pendolare.
Come si fa a non amare Céline? Certo, colpevole, certo, antisemita, certo, collaborazionista, razzista, il male.
Mai come con lui il giudizio "umano" diverge da quello artistico: un genio assoluto, certo. Un anarchico vero, certo, fino in fondo, anche se compromesso, sì...
Il buco nero, la negazione della speranza, l'umanità ridotta al suo minimo, campare, sfangarla, lo sgobbo, gli sfessati, dare la colpa a qualcuno dei propri guai, lamentarsi all'infinito, e la Storia? Un cimitero pieno di pietre di tortura...
Ma come non amare Celine? Il suo umorismo sulfureo, la sua spietata visione delle cose, la più acida descrizione del colonialismo l'ho letta nel Voyage, e non erano parole di condanna...
Come non amare Celine? Come non amare l'inizio del Voyage, quella lunga tirata del protagonista contro la guerra, la patria e le divise, e subito dopo il suo subitaneo autoarruolamento, così, per niente, del tutto folle e irrazionale, come sono gli uomini, come è la vita? Come non amare la sua tirchieria patologica? La sua dedizione alla professione di medico? La sua dedizione alla lingua?
Come non amare la dedica iniziale al Voyage?
"Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia. Tutto il resto è soltanto delusione e fatica. Questo nostro viaggio è interamente immaginario. Ecco la sua forza.
Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, tutto è inventato. E' un romanzo, dunque, null'altro che una storia fittizia. Lo dice Littré che non sbaglia mai. E poi, tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi.
E' dall'altro lato della vita."
Che voce strana, mi sarei aspettato qualcosa di profondo, solenne. No, era un vecchio rugante petulante. Irriducibile. Fino in fondo alla notte.
Fly into the sun
La notizia è arrivata ieri, mentre il festival dell'Economia si avviava verso la fine: aereo disperso al largo delle coste del Brasile, tre trentini a bordo.
Con uno di loro, Rino, mi è capitato di viaggiare. Ricordo la Bosnia, nel 2002, visita alla comunità trentina di Stivor (costituitasi all'epoca in cui Trentino e Bosnia erano parte dell'Impero austroungarico e i trentini andavano là per costruire le ferrovie). Ci fu una grande festa organizzata dal circolo della Trentini nel mondo, tutto il calore balcanico nella povertà di una terra che ne ha viste di tutti i colori. Visitammo Sarajevo, in occasione della prima visita di Romano Prodi a quella città magnifica e martoriata, nella sua veste di presidente della Commissione europea. I trentini portavano la richiesta di inclusione dei Balcani nella Ue, tramite l'Osservatorio sui Balcani, organismo nato dall'impegno speso da tanti negli anni della guerra. Con noi c'erano l'assessore Andreolli, Renato Penner di Pace per Gerusalemme, qualche giorno fa a Bejt Jalla, in Cisgiordania,per inaugurare un'altra opera realizzata grazie al contributo trentino, un centro giovanile. Fuori Stivor mi portarono in un bosco, mi dissero di guardare per terra: avevo i piedi immersi nei gusci d'uovo. Mi fecero alzare la testa: sulle cime degli alberi decine e decine di nidi, nel cielo volteggiavano le cicogne.
Rino c'era anche in Argentina, uno dei viaggi più faticosi che mi siano toccati, quasi ogni giorno su un aereo diverso, giornate pesanti, come sempre succede in quei paesi quando arriva una delegazione ufficiale. Buenos Aires, Chaco, Pampa dell'Infierno, Impenetrabile. I circoli creati dall'emigrazione transoceanica, e rivitalizzati negli ultimi 20-30 anni, dopo che il Trentino da terra di emigranti si è trasformato in terra di benessere diffuso. A Resistencia arrivò anche il coro della Sosat per tenere un concerto: erano stravolti dal lungo percorso via terra dal Brasile, ma l'Argentina era sull'orlo del crollo economico (uno dei tanti procurati da questo capitalismo kamikaze degli anni 2000), la gente non aveva soldi, in città s'era sparsa la voce che a teatro c'era un concerto gratis e così si era formata una fila lunga diversi isolati. Cosa fare? Chiesero ai coristi di tenere due concerti, uno dopo l'altro, per non mandare via nessuno.
Rino era un buon compagno di viaggio, allegro, sanguigno. Pieno di umanità e di passione. Uno con cui ti dici: vorrei viaggiare ancora assieme a lui. Era parte di questa rete trentina della solidarietà che indubbiamente esiste, non è retorica, anche se a volte a forza di parlarne può sembrare, una rete fatta di associazioni, cooperanti, volontari, missionari, vigili del fuoco, amministratori locali, politici provinciali, giornalisti, in fondo il Trentino è piccolo, dopo un po' ci si conosce, ci si coopta a vicenda, la solidarietà è anche un modo per uscire dai propri confini, allargare gli orizzonti, serve a chi la riceve ma anche a chi la fa e non c'è niente di male in questo. I due che lo accompagnavano in questo viaggio in Brasile non erano da meno: Giovanni Battista soprattutto l'avevo incrociato molte volte, era il ritratto della persona onesta, sincera, Luigi il sindaco di un paese lontano dal capoluogo, in una valle molto bella ma anche aspra, una valle che si ama per forza se si decide di restare e di impegnarsi per essa. Mancheranno a tutti.
Appartengo alla generazione che ha iniziato a volare tardi. Mio padre in vita sua prese solo una volta l'aereo, a sessant'anni, per andare in Sicilia ad un congresso del sindacato. Io dopo la laurea, per andare a Londra a lavorare e a imparare l'inglese (si fa per dire...). La mia figlia minore a 4 anni c'è già stata 3 o 4 volte.
All'inizio mi faceva paura. La volta peggiore fu la seconda: volavo in Tanzania, da solo, andavo alla scoperta dell'Africa dopo averla studiata sui libri per anni. Il viaggio notturno un incubo di vuoti d'aria e alcol: quasi all'arrivo, il comandante disse che per problemi tecnici forse saremmo dovuti atterrare a Mombasa (in Kenya, addirittura un altro paese!). Poi, senza aggiungere nulla, iniziò la manovra d'atterraggio. Guardai l'africano alla mia destra, che tornava dall'Inghilterra ed era vestito come un businessman pur essendo - a suo dire - uno studente: mi sembrava preoccupato, il che preoccupò anche me, perché lui quella rotta l'aveva fatta spesso, lui sapeva quali erano le condizioni di sicurezza all'aeroporto di Dar es Salaam. Ad un certo punto una voce dall'altoparlante, ma non una comunicazione ufficiale, piuttosto come se qualcuno avesse lasciato aperto il canale per errore: "Small probabilities of survive", mi sembrò di capire. Guardai alla mia destra: il tipo, lo studente-businessman, aveva capito la stessa cosa. Mi sentii lo stomaco in gola. "My friend, god is great", mormorò lui, con un sorriso.
Atterrammo malissimo, su una ruota. Ma atterrammo. Fu il mio impatto con l'Africa.
C'è voluto un po' perchè la smettessi di pensare al momento in cui ti accorgi che stai per precipitare, al panico, ai vassoi, alle borse che s'incollano al soffitto, assieme alla gente che non era cinturata, alle mascherine dell'ossigeno che saltano fuori, al rumore degli allarmi (suoneranno allarmi in questi casi?), a quanto ci deve impiegare un aereo di linea a venire giù da un'altezza del genere. A come dev'essere quel volare nell'acqua, nel sole, quel cambiamento di prospettiva, quell'orizzonte che si capovolge. Sì, spero sia come volare nel sole.
Poi ad un certo punto è passata. Mi sono detto che è vero, è il modo più sicuro per viaggiare, e a volte è anche piacevole, a volte distingui posti dall'alto che hai visitato via terra, a volte voli sopra il mare o il deserto e ti stupisci di vedere un puntino in tutto quel nero, a volte voli sopra le nuvole e sopra le nuvole c'è la luna che ti parla. A volte volare è proprio magia.
Mancheranno a tutti, quei tre. In Trentino e in tutti i posti dove andavano per fare qualcosa di buono.
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