Oggi, durante uno degli incontri minori del Festival dell'Economia di Trento, ho sentito ripetere per l'ennesima volta che la globalizzazione ha spostato la competizione dal terreno delle imprese a quello dei territori. Ergo, bisogna fare squadra, creare piattaforme produttive coese ecc. "E' quello che fanno in Cina", ha detto a un certo punto uno dei relatori, e lì sono rimasto un po' sorpreso perché a parlare era stato un giovane imprenditore. Insomma, l'ultimo dei grandi paesi comunisti preso a modello da un rappresentante del capitalismo molecolare occidentale.
Poi ho riflettuto: va bene, è una logica che non mi piace, mi sembra un passo indietro verso il primo '900, verso la stagione dei nazionalismi, ma prendiamo atto che è così. Però se è così serve un modello. Un modello per il Paese. Quale modello può avere, dunque, per l'Italia, uno come il nostro capo del Governo? A quale Italia pensa, quando pensa alla competizione globale? A quale tipo di capitalismo? A quale piattaforma produttiva? A quale specializzazione funzionale del sistema-Italia, o non-specializzazione funzionale, se del caso?
Casualmente, l'occhio mi è caduto sul Corriere della Sera, dove compariva l'intervista a Marcello dell'Utri, senatore del Pdl, creatore di Publitalia, fondatore di Forza italia, ammiratore dell'Opus dei, condannato in primo grado per "concorso esterno in associazione mafiosa", fraterno amico dello Stregatto.
L'intervista verteva sulle famose feste in una delle ville di Berlusconi in Sardegna.
D: Allora, senatore: che succede a questi festoni?
R: Beh, intanto, ci sono due o tre situazioni che ogni volta tolgono il fiato a chi partecipa per la prima volta.
D: Scusi, situazioni di che tipo?
R: C'è la gelateria. Tu vai lì e ti servono tutto il gelato che vuoi. Gratis. Se ci pensa, è una trovata molto divertente.
D: Curioso, sì.
R: Divertente, lo ammetta. E sa qual è il gusto più buono?
D: No.
R: Il gelato del Presidente. Squisito.
D: Ci sono pure i coni?
R: Naturalmente. E' una vera e propria gelateria. Come pure la pizzeria. Ecco, si vaga nei giardini mangiando sorbetti e tranci di pizza, e poi si chiacchiera, si parla, si fa salotto...
D: C'è musica?
R: Sempre. E sempre dal vivo.
D: Apicella?
D: Lui ma non solo. A villa Certosa ho sentito cantare persino tenori e poi ho assistito all'esibizione di band di ogni tipo... Berlusconi, com'è noto, è un intenditore.
D: E al teatrino?
R: Giù al teatrino ci sono spettacolini, recite, balletti.
E qui ho avuto un'illuminazione. Il villaggio turistico. Certo, il villaggio turistico! Quello con l'all-inclusive. Mangiare e bere gratis, anfiteatro, musica di merda, comici, piscina, belle ragazze in costume o pareo (firmato)...
E' questo il modello. Certo, perché no. Semplice da capire, popolare fra gli elettori, paternalista quanto basta per assicurare al capo villaggio una lunga gestione del potere e un passaggio indolore dello stesso nelle mani di un qualche vice. Ecco il modello. In linea con l'immagine internazionale dell'Italia, di un paese un po' bizzarro ma dove si mangia bene e la gente è espansiva. Eccolo. Perfettamente spendibile sul piano interno: chi non vorrebbe vivere tutta la vita in un villaggio turistico? In fondo lui ce l'ha. Ne ha uno privato. Pensa un po'. Partendo dalle navi da crociera. Figata!
Coraggio, dunque, italiano, ancora un piccolo sforzo.
ps: non voglio sembrare snob. Io qualche volta nei villaggi ci sono andato. Non è il mio modello di vacanza, l'ammetto. Ma ci sono andato. In qualche posto mi sono pure trovato bene. Quando hai bambini piccoli, non hai voglia di farti il culo...(te lo fai già abbastanza...)...
Allo spettacolo serale mi sono sempre sentito in imbarazzo. Ma va bene, va bene, i bambini si divertono, per due settimane all'anno ci può stare, mica posso pretendere che in un villaggio turistico sparino la musica di Lou&Iggy, che recitino Sartre...che poi io sono un pesantone, conosco due barzellette in croce, dovrei imparare a vivere...
Però, ecco: due settimane, se proprio devo. Non c'è niente da fare, qui non è una questione politica e nemmeno economica, ma antropologica. Io piuttosto che una serata a ciucciare sorbetti con Noemi, lo Stregatto e il Marcello Bello a villa Certosa mi fionderei a Guantanamo.
Economia (festival dell') 2: Montezemolo
Nella seconda giornata del Festival dell'economia di Trento Luca Cordero di Montezemolo parla come un leader del centrosinistra e dice che l'evasione fiscale è un reato (il tonfo che avete sentito ieri attorno alle 16 non era una scossa di terremoto ma il sobbalzo di milioni di partite Iva), gli economisti invocano clemenza (come se non lo sapessimo che queste "scienze" non sono predittive, qualcuno aveva previsto il crollo del Muro di Berlino?) e più d'uno sostiene che in fondo l'Italia non è il paese che se la sta passando peggio, grazie non allo Stregatto di Berlusconistan ma a cose come le nostre bcc e casse rurali, definite le pmi delle banche (e anche qui qualcuno ricorda che solo un paio di anni fa tutti incitassero alle fusioni).
In effetti io ricordo la Londra del 1991 (ultimo scorcio del tatcherismo): beh, lì sì che era miseria, una cosa che francamente, in giro, non ho visto più.
Per il resto, nelle varie sedi sempre tanti giovani (alla faccia di chi li dipinge come un esercito di smutandati lobotomizzati), in internet è boom, in piazza Duomo una bella mostra fotografica di Romano Magrone, Enrico Letta è sempre pimpante (ma non riesco a non asssociarlo al Subuteo e ai Dire Straits), Tito Boeri ha il suo consueto sorrisino furbo e un mio caro amico che ha in odio il circo degli economisti commenta: "E' una compagnia di giro".
In quanto alla crisi, nessuno più si sbilancia: finirà quando finirà.
Ah, sì: stasera in piazza Dante (di fronte alla stazione) suonano i Bastard Sons of Dioniso.
Economia (festival dell') 1: Cipolletta
Le cose più interesanti della prima giornata del festival dell'Economia di Trento le ha dette Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie dello Stato e dell'Università di Trento.
La prima è di sostanza e riguarda la crisi: no all'ottimismo di regime. No a chi dice che la colpa è tutta del catastrofismo dei media (magari per controllarli meglio).
La seconda è di metodo: si incolpano gli economisti, gli studiosi, di non avere previsto la crisi. Ma c'è un paradosso nelle scienze di questo tipo: le loro previsioni servono ai decisori per fare le politiche. Ora, se i governi avessero ascoltato quei (pochi, per la verità) che avevano previsto la crisi, e si fossero comportati di conseguenza, la crisi non ci sarebbe stata e gli esperti sarebbero stati accusati di avere sbagliato le previsioni.
Nel frattempo il Times parla di berlusconistan così...
La prima è di sostanza e riguarda la crisi: no all'ottimismo di regime. No a chi dice che la colpa è tutta del catastrofismo dei media (magari per controllarli meglio).
La seconda è di metodo: si incolpano gli economisti, gli studiosi, di non avere previsto la crisi. Ma c'è un paradosso nelle scienze di questo tipo: le loro previsioni servono ai decisori per fare le politiche. Ora, se i governi avessero ascoltato quei (pochi, per la verità) che avevano previsto la crisi, e si fossero comportati di conseguenza, la crisi non ci sarebbe stata e gli esperti sarebbero stati accusati di avere sbagliato le previsioni.
Nel frattempo il Times parla di berlusconistan così...
Under pressure - sotto pressione
Odiava l'ansia che si generava in quei momenti, il senso di panico prodotto da un tipo di società e da un modello lavorativo (entrambi informatizzati) che sembrano dare per scontata la coincidenza temporale fra pensiero e azione, fra il desiderio e la sua la materializzazione istantanea.
Eppure sapeva che, a volte, sotto pressione lavorava meglio.
Sotto pressione le idee schizzano fuori dai neuroni come il sudore dai pori. Sotto pressione tutto diventa improvvisamente fluido, lubrificato, creativo. Sotto pressione il superio censorio allenta la presa; subentra una vertigine, un deliquio, uno sfrecciare delle persone e delle cose ai due lati dei lobi temporali, persino un senso di fratellanza, di parziale riappacificazione del genere umano, difficile da ritrovare in condizioni normali, quando a governare suprema è l'accidia, la noia, la nausea sartriana.
Sotto pressione è come in guerra, in viaggio, sulle montagne russe, tutti assieme ad alzare le braccia sull'orlo del precipizio. Sotto pressione l'aria è elettrica di temporale, c'è odore di pioggia. Scarpe slacciate e colletti allentati.
Quando poi ad essere sotto pressione è tutta una città, gli ricordava le volte che la neve aveva creato ingorghi pazzeschi sulle salite, quando il fiume aveva rischiato di straripare, quando si aspettava nelle piazze la fine dell'ultimatum lanciato dall'Onu a Saddam, prima guerra del Golfo, 1991. I bar esplodevano di gente, il volume della musica si alzava, gli sconosciuti si lanciavano occhiate allusive, le vesti frusciavano e i tacchi sbattevano sul porfido della strada. Quando l'intera città entrava nella giostra, poteva succedere di tutto. Il senso di un pericolo imminente, di una sorpresa dietro una colonna, di un incontro, un fallimento, un successo, un tradimento, un delitto.
Sotto pressione il sangue accelerava, sotto pressione acceleravano le nuvole, sotto pressione la borsa nera faceva affari d'oro, sotto pressione le palpebre si restringevano, le nocche sbiancavano, sotto pressione era terra di nessuno, senza legge.
Sotto pressione non ce n'era per bambini e animali. Sotto pressione le persone si scontravano con una violenza pari a quella impressa alle particelle dall'acceleratore del Cern. Sotto pressione bollivano, fumavano, urlavano, sotto pressione uomini e donne graffiavano, si prendevano a morsi, uscivano spettinate dai bagni. Sotto pressione si polverizzavano fortune e si concepivano creature, i sorrisi si vetrificavano in un gigno subdolo e sinistro.
Eppure sapeva che, a volte, sotto pressione lavorava meglio.
Sotto pressione le idee schizzano fuori dai neuroni come il sudore dai pori. Sotto pressione tutto diventa improvvisamente fluido, lubrificato, creativo. Sotto pressione il superio censorio allenta la presa; subentra una vertigine, un deliquio, uno sfrecciare delle persone e delle cose ai due lati dei lobi temporali, persino un senso di fratellanza, di parziale riappacificazione del genere umano, difficile da ritrovare in condizioni normali, quando a governare suprema è l'accidia, la noia, la nausea sartriana.
Sotto pressione è come in guerra, in viaggio, sulle montagne russe, tutti assieme ad alzare le braccia sull'orlo del precipizio. Sotto pressione l'aria è elettrica di temporale, c'è odore di pioggia. Scarpe slacciate e colletti allentati.
Quando poi ad essere sotto pressione è tutta una città, gli ricordava le volte che la neve aveva creato ingorghi pazzeschi sulle salite, quando il fiume aveva rischiato di straripare, quando si aspettava nelle piazze la fine dell'ultimatum lanciato dall'Onu a Saddam, prima guerra del Golfo, 1991. I bar esplodevano di gente, il volume della musica si alzava, gli sconosciuti si lanciavano occhiate allusive, le vesti frusciavano e i tacchi sbattevano sul porfido della strada. Quando l'intera città entrava nella giostra, poteva succedere di tutto. Il senso di un pericolo imminente, di una sorpresa dietro una colonna, di un incontro, un fallimento, un successo, un tradimento, un delitto.
Sotto pressione il sangue accelerava, sotto pressione acceleravano le nuvole, sotto pressione la borsa nera faceva affari d'oro, sotto pressione le palpebre si restringevano, le nocche sbiancavano, sotto pressione era terra di nessuno, senza legge.
Sotto pressione non ce n'era per bambini e animali. Sotto pressione le persone si scontravano con una violenza pari a quella impressa alle particelle dall'acceleratore del Cern. Sotto pressione bollivano, fumavano, urlavano, sotto pressione uomini e donne graffiavano, si prendevano a morsi, uscivano spettinate dai bagni. Sotto pressione si polverizzavano fortune e si concepivano creature, i sorrisi si vetrificavano in un gigno subdolo e sinistro.
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Hello, it's me
For Andy Warhol...and a little bit for my father (I wished I talked to you more
when you were alive...)
Andy, sono io, è un po’ che non ti vedo
mi sarebbe piaciuto parlare di più
quando eri vivo
credevo fossi sicuro di te
quando facevi il timido
ciao sono io
Mi manchi davvero
mi manca davvero la tua mente
non sento idee come le tue
da molto, molto tempo
Mi piaceva guardarti disegnare
e guardarti dipingere
ma l’ultima volta che ti ho visto
mi sono girato di spalle
Quando Billy Name era malato
e chiuso a chiave in camera
mi hai chiesto un po’ di speed
e io credevo fosse per te
mi spiace di avere dubitato
del tuo buon cuore
sembra sempre che le cose finiscano
prima di cominciare
Ciao sono io, quella si che è una stupenda mostra
la tappezzeria con le mucche
e i cuscini argento galleggianti
vorrei aver prestato più attenzione
quando ridevano di te
ciao sono io
"Colpito l’artista pop”
diceva il titolo
“è tutta una montatura, la sparatoria?
Warhol è morto davvero?”
si sconta meno galera se rubi un’auto
ricordo dì aver pensato mentre ascoltavo
un mio disco dentro a un bar
Ti odiavano davvero
ora è tutto diverso
ma io serbo del rancore
che non potrà sparire
mi hai colpito dove faceva più male
e io non ho riso
i tuoi diari non sono un epitaffio degno
Be’ adesso, Andy
credo sia giunto il momento di andare
spero che in un certo senso in qualche modo
questo piccolo show ti sia piaciuto
so che arriva in ritardo
ma è il solo modo che conosco
Ciao sono io
Buonanotte Andy
Addio Andy
Da Songs for Drella, 1991, Lou Reed & John Cale, in memoria del loro mentore e pigmalione Andy Warhol.
NON SI SENTONO IDEE COSI' DA MOLTO, MOLTO TEMPO...
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death is not the end
Della serie, la gioia di vivere.
Canzone suggestiva (di Bob Dylan), anche se sono d'accordo con quel commento che dice: lies, death is the end.
Anyway, enjoy Nick Cave, Kylie & Mc Gowan...
Non sa più nulla, è alto sulle ali
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l'Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Ho risposto nel sonno: - E' il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d'angeli, è la mia
sola musica e mi basta. -
Vittorio Sereni (1913-1983), da Diario d'Algeria
Foto: Rodi (M.P.)
E se poi arrivasse lui?
Non mi sembrerebbe niente di strano. Sarebbe un presidente del Consiglio normale che governa finalmente un paese normale. Magari conserverei un'istintiva diffidenza verso un politico che rappresenta anche, forse suo malgrado, un passato ostile a noi antifascisti (diciamo, se si può dire, laicamente antifascisti, cioè antifascisti che non gridano "fascista!" ad ogni pisciata di cane).
Ma sarebbe normale, voglio dire, essere governati da un politico normale, che non è un multimilionario, che non controlla le tv, che non fa le corna nelle foto, che non corrompe - fino a prova contraria - i giudici.
Insomma un politico, che su cose come l'immigrazione o la crisi dice più o meno le stessse cose (moderate) che dicono tutti i politici ("spetta al mercato produrre ricchezza ma deve essere temperato dall'azione regolatrice delle istituzioni...". Qualcuno sosterrebbe il contrario, oggigiorno?). Un politico che probabilmente non crede nelle ideologie, che cerca di interpretare, come può, la complessità, con impegno misto a furbizia, come sempre avviene con questa specie di uomini. Dissentirei normalmente da lui, gli rinfaccerei la Bossi-Fini, certe uscire del passato e a volte magari condividerei persino quello che dice. Insomma, il senso di non vivere in una repubblica degli Arlecchini e dei Pulcinella, o in Thailandia. Forse persino senza Emilio Fede.
E' per questo che non mi convincono quelli del "tanto meglio, tanto peggio", quelli per cui se anche Berlusconi cade è uguale, o andrà anche peggio.
Preparate le monetine
Ci fu un tempo un altro leader politico che si riteneva invincibile, tanto da dire al Paese, in occasione di un referendum non gradito: italiani, anziché a votare, andate al mare ((9 giugno 1991, votò il 62% degli aventi diritto, i SI - sgraditi a Craxi - furono il 95%).
Venne seppellito - in una sorta di beffarda, funerea catarsi di cui la storia italica conosce anche altri e più drammatici esempi, già solo a rimembrare quel distributore Esso a piazzale Loreto - sotto un diluvio di monetine e finì i suoi giorni in clandestinità (lui avrebbe preferito la parola "esilio" ma era un esilio autoimposto, causa tintinnar di manette).
Ricordo che un vignettista fece una memorabile pagina satirica su di lui, mi pare su Cuore, l'allora supplemento de L'Unità, raffigurandolo come una rockstar decadente, "ultimo, grande esempio negativo per le nuove generazioni", una vita dissipata in sesso, droga e denari...
Ho come l'impressione che stiamo assistendo alla stessa storia: di nuovo un leader che si crede invincibile, tanto da mentire spudoratamente alla nazione, tanto da insidiare a tempo perso 50 ragazzine alla volta convocate in una delle sue tante ville in Sardegna...
Omaggio ai fratelli neri (e alle sorelle nere) - ARRESTED DEVELOPMENT
Inizi la giornata così e anche se è il solito venerdì ti sembra che passerà meglio.
Sono gli Arrested Development, speranza del rap dei primi anni '90, autori di due soli lavori basilari (3 Years, 5 Months & 2 Days in the Life Of... , e Zingalamaduni), il resto raccolte e cose secondarie (l'ultimo cd è del 2006, chiaramente l'impatto oggi è diverso, anche se il brano dal vivo qui è proprio del 2006, e dimostra che c'è sempre bisogno di musica così). Ma imperdibili, specie perché si collocano agli antipodi della cultura gangsta rap che secondo me ha affossato l'hip hop, fra troie, banditi e feticci.
Qui ci sono le radici africane, l'America rurale, (gli Arrested sono di Atlanta), i vari filoni della musica afroamericana che confluiscono nel mainstreem hip hop, il senso della comunità, il passaggio del testimone fra le generazioni. Campi, paludi e il grande fiume. Strumenti costruiti con materiali di scarto. Sedie a dondolo sul patio di case di legno. Melodia e ritmo, vento fra i dreadlocks, i fantasmi di M.L. King (there's one path and one path only...) e di Bob Marley (this song of freedom...redempion's song). Cani, chitarre, zanzare. Vestiti leggeri. Ballare in ciabatte come ad essere sulle rive del Niger, il nonno bada al fuoco, la ragazza si prepara per la grande festa.
Ho intitolato questo post "omaggio ai fratelli neri (e alle sorelle nere)", ma in verità è un'omaggio a tutta la gente positiva e a questa musica magnifica che la fa vibrare.
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The sheltering sky - il tè nel deserto
Sempre a proposito di incontri fra culture, parlando di quando erano gli occidentali ad andare in Africa a far danni...
"Sai - disse Port, e la sua voce suonò irreale, com'è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso - il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida, lassù, che ci protegge da quello che c'è dietro."
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: "Da quello che c'è dietro?"
"Sì".
"Ma che cosa c'è dietro?". La sua voce era fievole fievole.
"Niente, credo. Soltanto oscurità, notte assoluta."
Così Paul Bowles nel suo The Sheltering Sky (il cielo che protegge) diventato in italiano (e nel film di Bertolucci) Il té nel deserto. Non molto tempo fa, erano i bianchi ad andare in Africa, e non per cercare lavoro né perché a casa loro li massacravano (tanto, comunque, all'epoca anche l'Africa era casa loro), ma per farsi passare le paturnie.
Nel libro dello scrittore americano, nato a New York nel 1910 e trapiantatosi, con la moglie, in Marocco nel 1949 (lo stesso anno di uscita del romanzo) l'incontro degli occidentali con l'Africa - un continente diverso, un clima diverso, culture diverse - si risolve prima in tragedia (la morte di Port) e poi in una intensa esplorazione interiore (da parte di Kit) attraverso un'esperienza sessuale travolgente, resa possibile dal viaggio, dalla dimensione dell'altrove, che scioglie dagli obblighi e dalle regole quotidiane, ma anche dai blocchi creati da educazione, morale ecc.
Il film di Bertolucci restituiva molto bene questo dualismo: una prima parte dedicata alla crisi coniugale dei due protagonisti, alla loro crescente incomunicabilità (che non migliora con il procede del viaggio attraverso il deserto, anzi, aggiunge equivoci a equivoci, menzogne a menzogne), fino all'epilogo, la morte di Port. Siamo dentro alla dimensione tragica, ovvero occidentale, greca, psicanalitica, dell'eros-thanatos. La coppia non riesce mai a comunicare; non c'è comunione, non c'è condivisione, nemmeno durante l'amplesso (che nel libro in effetti manca, ma che rimane invece il clou emozionale del film di Bertolucci) quando Port si distrae, si lascia sviare dalle parole, che non riesce a trattenere, dalle sue personali visioni, convinto forse (lo sarà fino all'ultimo) che Kit possa davvero condividerle, che lei sia come lui.
La seconda parte comincia con l'abbandono da parte di Kit del cadavere di Port e con il suo aggregarsi ad una carovana di tuareg divenendo la compagna di uno (nel libro inizialmente di due) di loro. Vabbé, so che sembra una pubblicità dei bagnidoccia, con la tipa che salta in groppa al cammello del bel beduino che la porta (in mezzo al deserto!) in un posto con un bagno piastrellato fighissimo, ma insomma...
Qui siamo in una dimensione diversa, una dimensione "africana". O meglio, siamo dentro all'immaginario occidentale e alle sue rappresentazioni dell'Africa, continente nero per eccellenza, cioè oscuro, profondo, sconosciuto, un continente in grado di dare corpo ai fantasmi che il bianco si porta dentro, se vogliamo (la ben nota espressione coloniale fardello dell'uomo bianco questo in fondo sottintendeva. O no?).
L'Africa "primitiva", ma anche l'Africa-natura, l'Africa che vive in una dimensione morale propria, permette alla protagonista di sondare i suoi desideri più nascosti, i propri limiti, persino il proprio latente masochismo, il desiderio di annullamento (diciamo tra parentesi un bell'annullamento) nell'alterità di una cultura nomade, in cui la polarizzazione uomo-donna è fortissima (alla fine del viaggio Kit viene chiusa in un harem, per quanto la segregazione sia resa confortevole dal tuareg).
Il finale è aperto: dopo essere fuggita l'americana approda in un luogo definitivamente antitetico rispetto alla patria di origine, una città nel deserto in cui non conoscono il denaro, in cui si pratica il baratto. Qui viene recuperata da connazionali, che la riportano a Tangeri per reimpatriarla. Ma il richiamo dell'Africa (o meglio, di tutto ciò che l'Africa sottintende) è più forte: Kit scappa e nel romanzo, a bordo di un autobus, raggiunge il capolinea del quartiere arabo della città. Nel film Bertolucci la fa incontrare con Paul Bowles in un caffé. Evidentemente, considera, si è perduta.
Anche in un altro celebre romanzo di autore occidentale, Heart of Darkness, di Joseph Conrad (Cuore di tenebra, da cui venne tratta la sceneggiatura di Apocalypse Now di F.F. Coppola, che trasferì l'azione in Vietnam) l'Africa è la dimensione del viaggio verso il centro buio, tenebroso, di sé e della propria cultura. Nel cuore del Congo colonizzato ( schiavizzato) da re Leopoldo II dei belgi (uno dei grandi criminali della storia europea), Kurz, il responsabile della stazione commerciale alle cascate Stanley, incontra non l'eros ma un altro tipo di fantasma, molto più ottocentesco: quello della cupidigia, ovvero del commercio coloniale, del capitalismo spinto alle sue estreme conseguenze. Il tutto qui vira però sul filosofico, sull'eterno confronto (o eterna coincidenza) fra bene e male.
Di nuovo, l'impatto con un luogo e una cultura diversi fa risaltare, come un reagente, alcune caratteristiche, qualità o inclinazioni che però il soggetto già si porta dentro, ben celate o soffocate dalle sovrastrutture sociali.
Anche qui, è interessante come l'uomo bianco di Conrad - a pari della donna bianca di Bowles - non si limitino semplicemente a regredire, a inselvatichirsi, a de-civilizzarsi. C'è però, al fondo, e ancora una volta, il desiderio di morte, il senso di un sacrificio che deve compiersi o di una colpa che si deve espiare. Nel film di Coppola Kurz/Brando non fa nulla per fermare la mano dell'ufficiale inviato al termine del fiume per ucciderlo, e nel montaggio le immagini della mattanza a colpi di machete si mescolano a quelle del sacrificio della mucca da parte degli indigeni di cui Kurz si è circondato.
Le ultime parole pronunciate da Kurz sono emblematiche. "The horror..."
Orrore dell'Africa, orrore per i selvaggi, per il degrado in cui l'hanno trascinato? Forse. Ma soprattutto, orrore di sé.
"Sai - disse Port, e la sua voce suonò irreale, com'è facile che accada alle voci dopo una lunga pausa in un luogo estremamente silenzioso - il cielo qui è molto strano. Spesso, quando lo guardo, ho la sensazione come di una cosa solida, lassù, che ci protegge da quello che c'è dietro."
Kit rabbrividì lievemente nel ripetere: "Da quello che c'è dietro?"
"Sì".
"Ma che cosa c'è dietro?". La sua voce era fievole fievole.
"Niente, credo. Soltanto oscurità, notte assoluta."
Così Paul Bowles nel suo The Sheltering Sky (il cielo che protegge) diventato in italiano (e nel film di Bertolucci) Il té nel deserto. Non molto tempo fa, erano i bianchi ad andare in Africa, e non per cercare lavoro né perché a casa loro li massacravano (tanto, comunque, all'epoca anche l'Africa era casa loro), ma per farsi passare le paturnie.
Nel libro dello scrittore americano, nato a New York nel 1910 e trapiantatosi, con la moglie, in Marocco nel 1949 (lo stesso anno di uscita del romanzo) l'incontro degli occidentali con l'Africa - un continente diverso, un clima diverso, culture diverse - si risolve prima in tragedia (la morte di Port) e poi in una intensa esplorazione interiore (da parte di Kit) attraverso un'esperienza sessuale travolgente, resa possibile dal viaggio, dalla dimensione dell'altrove, che scioglie dagli obblighi e dalle regole quotidiane, ma anche dai blocchi creati da educazione, morale ecc.
Il film di Bertolucci restituiva molto bene questo dualismo: una prima parte dedicata alla crisi coniugale dei due protagonisti, alla loro crescente incomunicabilità (che non migliora con il procede del viaggio attraverso il deserto, anzi, aggiunge equivoci a equivoci, menzogne a menzogne), fino all'epilogo, la morte di Port. Siamo dentro alla dimensione tragica, ovvero occidentale, greca, psicanalitica, dell'eros-thanatos. La coppia non riesce mai a comunicare; non c'è comunione, non c'è condivisione, nemmeno durante l'amplesso (che nel libro in effetti manca, ma che rimane invece il clou emozionale del film di Bertolucci) quando Port si distrae, si lascia sviare dalle parole, che non riesce a trattenere, dalle sue personali visioni, convinto forse (lo sarà fino all'ultimo) che Kit possa davvero condividerle, che lei sia come lui.
La seconda parte comincia con l'abbandono da parte di Kit del cadavere di Port e con il suo aggregarsi ad una carovana di tuareg divenendo la compagna di uno (nel libro inizialmente di due) di loro. Vabbé, so che sembra una pubblicità dei bagnidoccia, con la tipa che salta in groppa al cammello del bel beduino che la porta (in mezzo al deserto!) in un posto con un bagno piastrellato fighissimo, ma insomma...
Qui siamo in una dimensione diversa, una dimensione "africana". O meglio, siamo dentro all'immaginario occidentale e alle sue rappresentazioni dell'Africa, continente nero per eccellenza, cioè oscuro, profondo, sconosciuto, un continente in grado di dare corpo ai fantasmi che il bianco si porta dentro, se vogliamo (la ben nota espressione coloniale fardello dell'uomo bianco questo in fondo sottintendeva. O no?).
L'Africa "primitiva", ma anche l'Africa-natura, l'Africa che vive in una dimensione morale propria, permette alla protagonista di sondare i suoi desideri più nascosti, i propri limiti, persino il proprio latente masochismo, il desiderio di annullamento (diciamo tra parentesi un bell'annullamento) nell'alterità di una cultura nomade, in cui la polarizzazione uomo-donna è fortissima (alla fine del viaggio Kit viene chiusa in un harem, per quanto la segregazione sia resa confortevole dal tuareg).
Il finale è aperto: dopo essere fuggita l'americana approda in un luogo definitivamente antitetico rispetto alla patria di origine, una città nel deserto in cui non conoscono il denaro, in cui si pratica il baratto. Qui viene recuperata da connazionali, che la riportano a Tangeri per reimpatriarla. Ma il richiamo dell'Africa (o meglio, di tutto ciò che l'Africa sottintende) è più forte: Kit scappa e nel romanzo, a bordo di un autobus, raggiunge il capolinea del quartiere arabo della città. Nel film Bertolucci la fa incontrare con Paul Bowles in un caffé. Evidentemente, considera, si è perduta.
Anche in un altro celebre romanzo di autore occidentale, Heart of Darkness, di Joseph Conrad (Cuore di tenebra, da cui venne tratta la sceneggiatura di Apocalypse Now di F.F. Coppola, che trasferì l'azione in Vietnam) l'Africa è la dimensione del viaggio verso il centro buio, tenebroso, di sé e della propria cultura. Nel cuore del Congo colonizzato ( schiavizzato) da re Leopoldo II dei belgi (uno dei grandi criminali della storia europea), Kurz, il responsabile della stazione commerciale alle cascate Stanley, incontra non l'eros ma un altro tipo di fantasma, molto più ottocentesco: quello della cupidigia, ovvero del commercio coloniale, del capitalismo spinto alle sue estreme conseguenze. Il tutto qui vira però sul filosofico, sull'eterno confronto (o eterna coincidenza) fra bene e male.
Di nuovo, l'impatto con un luogo e una cultura diversi fa risaltare, come un reagente, alcune caratteristiche, qualità o inclinazioni che però il soggetto già si porta dentro, ben celate o soffocate dalle sovrastrutture sociali.
Anche qui, è interessante come l'uomo bianco di Conrad - a pari della donna bianca di Bowles - non si limitino semplicemente a regredire, a inselvatichirsi, a de-civilizzarsi. C'è però, al fondo, e ancora una volta, il desiderio di morte, il senso di un sacrificio che deve compiersi o di una colpa che si deve espiare. Nel film di Coppola Kurz/Brando non fa nulla per fermare la mano dell'ufficiale inviato al termine del fiume per ucciderlo, e nel montaggio le immagini della mattanza a colpi di machete si mescolano a quelle del sacrificio della mucca da parte degli indigeni di cui Kurz si è circondato.
Le ultime parole pronunciate da Kurz sono emblematiche. "The horror..."
Orrore dell'Africa, orrore per i selvaggi, per il degrado in cui l'hanno trascinato? Forse. Ma soprattutto, orrore di sé.
Stranieri mettono allegria
Non vorrei fare la retorica del meticciato in stile United colors of Benetton, però mi sembra un dato di fatto che gli stranieri mettono allegria, che quando c'è un evento - una festa, una sagra, un concerto - che li riguarda la gente è contenta, sorride, sembra persino più leggera, forse sgravata per qualche istante dal pesante fardello dell'identità. Per fortuna nella mia città, Trento, occasioni del genere ce ne sono parecchie, ad esempio la "Festa dei popoli" che si terrà sabato o il ciclo "La convivenza possibile" presentato oggi.
Si dirà: bella forza, parli di feste, parli di spettacoli (come quello immortalato nella foto qui sopra, era una rivisitazione del mito di Enea, mito fondatore per eccellenza); parlassi di cronaca nera sarebbe diverso. Fotografassi gli spacciatori ai giardinetti della stazione sarebbero facce meno allegre e residenti tanto più incazzati. Vero, il mondo è cosa altamente imperfetta e c'è chi ne dà colpa alla tv, chi a dio e chi agli stranieri. La ricerca del capro espiatorio è meccanismo sovrano.
D'altra parte della società multiculturale mi pare sia facile tanto parlare male (lo fa anche quell'uomo anziano col trapianto di capelli che regala oggetti di valore ad adolescenti napoletane) tanto parlarne bene in un modo che sconfina sgradevolmente nel "buonismo" (degenerazione della bontà, come il caramello è la degenerazione dello zucchero).
Bisognerebbe sottrarsi a questo aut-aut, combinando il rispetto verso chi è portatore di una qualche "diversità" con il bisogno che abbiamo tutti (o che dovremmo avere) di uscire, di tanto in tanto, da noi stessi, dai confini angusti e rassicuranti del nostro io, della nostra comunità, del nostro nido, della nostra Heimat. Bisognerebbe anche volare basso, perché a livelli alti, fra filosofi e teologi, è facile dialogare, il dialogo si blocca (e diventa a volte odio feroce) in basso, nei condomini, nei quartieri, per strada...
Parto dal dato personale, non perchè coltivi il culto della (mia) personalità ma perché su un blog o ci si mette in gioco in prima persona o non vale. Dunque: non frequento sistematicamente i circoli degli stranieri, non per partito preso, almeno. E' vero che uno degli amici più importanti che ho avuto nella mia vita era brasiliano, conosciuto durante la raccolta delle mele, brasiliano vagabondo intellettuale come in un romanzo di Kerouac. Ad essere sincero, però, dopo mezz'ora trascorsa in cima alle scale pelando le mele su in alto fra gli uccelli le foglie i rami spezzati che graffiano gli avambracci mi era chiaro che a) era uno scrittore; b) leggeva gli stessi libri che leggevo io, ascoltava la stessa musica che ascoltavo io ecc. Insomma, diventammo amici perché avevamo delle cose in comune, non perché era straniero, fu la vicinanza ad avvicinarci, non la lontananza.
Già da un caso del genere, comunque, potrei ricavare una regola: in fondo su uno di quei barconi (che poi, l'ossessione per i barconi è tipicamente italica: la maggior parte dei clandestini arrivano dall'Europa orientale, quindi non via mare ma via terra), dicevo su uno di quei natanti di fortuna che oggi respingiamo in Libia potrebbe esserci il mio gemello, il mio doppio, un altro Johny Narciso, insomma, all'epoca arrivato in Europa con visto turistico (dal Brasile su una barca sarebbe stato troppo) e poi entrato in clandestinità, uscendone in seguito solo con la legge Martelli.
La nazionalità, la provvenienza, le radici, non sono tutto: non siamo solo i nostri luoghi, non siamo solo la nostra lingua madre, siamo anche i nostri cammini. Posso avere mille più cose in comune con uno straniero che con il mio vicino di casa, e questo è un fatto.
Pero ho anche detto che a volte c'è questa cosa che si avverte, quando ci sono gli stranieri, quando fanno qualcosa tipo di nulla, qualcosa come suonare uno strumento ballare cucinare una torta per noi. Si sente per il fatto in sé che sono stranieri, che non sono i nossi. Perché quest'elettricità, persino questo buonumore?
Credo che dietro possa esserci un bisogno ancestrale, che abbiamo nelle cellule, che ci spinge verso ciò che è diverso da noi e che quindi non abbiamo, non ci appartiene. E' così dalla notte dei tempi ed è l'altra faccia del campanilismo: gli uomini di una tribù, una famiglia, cercano le loro spose in un'altra tribù, un'altra famiglia. Abbiamo bisogno di mescolare i geni, forse, abbiamo bisogno senz'altro di stringere alleanze.
Sono necessarie alcune regole, questo sì. In genere i vari passaggi vengono codificati. Nondimeno, la spinta esiste. Esiste la spinta all'ospitalità, all'accoglienza. E al dono (Marcel Mauss). Il viandante che viene accolto, invitato in casa, a cui si offre la cena, perché? Per sentirlo parlare. Cos'ha da offrire a sua volta lo straniero, altrimenti che le sue parole? Ma sono parole nuove, sono storie che non conosciamo, ecco perchè ci sediamo attorno al fuoco con lui. Proprio perchè non conosciamo quella lingua, quelle vicende che va narrando, ci sentiamo arricchiti.
Poi non è detto che saremo felici se si tratterrà, la saggezza popolare ha detto tutto con i proverbi e quello della puzza del pesce dell'ospite è ben noto... Ma riconosciamola, vivaddio, questa spinta. Riconosciamo questa sete di conoscenza. Diamogli un valore. E' il nostro lato meno arcigno, ciò che consente di riconoscerci vicendevolmente come membri della razza umana, al di là di tutte le differenze che ci dividono.
Il direttore di un giornale locale, L'Adige, qualche giorno fa scriveva che gli Stati Uniti sono terra multietnica e non multiculturale: il melting pot genera una cultura nuova, una cultura-patria che amalgama e omogeneizza quelle di cui si sono fatti portatori, in epoche diverse, gli immigrati. A me pare in realtà che anche gli Stati Uniti siano (o stiano diventando) una società al tempo stesso multietnica e multiculturale. Del resto, qual è il primo connotato dell'etnia? Non il colore della pelle, non la "razza", ma appunto la cultura. Poi, è vero, esiste una koiné comune, che fa sì che gli italiani, gli irlandesi, gli afroamericani, i latini e così via si sentano anche parte della loro patria, della home of the brave, dell'America first. Però, oggi le minoranze, soprattutto quella latina, tendono a tenersi stretta la loro lingua, le loro usanze. E' un fenomeno con il quale gli americani dovranno imparare a fare i conti.
In Europa tendenzialmente c'è più rispetto per le culture di origine. Avvertiamo che noi stessi, noi europei, siamo un aggregato di diversità e di minoranze. A noi semmai manca la percezione di essere anche europei.
E in Italia? In Italia manca il collante, non c'è un popolo. Prevalgono le appartenenze corte (regionali, comunali) e il familismo amorale. L'amor di patria lo riserviamo a cose minori, secondarie (come il calcio). Rimaniamo strenuamente attacati ai dialetti. Abbiamo un pessimo inno nazionale che non rispecchia affatto la nostra natura, che strilla "stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, Italia chiamò!". Imbarazzante.
No, il friulano di Udine già fatica ad identificarsi con il triestino o il carnico, figurarsi con chi abita a Scampia o a Gioia Tauro. Può essere questa intrinseca debolezza a renderci diffidenti verso gli stranieri? E' possibile, anche se, a conti fatti, dovrebbe essere anche un fattore di permeabilità del nostro sistema sociale.
Suppongo che la mancanza di un'identità nazionale spiccata funzioni in entrambe le direzioni. Suppongo possa renderci più ostili ma anche più tolleranti, a seconda delle circostanze.
Differenze e punti d'incontro. Basterebbe riconoscere che ci muoviamo sempre fra questi due poli. Se non cercassimo le differenze, se non provassimo queste curiosità, rimarremmo bloccati, appagati, immobili, soddisfatti di quello che abbiamo già. Non viaggeremmo, non esploreremmo, non ci muoveremmo oltre le colonne d'Ercole, verso l'ignoto. Non ci apriremmo mai. Ma solo differenza può essere fatale, può annullare la mia di identità, per quanto sfaccettata, multipla essa sia. Ci vogliono anche punti in comune, approdi condivisibili. Mediazione. Rinunce e passi indietro. L'identità integrale, l'identità pura, totalizzante, monocolore, non potrà mai incontrare alcunchè, mai mescolarsi.
Il Dalai Lama ha detto: se una cultura è forte, non ha paura del contatto con le altre. Noi tibetani vogliamo preservare la nostra identità, ma non significa che vogliamo mangiare tsampa (la pietanza nazionale, té misto a burro) tutta la vita!
Alexander Langer diceva (riferendosi alla situazione dell'Alto Adige) che per fare incontrare due gruppi, due comunità, possono essere utili anche i "traditori". Però aveva un'idea molto precisa di che cosa questo significhi, diceva che non devono essere semplicemente persone che passano dall'altra parte, lasciandosi tutto alle spalle. Devono passare dall'altra parte conservando però un'appartenenza.
Mi sembra detto bene. Qualunque sia questa appartenenza, anche soltanto a una fetta di cielo, un ruscello, il profilo di una casa, un giardino, una torta, un vaso. Non necessariamente vistosa, non per forza costume o bandiera. Può essere anche sottile come un capello, nascosta in un luogo profondo come il fondo del mar Caspio.
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CAMERE (appunti)
Camera dei ricordi dell'infanzia
C'era uno spazio terrorizzante fra l'armadio e il muro dove si annidavano i mostri peggiori. Prima di addormentarmi tutte le notti stavo delle mezz'ore girato da quella parte, lo sguardo puntato fisso sullo spazio che era scuro e largo solo pochi centimetri ma io conoscevo la verità su quello spazio, sapevo quello che contenevano le cose buie e strette. Mi era venuto il torcicollo a forza di stare girato.
Camera della zia L.
All'apparenza era una signora anziana paciosa che viveva con una parente pure lei paciosa anziana. Era stata per anni in manicomio, ancora adesso la curavano, ma era tranquilla, parlava trascinando le parole prima una poi l'altra poi ecco che arriva, attenzione! forse a causa degli psicofarmaci. Il suo avambraccio era il triplo del mio. E nella penombra della sua stanza da letto teneva dei fumetti porno. Ogni volta che andavamo a trovarla - non più di una volta all'anno - ad un certo punto dicevo che ero stanco, stanchissimo, anche se erano solo le 9 di sera, e sapevo che mi avrebbero detto: "Allora se proprio non ce la fai vai a buttarti un po' giù in camera della zia".
Io ci andavo, solo che la camera della zia non mi buttava giù, mi tirava su.
Camera dei genitori
Che cosa doveva succedere, lì dentro? Dormivano. Certo. Cos'altro possono fare dei genitori in una stanza da letto? Dormire. Mia madre leggere, prima di addormentarsi.
Il comodino mi terrorizzò per anni. Pensavo di trovarci dentro una lettera di rimprovero, una lettera che lei mi aveva scritto dopo che avevo fatto certe cose, certe cose che l'avevano delusa, oppure solo sorpresa, sorpresa che un figlio potesse lentamente diventare uno sconosciuto, pur continuando a vivere lì. Sapevo che la lettera c'era, l'avevo vista, un giorno, non avevo avuto il coraggio di leggerla. Non me la diede mai, nemmeno lei ebbe il coraggio. Poi feci anche delle cose buone e poi il tempo guarisce il ricordo sbiadisce la testa incanutisce e allora e allora.
Camera tripla della pensione a Rimini
Ci hai dormito assieme ai tuoi genitori a 6 anni, a 7, a 8... A 13 comincia all'improvviso a sembrarti inadeguata.
Camera dell'amore
Erano solo pochi metri quadri fra un cucinotto e un bagno e se poi si fumava si doveva aprire la porta subito. Una volta abbiamo sentito quelli di sopra. Sicuramente loro avranno sentito noi. Il tetto era di perline, sul muro avevamo appeso delle foto scattate da noi. C'erano per mesi le stesse riviste sul comodino, riviste di viaggi perché un giorno pensavamo che ci sarebbe piaciuto viaggiare. In primavera entravano le formiche, d'estate entravano le zanzare, in autunno le foglie secche e d'inverno al mattino a volte bisognava spalare la neve davanti alla porta se si voleva uscire fuori, nel cortiletto stretto fra le case dove sciabolava un raggio a colpire il pupazzo tirato su la sera prima fra i fiocchi e il Sangiovese, con le mani fredde le guance rosse il corpo in festa come se fosse domenica e ridere, ridere!
Camera dei ricordi dell'infanzia subito dopo la laurea
Hai fatto l'esame, hai fatto il pranzo, i brindisi, le foto, hai fatto tutto. Ora è finita. Sei il primo laureato della famiglia. Perchè quello stupido senso di colpa, ora, qui?
Camera dell'hotel tsunami
La sera quando rientravo nella cabana trovavo sempre dei pezzetti di legno e dei ramoscelli ai piedi del letto, non capivo da dove arrivassero, poi ho capito, un uccellino.
La stanza era rotonda, un letto con la zanzariera, un tavolo di legno e un tetto con uno spazio notevole fra il tetto e il muro per fare girare l'aria, il water e la doccia all'aperto, la notte uscivo per pisciare sotto tutte quelle galassie che giravano, poi stavo in silenzio al buio ad ascoltare attraverso la zanzariera le onde che arrivavano, da lontano, dal centro scuro dell'Oceano indiano, con ritmo regolare, con fragore di eserciti, a pochi metri dalla mia cabana e dalle macerie disseminate sulla spiaggia, una dietro l'altra. Mi addormentavo sognando i fantasmi dei morti che si tiravano su dal fondo del mare dalla sabbia dai fanghi, con membra devastate, con anime umide, chiedevano è qui la mia bicicletta, la mia rete da pesca, il varco è qui?
Camera di Ginevra dove ci ho dormito 2 ore prima di andare al Cern
A volte per lavoro succede che arrivi all'hotel all'alba, prendi la tua stanza da 150euro, ci dormi due ore, ti svegli, più stanco e intronato di prima, ti fai la barba e te ne devi andare, perché ti aspettano, perchè le persone importanti con cui viaggi hanno fretta. A volte fai appena in tempo a stropicciare le lenzuola e dare un'occhiata al paesaggio piovoso dei pendolari, fuori, che già s'incolonnano.
Camera a casa di Mana, Merka
Il pomeriggio era troppo caldo per lavorare. Ognuno si chiudeva nella sua stanza. La mia era foderata di piastrelle. Avevo un libro, con me, leggevo la biografia di Doris Lessing. La spiaggia fuori navigava sui 50 gradi, il mare scintillava bolliva il relitto della nave incagliata fumava sulla barriera corallina anche i trafficanti sostavano all'ombra di una palma masticando qat accarezzando i kalashnikov le donne immaginarie preda dei jin. La Somalia, da un capo all'altro della sua costa, era tutta una lunghissima striscia di sabbia affacciata. Sarei rimasto lì per sempre.
Camera dell'ospedale
Dalla finestra vedevo l'insegna di un distributore, gialla e rossa, un palloncino della pubblicità che si agitava nell'aria quando ci passavano sotto i tir. Il profilo delle montagne nere. Masse di palazzi che avanzavano silenziosi nella campagna, in fila per tre, per quattro, sorvegliati dai becchi delle gru. Ad un certo punto ha smesso di parlare, di mangiare. Hanno deciso di dare un letto anche a me, così potevo dormire con lui, e allora sapevo che era finita, quasi finita. Il suo respiro diventò roco, gorgogliante, chiamavo le infermiere perchè aspirassero. Riuscivo anche a dormire, poi mi svegliavo di soprassalto e ancora adesso, che sono lontano da quella stanza, a volte, la notte, nel mio letto, accanto a mia moglie, mi sveglio così, e so che così sarà, fino a che vivrò.
Camera dei ricordi dell'infanzia a cinquant'anni
Ci torni come un profugo, ci torni come il visitatore di un museo, delle gesta di un altro uomo, un'altra famiglia, non è più casa tua. Dormi senza spogliarti, dormi anche da ubriaco, ci piangi dentro, ci ritrovi i tuoi diari del liceo e le medaglie delle gare, gli appunti della tua tesi, le fotocopie ingiallite di libri che erano attualissimi quando li hai fotocopiati. Nessuna stretta oscurità ti può spaventare, ormai. I rumori del mattino che strepita giù in strada solo gli stessi, alla fine, bambini che vanno a scuola e giovedì il mercato, manca solo il rumore dei bidoni dell'immondizia sbatacchiati, rimossi, anche qui è arrivata la differenziata.
Camera della casa in montagna dove trascorrere il Natale con la famiglia e gli amici
C'è quasi tutto quello che serve. Piumone, mobili che profumano di nuovo, i ciocchi che esplodono nella stufa. Il calore conosciuto, cibo di tuo gradimento, figli, amici, deodoranti, riviste, vino e giochi da tavola. Perché, in una mattina così, con il sole che ancora deve fare la sua comparsa dietro la cima dello Hirzer, perché diserti, perché senti il bisogno di uscire da lì sotto, da solo? Che cosa stai cercando, ancora, fra gli aghi di pino, le pigne fradicie? C'è qualcosa che posso fare per te?
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Le vie della censura: nuovo processo a Orhan Pamuk
Riagganciandomi al post precedente, e a quello di Leonardo (che più ci penso più mi fa incazzare), ecco una notizia fresca sullo scrittore turco Orhan Pamuk, che sarà ospite stasera a "Che tempo che fa" (tempismo perfetto, caro Fazio!).
Scrive Repubblica: "La Turchia più profonda, quella dei nazionalisti e dei servizi segreti, burocratica e antieuropea, non molla Orhan Pamuk. Con una sentenza inaspettata, e dunque precisa nella volontà di colpire il bersaglio, la cassazione ha deciso che lo scrittore dovrà essere nuovamente processato per villipendio allo Stato. Il motivo? Villipendio all'identità nazionale, per una frase pronunciata sui massacri armeni compiuti ai tempi dell'Impero Ottomano" (l'ultimo scorcio dell'Impero, in realtà, già sul punto di crollare sotto i colpi infertigli dalla Prima guerra mondiale).
In pratica la colpa di Pamuk (per la quale aveva già subito un processo) sarebbe quella di avere ricordato, in un'intervista rilasciata ad un giornale straniero, che in Turchia sono stati uccisi un milione di armeni e circa trentamila curdi (curdi di cui fino in epoca recentissima la Turchia nemmeno riconosceva l'esistenza, chiamandoli "turchi di montagna").
Le vie della censura sono infinite. Se ad Alemanno dispiace "Romanzo criminale" perchè presenta i malavitosi in maniera "simpatica", ai turchi dispiace il loro più grande scrittore (leggere "Neve" per credere) perchè rivela qualcosa che tutto il mondo già sa e che solamente le autorità turche nella loro ottusità non vogliono ammettere. Mentre al Papa com'è noto non piacciono film come "Il codice Da Vinci", perché descrivono un Vaticano impegnato a tramalciare; mentre ai musulmani non piacque, all'epoca, Salmar Rushdie, perché nei suoi "Versetti satanici" aveva trasformato il profeta Mahmud in "Mahund". Mentre agli italiani non piace il film libico "Il leone del deserto", che racconta le nefandezze compiute dai nostri in Libia, durante il fascismo. E' così via e così via, all'infinito, c'è sempre una qualche autorità pronta a considerare un libro, un film, un quadro, una dichiarazione pubblica "censurabile", perché offende l'onore della patria, perchè è immorale, perché è diseducativa, perché mette delle strane idee in testa ai giovani (anche Socrate venne condannato alla morte - che si autoinflisse - per questo motivo, perché traviava le giovani menti con i suoi ragionamenti sofisticati...).
La libertà di espressione è prima di tutto una difficile conquista, poi qualcosa di difficile da gestire: obbliga ciascuno a sopportare qualcosa, ci obbliga a sorbirci anche le fiction trash, la tv spazzatura e Emilio Fede. E' una responsabilità che i paesi liberi (qualsiasi cosa significhi oggi, specie in Italia) portano per tutti, specie per quelli dove se pronunci una parola di troppo rischi di sparire, è uno sporco mestiere che ci obbliga a venire a patti anche con l'arte contemporanea, quella che espone in galleria mucche squartate e rane crocifisse. Ma non dobbiamo mai, mai dimenticare che all'origine è stata una conquista, qualcosa per la quale qualcuno si è battuto, e quella battaglia ci consente oggi di leggere Henry Miller o di vedere "Ultimo tango a Parigi" senza dover andare in Francia per farlo.
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Il fascino del male (e della censura)
LEONARDO sostiene qui - in maniera al solito autorevole è un po' provocatoria - che Alemanno in fondo non ha torto a dire che certi programmi televisivi, come "Romanzo criminale" hanno delle responsabilità sul piano (dis)educativo, perché la tv è uno strumento potentissimo, perché i giovani e giovanissimi subiscono l'effetto emulazione ecc. L'argomento è: se non fosse così, perché ce la prenderemmo tanto con la tv spazzatura? Ma se ci incazziamo con "Amici" dovremmo farlo anche con prodotti più ben fatti, che sono forse anche più pericolosi.
Premessa: odio la censura. Sono cresciuto in una famiglia che non mi ha mai impedito di vedere nulla, ho visto film pesantini come "Taxi driver" a 12 anni, e male non mi hanno fatto.
Fosse per me, non vieterei nulla a nessuno. Ma detto così è un po' poco.
In verità, a parte il tamarrismo dei protagonisti del serial in questione, "Romanzo criminale" (più che fascino del male verrebbe da dire: fascino degli anni '70), l'argomento mi interessa per tre ragioni (oddio, inizio a scrivere come Scalfari): perché sono un genitore, perché mi ricordo che un ragionamento simile a quello di Leonardo venne fatto anche all'epoca del rogo di "Ultimo tango a Parigi" (a chi chiedeva: perché mandano al rogo un film di Bertolucci e non i porno veri? la censura rispondeva: Bertolucci è più pericoloso, i porno sono porno, uno sa cosa compra, chi va a vedere un film di qualità pensa di comprare qualcosa che è valido di per sé, quindi è alla mercé del messaggio negativo "nobilitato" dall'intento culturale, vero o presunto esso sia). La terza ragione è che a 14 anni mi sono ascoltato a ripetizione canzoni come "Heroin" di Lou Reed (indubbiamente subendone la fascinazione)e mi chiedo: cosa avrebbero dovuto fare i miei genitori, ammesso che avessero gli strumenti per decodificare quella canzone (a partire, banalmente, dall'inglese)? Proibirmela?
Sgombro il campo da ogni equivoco: credo che certe cose possano essere realmente pericolose. Ovvio che lo sono, è la forza dell'arte. Si ha un bel dire che è solo un film, è solo un libro... ma scherziamo? Certi film, certi libri, certe canzoni, ti cambiano la vita. E per fortuna che è così, 'che altrimenti sarebbero solo un passatempo (noioso, perlopiù).
No, i libri sono di sangue, i film sono di carne, su questo non ci piove. Anche se, ovviamente, un conto è farsi cambiare la vita da "Delitto e castigo" o "Sulla strada", un conto da "Romanzo criminale".
L'effetto emulazione: anch'esso esiste, anche se riguarda una minoranza di fruitori. Esiste oggi e c'era quando non avevano inventato la tv: senza andare all'"Edipo Re" basti pensare all'effetto scatenato dai "Dolori del giovane Werhter" di Goethe in mezza Europa...(con grande sorpresa dello stesso Goethe che non voleva certo invitare i giovani romantici al suicidio).
Sì dirà: da un lato abbiamo un capolavoro della letteratura, dall'altro una fiction televisiva. Ma a parte che qualcuno potrebbe sostenere con buone argomentazioni che in fondo non c'è molta differenza (sul piano "sociologico", diciamo, sempre prodotti di largo consumo sono...), è chiaro che oggi non c'è solo qualità versus largo consumo, cultura alta versus cultura bassa, è tutto mescolato, i confini scompaiono...
Prendiamo "Pulp Fiction" e "Natural born killers"; sono 2 dei film più amati degli anni '90; sono film spettacolari, sono prodotti di cassetta, ma sono anche film sofisticati, di grandi registi, unanimemente incensati dalla critica (lo stesso non si può dire di "Romanzo criminale"). Entrambi hanno scatenato effetti di emulazione. Mi pare lo scriva anche Saviano che certi malavitosi hanno cominciato a parlare e a comportarsi in un certo modo dopo avere visto in azione Travolta (o Marlon Brando ne "Il padrino").
Forse quei film erano vietati ai minori, non ricordo (del resto i mafiosi non sono minori, minorati, forse...). Comunque, oggi come oggi per un ragazzino vedere delle cose proibite è ancora più facile che ai miei tempi basta che se le scarichi.
La questione allora è tutta qui. La questione è "cosa fare". Distruggere film, libri e video "pericolosi"? Metterli sotto chiave? Uccidere per essi, come si racconta ne Il nome della rosa di Eco?
Ricordo una proposta fatta anni fa da Gianni Rivera, non quando era il capitano del Milan ma quando era deputato (forse lo è ancora, non so...): censurare le canzoni che parlano di droga, sesso e così via. Negli Usa mettono l'avviso sulle custodie dei cd: "Linguaggio esplicito" ecc. Un po' come i film "vietati ai minori". Sì, può sembrare una cosa formalmente ragionevole. Una maniera soft per regolamentare l'accesso. Lo chiedo di nuovo. Serve? E' utile? Nell'era dei P2P? No, in realtà non è ragionevole, è ridicolo, demenziale.
C'è un discorso specifico che vale per la tv pubblica. Una possibilità è dire che la tv pubblica è solo e soltanto una tv che si propone fini educativi: la si riempie di tg (ammesso che educhino), "programmi dell'accesso" (ve li ricordate?) e di documentari ben fatti, e la si lascia languire.
Oppure si accetta che essa navighi nel mare magnum dell'infotainment...e nel frattempo si cerca di "attrezzare" i proprio figli (nelle due ore che dedichiamo loro al giorno, se va bene, come dice giustamente Leonardo) affinché possano vedere anche un certo tipo di cose in maniera consapevole, "critica". Lo so, non è facile, e in parte contraddico quello che dicevo prima sulla forza insita in certe opere (forza che non tutti percepiscono, ovviamente: bisogna anche essere predisposti): ma in fondo è quello che ci spiegavano all'epoca anche i nostri insegnanti, erano gli anni '70 ed eravamo bambini pure noi. Non è che parlassero della forma, questo no, per fortuna non erano decostruzionisti, non si limitavano a dirci "è tutto finto", non sarebbe servito. Entravano nel merito, ci affondavano dentro entrambe le mani nella materia. E questo serviva, sì, secondo me serviva eccome. Serviva anche per guardare "La montagna sacra" o "Arancia meccanica", per ascoltare "Heroin", e continuare a farlo senza necessariamente farsi le pere.
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Un esercizio di stile
Si rese conto all'improvviso di quanto gli assomigliasse. Aveva sempre pensato di no, aveva sempre pensato di essere diverso da lui, come il giorno dalla notte.
Ad esempio, quanto fosse refrattario alle grandi brigate, all'intruppamento, alle gerarchie. E ad occupare un posto in quelle gerarchie. Doveva essere un fattore ereditario. Doveva aver ereditato la tendenza ad essere un outsider, a trovare difetti anche nelle persone che gli erano più vicine, allo scontrarsi con loro senza motivo. Un meccanismo di difesa, per sfuggire ad abbracci che la sua pelle avrebbe letto come mortali, per gettare dalle mani persino quel po' di potere che gli altri, consensualmente, gli avrebbero conferito.
Una natura schiva e solitaria, in definitiva, mascherata da chiacchiere e allegria. Ma anche, doveva ammetterlo, la capacità di tenere su un discorso, il bisogno "fisico" di non mettere le persone in imbarazzo, quella forma estremamente sottile di gentilezza, di premura, che spesso per sua sfortuna coincideva con una perdita di carisma.
E poi la sua acuta sensibilità riguardo ai complimenti, alla considerazione altrui. La necessità di essere apprezzato, poi forse anche amato ma per prima cosa apprezzato e ammirato, perché queste cose non presuppongono un ruolo attivo, si può essere apprezzati e ammirati in quanto oggetti, dopotutto, si può essere ammirati e apprezzati da lontano.
Anche questo l'aveva ereditato da lui, come aveva fatto a non accorgersene prima? Doveva essere stato cieco.
E gli scatti d'ira, e i giochi di parole, e il bisogno di trovare conferme nelle donne unito all'indecisione di fondo, la tendenza a tergiversare, a preferire il momento che precede, lo stare sulla soglia, i preliminari all'atto, in definitiva la fantasia alla realtà. Sì, per tutte queste cose erano simili, ed erano simili per molte altre ancora, quasi uguali, anche se i dettagli differivano, ovviamente, il tono della voce o i vestiti o la musica o i regali o le preferenze alimentari...
Posò la fotografia sul ripiano di vetro. Suonarono alla porta.
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Life along the borderline - il tributo di John Cale a Nico
E' un teatro, quello comunale di Ferrara, a ospitare la data italiana di "Life along the borderline - a Tribute to Nico", non una tourné, meno che mai lo show di una tribute band, piuttosto una reunion di amici, che si ritrovano assieme occasionalmente, sotto l'attenta regia di John Cale, per portare un doveroso omaggio a Nico, (al secolo Christa Päffgen), cantante, attrice e superstar di Andy Warhol, voce dei Velvet Undeground nel loro primo album, uno dei lavori più seminali della storia del rock.
Stucchi e velluti, dunque, nel cuore della pianura, per accogliere degnamente una serata d'eccezione, andata presto sold out, che ha visto riunite personalità d'eccezione quali, oltre ovviamente a Cale, co-fondatore dei Velvet Underground e produttore di alcuni lavori di Nico fra cui il gelido, abissale "The marble index" del 1968, Peter Murphy, frontman dei Bauhaus, Mark Lanegan (Screming Trees, Queens of the Stone Age, The Gutter Twins) Lisa Gerrard (Dead Can Dance), Mark Linkous (Sparklehorse), i Mercury Rev, la giovanissima cantante austriaca Soap&Skin, ed ancora, il Quartetto d'Archi dell'orchestra di Ferrara (Gianluigi Cavallari, Cristina Alberti, Florinda Ravagnani, Valentina Migliozzi) e i coristi della Scuola di Musica moderna sempre di Ferrara (Stefania Chiari, Eleonora Mota, Viviana Corrieri, Rossella Graziani).
Quando si spengono le luci credo nessuno sappia bene cosa aspettarsi, né i giovani rocker, attirati dalla leggenda di Nico (scomparsa, lo ricordiamo, a Ibiza nel 1988, al termine di un'esistenza travagliata), né i vecchi punk, alcuni con bambini al seguito, che erano ragazzini quando la cantante già navigava lontano dai riflettori del music business, nel mare oscuro della tossicodipendenza, nel cuore delle algide, desolate visioni che materializzava con la sua voce inconfondibilmente teutonica e il suo harmonium. Molta della produzione di Nico, in effetti, è difficilmente classificabile come "rock": più vicina semmai al mondo gotico del Nibelungenlied e alla musica contemporanea, marchiata a fuoco dallo stigma della disperazione. In più, quando lo show è andato in scena, qui e là in Inghilterra, soprattutto, non sono mancate le critiche, da quanti hanno trovato sul palco troppe percussioni e troppo alt.rock e troppo poca Nico (ma avrebbe senso oggi ripercorrere pedissequamente le lande spazzate dal vento di Desertshore, avrebbe senso intonare nello stesso modo di allora Deutschland uber alles? Avrebbe senso ripercorrere i fasti della Factory sulle note di I'll be your mirror o Femmes fatale?).
Comunque sia, quando John Cale - l'allievo di La Monte Young, che venne dirottato da Lou Reed sulle strade del rock al suo arrivo a New York dal natio Galles (e il resto è leggenda) - quando Cale, dicevamo, intona al pianoforte il primo brano della serata, Frozen Warning, è già chiaro che assisteremo ad un evento indimenticabile. L'uomo è in forma smagliante, il gruppo che lo accompagna - e che fornirà il supporto sonoro anche agli altri cantanti - gira alla perfezione: alle percussioni Michael Jerome Moore e al basso e tastiere Joseph Karnes, alla chitarra c'è Dustin Boyer, a cesellare ogni brano con una perizia mai dissociata dalla misura ("non siamo qui per ascoltare assoli", avrebbe chiosato Dylan).
Entra in scena Murphy, carismatico, istrionico, gran mattatore, fa piovere petali di rosa sugli altri musicisti, gli ultimi se l'infila in bocca, reclina la testa e li soffia fuori: Mutterlei è uno dei momenti più alti del concerto. Soap e Skin (sapone e pelle) sbuca da dietro le quinte e si siede al pianoforte: piccola, pallida Nico reincarcata, la sua My heart is empty è forse la cosa più vicina al "vero" sound di Nico che sentiremo in questa serata. Suonato l'ultimo accordo fugge via senza nemmeno aspettare l'applauso, sostituita da Mark Linkous che, con l'accompagnamento del coro, esegue una trascinante You forgot to answer, torturandosi le mani. Lisa Gerrard è in abito lungo, gigioneggia come una diva dell'Opera a bordo palco mentre esegue Falconer; Mark Lanegan è timido, dinoccolato, canta ad occhi chiusi una dolorosa Roses in the snow. Vengono poi i Mercury rev che eseguono assieme a Cale (e con l'aiuto di una sega) My only child, e poi ancora Peter Murphy con Janitor of lunacy, che chiude la prima parte dello spettacolo.
Fosse finita qui, saremmo già gratificati. Ma c'è la seconda parte, in cui ascoltiamo Tananore (Soap e skin), Abschied (Murphy), Afraid (OLinkous), No one is there (Gerrard), Sixty Forty (Cale), Win a few (Lanegan), Evening of Light (Mercury Rev) e Facing the Wind (Cale).
Infine, tutti sul palco ad intonare All that is my own, che vorremmo non finisse mai.
Your winding winds stood so
All that is my own
Where land and water meet
Where on my soul I sit upon my bed
Your ways have led me to bleed
Perché questa non è una festa, non può esserlo, il fantasma di Nico non lo consentirebbe, ma non è nemmeno una celebrazione, come forse qualcuno temeva, né un requiem tardivo, né un dolciastro remembering. Le canzoni, anche quelle più severe, più distanti, più gelidamente "altre", acquistano nel tributo di John Cale e soci nuovo calore, rivelandosi splendide, tormentate composizioni pop senza tempo, da suonare in all tomorrow's parties, per sempre, e sempre e sempre. La neve si tinge di rosso, il dolore si scioglie nell'abbraccio del pubblico, nella gioia, persino, che trapela dallo sguardo di John Cale, degli ex-Velvet quello che le fu più vicino, senza alcun dubbio; la modella nata fra le macerie della Germania post-bellica, l'attrice che recitò ne "La dolce di vita" di Fellini,la musa e compagna di Alain Delon, Bob Dylan, Lou Reed, Jim Morrison e quant'altri, la madre innocente e crudele di Ari (presunto figlio di Delon, da lui mai riconosciuto), la disperata chanteuse che trasformò persino la The end dei Doors in una specie di Lieder dark trova finalmente la sua giusta collocazione nell'empireo del rock.
Ricordo di Beniamino Andreatta
Ieri a Trento si è commemorato Beniamino Andreatta (1928-2007, ma gli ultimi anni, dal 1999 alla morte, molto tristemente li passò in coma). Economista, politico di spessore tra le fila della sinistra DC, più volte ministro, Andreatta è una di quelle figure che non devono necessariamente appartenere alla personale mitologia di ciascuno ma che nondimeno esercitano un fascino profondo, dovuto forse a quel rigore morale richiamato nella quarta di copertina del libro che gli ha dedicato un altro Andreatta, Giampaolo ("Nino Andreatta e il 'suo' Trentino", edizioni Il Margine). Fu un uomo di un'altra generazione, nel vero senso della parola. Un uomo che aveva visto la guerra e la Resistenza. Un uomo di studi classici all'epoca in cui gli studi classici erano veramente classici (cioé anche elitari), la sua prosa giovanile così ottocentesca, così "borghese", evoca un'Italia alla quale ancora erano estranee la beat generation e la scuola di Francoforte, i testi di Dylan, l'arte Pop, i fumetti, tutte le cose, insomma, che avrebbero scosso il nostro paese (e la provincialissima Trento) dal '68 in poi. L'estrazione sociale è inequivocabile (scriveva, da ragazzo, del "bisogno da molti di noi provato di un contatto con il mondo oscuro, elementare, del proletariato..."). Ma in fondo anche Bruno Kessler era di origini proletarie e trovò in lui un amico e collaboratore prezioso, negli anni della scrittura del piano urbanistico di Trento (piano, pianificazione, parole che evocavano il "socialismo"...) e della nascita dell'università, una grande sfida per il Trentino, una sfida coraggiosa, voluta da Kessler, Andreatta e pochi altri...
Andreatta è stato ricordato ieri da molti, fra gli altri da Enrico Letta e Romano Prodi. Devo dire che la giornata, iniziata con una messa celebrata alla badia di San Lorenzo, mi sembrava avviarsi su binari un po' troppo iperbolici (nell'omelia mons. Rogger ha suggerito addirittura, se ho capito bene, che fosse Cristo una delle sue fonti di ispirazione: credo che un politico e un intellettuale mal sopporti simili accostamenti, un politico non è un santo).
Tuttavia nel pomeriggio si sono sentite parole importanti. Fra tutte mi piace ricordare quelle di Giovanni Bazoli, che brevemente elenco:
attenzione: Andreatta aveva una speciale attenzione a che i processi non degenerassero...tutti i processi di modernizzazione...dalla globalizzazione alle migrazioni internazionali... (leggiamo oggi che i clandestini raccolti dall'Italia sono stati spediti nelle fauci di Gheddafi, leggiamo che in Lombardia sui mezzi pubblici vogliono istituire carrozze per soli Lumbàrd; se non è degenerazione questa!);
laicità: lui, credente, cattolico fino al midollo, la considerava un valore irrinunciabile, sulla scia di De Gasperi, anche al fine di evitare che in Italia si formasse un "blocco laico" (oggi si direbbe laicista, usando un'espressione che personalmente non amo);
costituzione: Andreatta, sulla scia di Dossetti,si batteva per una strenua difesa dei valori costituzionali e metteva in guardia contro l'elezione diretta del premier. "Vogliamo un cancelliere, non un leader che si comporti come un 'dittatore' per cinque anni";
stato e mercato: credeva nell'economia di mercato e nella meritocrazia (mai capito perché quest'ultima parola fosse tanto invisa alla sinistra, quando di fatto evoca un concetto democraticissimo, anzi, un vero e proprio valore etico, come lo considerava Andreatta). Ma credeva anche nel ruolo di regolatore dello stato, del fine ultimo di creare benessere per tutta la società. Insomma, un keynesiano, come qualsiasi persona ragionevole e non dogmatica.
distinzione fra potere politico ed economico: la considerava più rilevante della stessa separazione dei poteri di Montesquieu.
L'hanno descritto anche come un lavoratore instancabile, e io personalmente penso che chi non sa abbandonarsi anche all'ozio meditativo, all'estasi del viaggiare, alla convivialità si perde qualcosa. Ma poi chi lo sa com'è una persona veramente, bisognerebbe partire dalle sue rinunce per capirla sul serio, soprattutto se parliamo con un uomo che doveva avere un senso del dovere altissimo...
Qui un bell'articolo di Edmondo Berselli pubblicato dopo la morte di Andreatta.
Erano "non combattenti"
ANSA) - KABUL, 6 MAG - Oltre cento ''non combattenti'' sono rimasti uccisi nei raid aerei statunitensi in Afghanistan occidentale. Lo ha detto la polizia locale.
"Non combattenti" è il nuovo modo di chiamare i civili?
"Non combattenti" è il nuovo modo di chiamare i civili?
Mozambico, Ualalapi
Mozambico, tramonto dietro all'acacia, il cantiere del nuovo ponte sul fiume Zambesi, a Caia. Quasi un anno fa. Quel viaggiare per lavoro, attraversando le cose come vento, quel bruciare in poche ore migliaia di chilometri, febbrilmente, il contrario della lentezza.
Alexander Langer predicava: bisogna essere più lenti, più dolci, più profondi. Probabilmente neanche lui ci riusciva, con tutti i suoi impegni, nessun politico può permetterselo.
Lo Zambesi al tramonto, luce radente su cemento armato e acquitrini, scorrere lento di acqua e tempo, il battito della palpebra di un coccodrillo. Dormito nel villaggio del cantiere, chiuso, recintato, guardie ai cancelli, falene grandi come pipistrelli nei cerchi di luce, assaggiato per una notte quel tipo di esistenza, c'era un tizio che avevo conosciuto che da piccolo aveva vissuto così, aveva trascorso un paio d'anni in Nigeria, al seguito del padre. Com'è la Nigeria? gli avevo chiesto. Aveva risposto: cantiere.
Stasera Fiorella Mannoia nel suo concerto si collegherà con Caia, un altro ponte, invisibile, teso fra l'Italia e quella scheggia di Africa rurale, non è così strano, dopotutto, non più strano degli sms e delle mail che mi sono abituato a scagliare da un punto all'altro del mondo, a volte per niente, solo per dire: "Sono qua."
La Mannoia nella sua intervista diceva le solite cose sull'Occidente e l'Africa, sui nostri aiuti interessati, sul neocolonialismo. Diceva che in Mozambico è stato commesso "il più grande Olocausto", chissà cosa intendeva dire. Sull'Africa tutti si sentono autorizzati a dire la loro, in buona o cattiva fede, usando termini come "Olocausto" che non appartengono alle culture africane, bantu o swahili, in questo caso...
In realtà fu - anche - un paese di grandi guerrieri, come Ngungunhane, il "leone di Gaza", che i portoghesi fecero morire in esilio, alle Azzorre, le cui gesta sono raccontate in un libro sconosciuto e densissimo, come l'incubo da cui mi sono svegliato piangendo, stamattina, l'incubo di mio padre morto, l'incubo di me, di noi che lo seppellivamo, che nascondevamo il suo corpo, sottoterra, in un deserto, che era poi il suo letto, il suo letto matrimoniale, colpevolezza, senso di colpa irrisolto...
Il libro è Ualalapi, di Ungulani Ba Ka Khosa, Aiep editore, 2004 (collana curata da Eleonora Forlani, il romanzo è tradotto dal portoghese da Vincenzo Barca).
- Qual è il significato del sogno?
- Il leone ruggisce nella foresta, Maguigane.
- E le donne, Mabuiau, le donne?
Lo stesso dialogo, le parole di sempre. I gesti di tutti i giorni.
Maguigane si sveglia di soprassalto. Volge ripetutamente lo sguardo intorno. Non vede serpenti. Vede filamenti di luce cadere al suolo. Si solleva sui gomiti. Vede il suo corpo fatto a brandelli dalla luce.
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The real great complotto - Pordenone
Ma il vero Great complotto fu quello ordito a Pordenone alla fine degli anni '70 da alcune band del proto-punk italiano. Risposta alla grande truffa del RnR dei Sex Pistols (anche se a Pordenone non c'erano un Malcom Mc Laren e una Vivienne Westwood), replica, con il motto "Yes Pordenone", al "No New York" (seminale Lp prodotto da Brian Eno), fu un segnale lanciato dai kids della provincia, quelli che non avevano nemmeno un centro sociale a portata di mano per dare sfogo alla loro creatività&alienazione...
C'era, in alcuni - in me tantissimo - una grande fascinazione per le METROPOLI, un'insofferenza verso le piccole città, le città del ricco nord italiano, relativamente pacifiche, anche ben amministrate, ma al tempo stesso lente, sonnolente, ovvie e reazionarie nella loro dimensione estetica prima ancora che in quella politica...dove il massimo dell'alternativo era essere tardo-hippy, mentre noi leggevamo che altrove c'era il punk, la new wave, il dark, gli Psichic Tv e le Slits...
Come ricorda uno degli esponenti del complotto, all'epoca c'erano solo 3 città in Italia che sembravano tirarsi fuori dal grigiore: Milano, Bologna e Pordenone.
Del Great complotto ne parlarono anche i media, musicali e non (da "Rockstar" a "Mr. Fantasy"...). Per filiazione da quel movimento sono nati alcuni gruppi che girano ancora, come Tre allegri ragazzi morti.
Qualche traccia è rimasta in internet. Un sito.
Qualche video, molto naives, a vederlo ora.
Gli iniziatori sono stati questi, ovviamente...l'idea primigenia del punk, che non occorresse saper suonare per suonare...
Mai stato a Pordenone, alla fine. E neanche a New York.
C'era, in alcuni - in me tantissimo - una grande fascinazione per le METROPOLI, un'insofferenza verso le piccole città, le città del ricco nord italiano, relativamente pacifiche, anche ben amministrate, ma al tempo stesso lente, sonnolente, ovvie e reazionarie nella loro dimensione estetica prima ancora che in quella politica...dove il massimo dell'alternativo era essere tardo-hippy, mentre noi leggevamo che altrove c'era il punk, la new wave, il dark, gli Psichic Tv e le Slits...
Come ricorda uno degli esponenti del complotto, all'epoca c'erano solo 3 città in Italia che sembravano tirarsi fuori dal grigiore: Milano, Bologna e Pordenone.
Del Great complotto ne parlarono anche i media, musicali e non (da "Rockstar" a "Mr. Fantasy"...). Per filiazione da quel movimento sono nati alcuni gruppi che girano ancora, come Tre allegri ragazzi morti.
Qualche traccia è rimasta in internet. Un sito.
Qualche video, molto naives, a vederlo ora.
Gli iniziatori sono stati questi, ovviamente...l'idea primigenia del punk, che non occorresse saper suonare per suonare...
Mai stato a Pordenone, alla fine. E neanche a New York.
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The great complotto
Compagne che si ravvedono ovvero...The Great Complotto!
Compagna che ha sbagliato e s'è ravveduta, Veronica è viva e lotta insieme a noi e ne siam lieti (avessimo avuto lei anziché zio Walter, mannaggia...).
Ma io preferisco ancora questa. E' senza voce, dicono i maligni. Ed è precisamente questo il lato fantastico della sua voce :-)
Poi in internet ho trovato questo titolo: G8 di Hokkaido: in Giappone le mogli dei Premier. Ma non Veronica Lario e Carla Bruni ed è un'invito a nozze per le congetture. Vuoi vedere che anche Carla, fra poco... Cioè, voglio dire, non è che è tutto un piano segreto, un great complotto? Far sposare a quelli di destra delle strafighe che poi sul più bello gli si rivoltano contro e li mollano? Come quelle spie dormienti russe che dopo trent'anni arrivava la telefonata dal Cremlino e loro erano belle che adagiate nella tranquillità della loro vita occidentalborghese e improvvisamente si risvegliavano e si mettevano a tramare?
Ma io preferisco ancora questa. E' senza voce, dicono i maligni. Ed è precisamente questo il lato fantastico della sua voce :-)
Poi in internet ho trovato questo titolo: G8 di Hokkaido: in Giappone le mogli dei Premier. Ma non Veronica Lario e Carla Bruni ed è un'invito a nozze per le congetture. Vuoi vedere che anche Carla, fra poco... Cioè, voglio dire, non è che è tutto un piano segreto, un great complotto? Far sposare a quelli di destra delle strafighe che poi sul più bello gli si rivoltano contro e li mollano? Come quelle spie dormienti russe che dopo trent'anni arrivava la telefonata dal Cremlino e loro erano belle che adagiate nella tranquillità della loro vita occidentalborghese e improvvisamente si risvegliavano e si mettevano a tramare?
Sloi, la fabbrica degli invisibili
Ieri sono stato alla prima proiezione pubblica del film "Sloi, la fabbrica degli invisibili", di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi. Racconta la storia di questa fabbrica nata durante il fascismo, a ridosso della Seconda guerra mondiale, per la produzione di piombo tetraetile (un additivo della benzina super), gestita anche dopo la fine della guerra da un ex-fascista, amico di Starace, e chiusa finalmente nel 1978, dopo avere avvelenato centinaia - forse migliaia, non ci sono a tutt'oggi statistiche attendibili - di operai oltre al terreno sulla quale sorgeva, ancora da bonificare.
Un pezzo della storia industriale non solo del Trentino ma di tutto il nostro Paese, uno squarcio su un pezzo di realtà alpina lontana dalla retorica della natura incontaminata e degli Schuetzen, delle mucche al pascolo e dell'eccellenza delle "piccole patrie". Trento e Bolzano furono, per precisa scelta politica, insediamenti industriali importanti, collocati strategicamente lungo l'asse del Brennero e a ridosso del mondo tedesco (a Bolzano furono anche al servizio di un processo di italianizzazione forzata del territorio). Portarono lavoro in una regione dalla quale si emigrava, questo sì: ma a volte ad un prezzo altissimo.
Del resto, Stava ce lo ha già insegnato che le genti di montagna non hanno necessariamente degli speciali "sensori" per captare i rischi ambientali, per quanti sforzi facciano, per quante antenne drizzino; anche perché non vivono isolate dal contesto globale. E dopotutto, prima o poi si dovrà pur quantificare l'avvelenamento dei suoli ( e delle persone) generato dall'agricoltura intensiva...
Ma il film racconta anche la formazione e poi il lento disfacimento di una cultura operaia, il dissolversi della way of life fordista (fatta di spirito di corpo, di club e gite aziendali, insomma del paternalismo cone antidoto alla lotta di classe) sotto la spinta della crescente domanda di mercato, racconta l'assenza della politica (soprattutto democristiana, in questo caso) pur se messa di fronte all'evidenza di una realtà produttiva fortemente nociva, racconta la natura del profitto per ciò che è, puro istinto predatorio. Racconta anche gli aspetti oscuri ma non incomprensibili, il fatto che ci fosse consapevolezza del rischio, anche nei lavoratori, e di come quel rischio venisse monetizzato (pare comunque che il turn over fosse altissimo). Racconta infine le tragedie private delle famiglie, gli intossicati rinchiusi in manicomio, e questo in una terra di matrice cattolica, in una terra che fra le prime ha adottato il cooperativismo. Nella Trento del '68, della protesta studentesca.
Oggi i capannoni della Sloi danno asilo agli immigrati che arrivano in città e non sanno dove andare. Sono uno spettrale set cinematografico, temo non ancora un monito.
Questa la scheda del film.
SLOI, LA FABBRICA DEGLI INVISIBILI
di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi
Sloi. La fabbrica degli invisibili è prodotto dal Gruppo culturale Uct in collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento, la Fondazione Museo Storico del Trentino, la Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, Format e Consiglio Regionale del Trentino Alto Adige e realizzato dalla Krmovie di Trento.
Il film documentario, intende ripercorrere le tappe della storia della fabbrica Sloi di Trento, dalla sua nascita negli anni del Fascismo fino alla sua drammatica chiusura, avvenuta nel 1978 in seguito all’esplosione di un incendio che avrebbe potuto contaminare l’intera città. La Sloi nasce come fabbrica di guerra nel 1940 per la produzione di piombo tetraetile, il liquido da miscelare come antidetonante alla benzina, necessario prima all’aviazione di tutto l’Asse di Ferro, poi negli anni del boom economico. La Sloi è una grande opportunità per una città che si sta trasformando da rurale a industriale: crea lavoro e benessere. Ma il piombo tetraetile è una sostanza altamente nociva, che provoca sintomi simili a quelli dell’alcolismo, i quali innescano un processo fatale che dalla follia conduce alla morte. La Sloi, con le sue migliaia di intossicati e decine di morti è stata il simbolo di un sistema economico che, ancora oggi, in infiniti luoghi del mondo, baratta la vita con il denaro.
Il documentario della durata di 52 minuti intende mettere in luce, attraverso le testimonianze dirette di alcuni degli ex operai della Sloi e di alcuni tra i protagonisti coinvolti nella storia della fabbrica, gli aspetti di una storia che non è dipinta di bianchi o di neri, ma di sfumature di grigio dove vita, sofferenza e morte si incrociano in un luogo unico e allo stesso tempo emblematico dell’eterno compromesso umano tra potere e accettazione.
Le riprese hanno avuto luogo all’interno dell’area dismessa della fabbrica e all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana.
Il documentario contiene anche una parte evocativa interpretata dall’attore Klaus Saccardo.
La troupe creativa e tecnica del documentario si è in parte creata grazie al workshop Raccontare l'avventura della scorsa edizione del TrentoFilmfestival.
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Lentamente muore chi lavora
Oggi Primo maggio, si parla di lavoro, speriamo che il nostro premier non si senta in dovere di farsi vivo anche al Concerto, ora che ci ha preso gusto a uscire dal seminato, oggi Primo maggio, festa del lavoro, una vecchia canzone di Claudio Lolli nella testa, per esempio, in cui pubblico e privato si mescolavano (in una stagione ormai lontana in cui si rifletteva anche di questo)
Primo maggio di festa oggi nel Vietnam
e forse in tutto il mondo,
primo maggio di morte oggi a casa mia
ma forse mi confondo...
Si potrebbe parlare di Thyssenkrupp, di morti da lavoro, si potrebbe parlare della Sloi di Trento, bubbone chimico nel cuore della città fino al 1978, che uccise e fece impazzire tanti lavoratori, e in cui si sfiorò una nuova Seveso...
Ma io che son figlio di operai so bene che queste cose un conto è se le vivi sulla tua pelle un conto è se te le raccontano; e quindi eviterò la tentazione dell'operetta morale. Non che di lavoro non si muoia anche adesso, ma inutile negarlo, per molti di noi, noi lavoratori di computer, scrivanie, giornali, intelletto, è un altro tipo di morte, non acciaio fuso che ti cola addosso, non volare da un traliccio, non il piombo tetraetile che si deposita nelle parti molli, non la pressa che schiaccia e nemmeno uscire di strada con l'autotreno. E' un altro morire e anche un altro vivere, sempre alla ricerca di un compromesso, certo, questo sì, di una mediazione, come il compromesso faticosamente cercato, da sempre, dalle città con le loro fabbriche inquinanti, le fabbriche che portano macchie blu, fumi e cancro ma anche lavoro, benessere, sviluppo, salari.
Noi oggi si muore un po' di noia un po' di ambizioni frustrate, di troppa cultura macinata all'università e poi scontratasi con un mondo che non sa che farsene, si muore a volte persino di intelligenza, di voglia di fare, ma si muore lentamente, e fa meno male, e provoca meno dolore alle famiglie, anzi, a volte anche gioia, la gioia della busta paga e della malattia pagata (quando la pagano).
Così si muore e un po' si vive cercando il compromesso fra il cambiamento climatico ormai provato e la necessità di rilanciare la nostra industria dell'automobile, fra il pacifismo e le commesse di autoblindo o nuovi cacciabombardieri che danno respiro alla nostra siderurgia, si muore anche di troppe ore passate a fare i lavori inutili o quasi creati dall'informatica, di timbrature e mobbing, di stages e precariato, un modo più gentile di uccidere rispetto a quello che adoperavano i padroni delle ferriere ai tempi loro, nevvero.
Si muore e un po' si vive e un po' si muore ma si vive, si vive, si vive di slides, files, stringhe, siringhe, e un po' si muore di innovazione, competizione, qualità totale, e un po' si muore di welfare, fondi d'investimento, private equities, parole inglesi, e si vive o si muore o si muore o si muore e mi confondo, si muore di password e si vive di jpg, si muore via mail e si vive online, si muore di troppo monitoraggio e poco companatico, si muore di pixel e si vive come cartoons, e si muore virtualmente e si vive freneticamente, e si vive sui portali e si muore anche nei carnevali, e mi confondo, si vive e mi confondo, si vive scaricando, chattando, moderando, transitando, si muore scollegando, impallando, si muore disconnessi, si muore comunque e sempre come dei fessi.
Poi tanto si rinasce un po' ogni mattina, per timbrare cartellini, affrontare frotte di studenti affamati di notorietà granfratellesca, oziosità burocratiche, capi, vicecapi, sottoposti, orari da conciliare, autobus e metropolitane e giornali che stridono, gomme, ucccelli, bit, paracarri, assorbenti, oroscopi, ferieopèp0ibnklfvi
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