UN’EPIFANIA

Le bambine giocano, usando il sedile dell'altalena come un tavolo. Sono inginocchiate per terra, sono entrambe vestite di rosa. Due bambine più grandi stanno andato in bicicletta, passano dal parco alla strada e dalla strada al parco, finché una mamma non le richiama, devono rimanere nel parco dove c'è tanto spazio, non vuole che vadano in strada.
È sabato pomeriggio, l'ora dei padri. Sta leggendo il saggio di un filosofo indiano sul dialogo fra le religioni, seduto su una panchina. Più cresce il fondamentalismo più le persone di buona volontà si sforzano di trovare una strada per il dialogo, di usare le religioni per pacificare i conflitti anziché farli deflagrare. Le bambine canticchiano sullo sfondo cose senza senso come "ha fatto la cacca nel pisello", e ridono. Fra qualche anno si vergogneranno a fare queste cose davanti ai loro genitori, pensa, per ora no, il padre è il bene più grande, talmente grande e incondizionato che ci si può dimenticare della sua benevola presenza, si può fare come se non ci sia pur sapendo che c'è. Si può non temere il suo giudizio.
E con questo pensiero improvviso interrompe la sua lettura (tanto non riesce ad andare avanti comunque); interrompe la sua lettura continuando a seguire il filo dei suoi pensieri, l’esile filo mosso dalla brezza che spira sul parco, pensando all'essenza di dio, adesso, il dio del libro, anzi dei libri, il dio degli eserciti, il dio creatore, il dio che dà un nome alle cose. E per un istante gli sembra si sia come aperto un varco, lì fra l'altalena e la sabbiera, che gli permette di raggiungere - o forse solo di intravvedere - un piccolo nocciolo di verità, nel momento esatto, nel momento immobile del pomeriggio di fine ottobre, mentre le panchine lentamente si riempiono e una mamma giovane sta litigando con un signore anziano a proposito di un cane. Il dio migliore, il dio assoluto, il dio più compiuto, l'essenza stessa dell'amore, non è il dio dal quale ci si deve nascondere perché si è rubato un frutto da un albero. Non è il dio che ci fa vergognare della nostra nudità, non è nemmeno il dio che ci costringe a morire in esilio perché abbiamo formulato un pensiero meschino, un pensiero puerile, un pensiero squallido. E certamente non è il dio che ci punisce perché mostriamo i nostri capelli o mangiamo un pezzo dell'animale sbagliato. Il dio perfetto è quello che percepiamo, senza imbarazzo, tutto intorno a noi, è il dio dal quale ci sentiamo avvolti e protetti ma non giudicati, il dio di fronte al quale non ci vergogniamo di parlare con la bocca piena, raccontare barzellette sconce, fare la doccia, sudare e scopare. L'unico dio che vale la pena di pregare è il dio dell'infinita accettazione, che ci ama per quello che siamo anziché odiarci per quello che non siamo.

(da La calda notte degli avatar, raccolta in faticosa gestazione)

I feel so...



lonely.
But smart.

Brothers (and sisters)



C'è qualcosa di oscuro che mi attrae in una canzone così, in una way of life come questa, "Brothers and sisters", ovvero sentirsi parte di un gruppo, una comunità, avere persone che puoi chiamare "fratello" o "sorella" anche se sei figlio unico.
Tutto il gran discutere che si fa attorno al tema dell'identità - la riscoperta del territorio, delle radici, giù giù fino alle nevrosi leghiste, alla falsificazione pura, all'invenzione di tradizioni inesistenti (dal dio Po a miss Padania) - va a parare qui, alla fine. Il bisogno di sentirsi parte di qualcosa di più grande, l'inconsistenza dell'individuo in quanto tale.
30 anni fa la risposta sarebbe stata: coscienza di classe. Oggi: etnia, territorio, campanile. L'identità incardinata al suolo, al luogo in cui hai avuto l'avventura di nascere.

La mia domanda è: davvero la mia identità è determinata dalle mie origini? E' tutto lì? I miei fratelli e sorelle sono tutti gli abitanti con i quali condivido lo spazio geografico in cui vivo e lavoro, e dove pago le tasse?
Ho sempre trovato questa tesi inaccettabile.
E se a me i cori di montagna non piacciono, né gli Schutzen? Se mi piacciono questi negri, invece, questi Urban Species? Se non mi commuovo quando sfilano gli alpini in parata? Eppure amo la mia terra, credo di sì. Amo il paesaggio, amo la luce obliqua che colpisce i versanti delle vallate e le superfici delle case, ad una certa ora del giorno. Amo persino gli svincoli dell'autostrada, i quartieri senza grazia degli anni '60, non vorrei vivere a Pienza, non vorrei vivere in una città-museo, amo queste cose qui, marciapiedi e insegne al neon.

Ripeto, basta questo per sentirsi parte di una comunità? Oppure l'identità è una scelta, è l'insieme dei miei cammini, dei miei percorsi, non (solo) dei miei luoghi?
Io voglio scegliere, certo. Musica americana, letteratura tedesca, cucina cinese, studi di africanistica, perché no?
Edoardo Bennato - il cantautore - aveva già liquidato questa faccenda molti anni fa, ricordo perfettamente l'intervista che lessi su "Ciao 2001", per me vale quanto tutti i testi di antropologia che ho letto in seguito: "Mi dicevano di portare avanti la tradizione, la musica napoletana, ma se io al mattino quando mi svegliavo sentivo le canzoni di Little Richards e J.L. Lewis quella era la mia tradizione, non gli stornelli."

Arte e apartheid


L'apartheid in Sud Africa è finito, com'è noto, non con un bagno di sangue (come profetizzavano certi "corvi neri"), ma con la Commissione Verità e riconciliazione, tentativo unico di metabolizzare una grande lacerazione storica attraverso un esame di coscienza collettivo.
Tuttavia il mondo forse non ha riflettuto abbastanza sullo "scandalo" dell'apartheid, tanto più che questo sistema di governo prese corpo alla fine degli anni '40, ovvero subito dopo la sconfitta del nazifascismo, che si basava in primo luogo su un'ideologia razzista.
Per questo segnalo volentieri questa mostra del Mart di Rovereto, di un artista sudafricano, Kendell Geers.

Dal 31 ottobre 2009 al 17 gennaio 2010 il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto presenta la mostra “Irrespektiv” dell’artista Kendell Geers, nato in Sud Africa e da sempre impegnato in una riflessione profonda e personale sul tema della segregazione razziale.
A cura di Jérôme Sans, “Irrespektiv” è una coproduzione europea, che associa musei e istituzioni artistiche del Belgio, dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia. Il titolo, una parodia del termine “retrospettiva”, esprime immediatamente il tono della mostra e la pone all’insegna dell’impegno politico e della provocazione. Geers è stato attivo in prima linea nella denuncia delle follie dell’apartheid, ed è giunto a modificare la propria data nascita, per farla coincidere con il maggio 1968. Un rimando al maggio francese che dà il senso della consacrazione all’impegno politico e sociale dell’artista.

Con i suoi lavori, Kendell Geers esplora i limiti e i confini geografici, linguistici, politici, sociali, sessuali e psicologici dell’uomo. L’artista rivendica, infatti, la necessità di prendere posizione rispetto al mondo in cui viviamo. Da questo atteggiamento critico – che evita però ogni visione manichea della realtà – nasce un’arte impegnata, che coinvolge totalmente l’artista a livello personale, e trascina il pubblico all’interno dell’opera, rendendolo a tutti gli effetti un elemento della creazione artistica. Le stesse reazioni ed emozioni del visitatore, spaesamento, attrazione o rifiuto, sono parte costitutiva delle opere di Kendell Geers.
Al Mart, il visitatore potrà sperimentare tutto ciò su di sé a partire dall’opera che introdurrà la mostra. L’installazione “POSTPUNKPAGANPOP” (2008), un inedito assoluto per l’Italia, consiste in un labirinto circondato di uno speciale filo spinato, inventato dalle forze di polizia sudafricane con lo scopo di infliggere più danni di un comune filo spinato.

Non è consentito limitarsi ad “ammirare” l’opera, ma è necessario interagire con l’opera: il visitatore deve scegliere da che parte andare. Il “labirinto” ha due diverse uscite: una porta al resto della mostra, l’altra conduce fuori, verso il contesto rassicurante della collezione permanente del Mart. In questa come in altre installazioni, l’inferno dell’Apartheid in Sud Africa affiora in modo ossessivo, ma Kendell Geers non si propone di raccontare né spiegare, quanto piuttosto di coinvolgere e di far rivivere al visitatore la propria condizione esistenziale. La critica di Geers al sistema dell’Apartheid è implacabile proprio perché è espressa da chi l’ha vissuta in prima persona: l’artista riversa sul suo lavoro e le sue opere tutta la paranoia, l’ambiguità, la violenza e l’ipocrisia proprie della piccola borghesia bianca sudafricana di quell’epoca. Allo stesso tempo, oltre alla provocazione, è presente in queste opere anche un importante elemento di ironia e distacco, perché l’artista non mira a imporre le proprie opinioni personali, ma invita l’osservatore a riflettere sulle proprie scelte.

Dopo essere stata presentata in Belgio (Kendell Geers vive e lavora a Bruxelles) con due progetti complementari allo SMAK di Gand e al BPS 22 di Charleroi, in Inghilterra al BALTIC Centre for Contemporary Art di Newcastle e al Musée d'art contemporain di Lione, la mostra si conclude in Italia, al Mart, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento. In ognuna delle sedi l’artista ha ripensato il progetto, rendendo ogni esposizione diversa e originale rispetto alle altre.

Il catalogo, edito da Bom Publisher di Barcellona, presenta gli interventi di Warren Siebrits, Jérôme Sans, Paulo Herkenhoff, Christine Macel, Rudi Laermans e Liveven de Cauter.

Come scomparire del tutto

Il Giappone per noi resta sempre la terra più esotica, quella dove succedono le cose più strane, dove guerrieri invincibili si autoinfliggono la morte per spada, dove piloti suicidi si scagliano con i loro "Zero" sulle portaerei nemiche, dove i comportamenti sessuali sono più estremi, dove giovani internauti si barricano nelle loro camerette e chiudono i contatti (reali, fisici), con il resto del mondo, dove si può persino "evaporare".
Cito dal sito di Ludik: "In Giappone, a quanto pare, migliaia di persone decidono di scomparire per costruirsi una nuova vita e chiudere con un passato difficile. Li chiamano, appunto, 'evaporati'.(...). Di solito i clienti degli evaporatori sono celibi, degli impiegati modello, appartenenti alla classe media, ma ci sono anche persone che fuggono con tutta la famiglia. In Giappone le famiglie degli evaporati non hanno nessun aiuto. Queste realtà è accettata da tutti, è un dato di fatto. La legge riconosce a una persona adulta il 'diritto di scomparire'. Anche se perde tutti i diritti civili: non avrà diritto all'assistenza sanitaria, mentre i suoi figli non avranno diritto alla scuola. Evaporare. Sparire."
Sia come sia, è vero che nella società globale, dove il mezzo è diventato il messaggio e il mezzo siamo noi e il messaggio l'abbiamo scordato, disconettersi, sparire, chiudere i blog, chiudere facebook, chiudere con le carte di credito che hanno sostituito i documenti da esibire alle frontiere, chiudere con i reality, gettare le pile in un fosso, chiudere persino con il lavoro per inseguire il fato di un personaggio di Pirandello o Fernando Pessoa o Simenon rappresenta l'estremo gesto di ribellione, il sogno notturno inconfessabile, la fuga definitiva e forse la condanna più dura che il moderno samurai può riservare a se stesso.
Qualche giorno fa un olandese è morto dalle parti di San Michele all'Adige, nelle campagne, hanno scritto, nei boschi, ma che boschi, che campagne? Un pezzo di valle tagliato in due da un'autostrada, un panorama di vigneti e aziende agricole, capannoni e musei del vino, nulla che possa ricordare in qualche modo "Into the Wild". Aveva molti soldi con sé, pare 30.000 euro. I cacciatori l'avevano visto aggirarsi, coperto di foglie, parlava inglese, non si sa cosa ci facesse lì, in quella campagna ibrida, assolutamente urbana, lontano da casa ma molto molto vicino a un qualunque supermercato. E' morto di stenti, di consunzione, forse per una caduta, non ancora per il freddo, era lucido, pare non assumesse droghe, l'hanno trovato nel vigneto, morte in un vigneto, un olandese sconosciuto, senza legami né missioni da compiere, morto in un non-luogo rurale. Aveva decido anche lui di scomparire completamente?
E poi, c'è chi scompare non per scelta consapevole ma per dato di fatto, la donna di ottantotto anni che hanno trovato ieri dopo una settimana, ad esempio, morta in casa sua, un genere diverso di scomparsa, di disconnessione, non aveva un indirizzo e-mail, non chattava, non aveva né un parente in vita né un avatar, quindi era già scomparsa, scomparsa nel condominio di una piccola città fra i monti, lo dico senza retorica, tutti abbiamo una vicina di casa anziana che non conosciamo, mi interessa la scomparsa, non l'indifferenza alla scomparsa, mi interessa how to disappear completely.

"Non c'è salvezza per i solitari. Il Libro non dice che siano beatificati" (J.L. Herlihy)

Una delle foto più fighe che mi abbiano scattato



Ovviamente perché mi si vede poco.
Autore il solito Romano Magrone. Circa 2006, Sri Lanka o India...

a letter to elise - macchine fluide



Questa canzone...
Ma non è onesto postare solo delle canzoni, servirsi del lavoro degli altri. Così, ecco un breve passaggio dal mio romanzo "Macchine fluide", segnalato al Premio Calvino 1997, mai pubblicato, of course.

Entra la signora Asimova. È sdraiata sul letto, al buio, ancora vestita. La bambina dorme sdraiata accanto a lei. Solleva una gamba. Resta così per qualche istante. La gamba tremola come la fiamma di una candela.
"Se solo riuscissi ad essere più sicura di me. Più sicura di me! Mi dico: è forse questa la felicità di cui si sussurra con tanta segretezza? Perché quando parlo con qualcuno, d'improvviso, senza ragione, una gelatina fredda, schifosa, m'invade sottopelle, e allora non riesco più a dire nulla, nulla che non sia qualcosa di poco intelligente? Eppure, non c'è motivo di pensare che io sia poco intelligente.
Guardo gli altri, li osservo da lontano, senza che se ne accorgano, li osservo mentre stanno tra loro, mentre si accalorano per futili ragioni, qui come a Mosca, o perfino nella casa di campagna dei miei nonni, dove andavamo a trascorrere le vacanze estive, appena sposati...ci andremo più? I mattoni rossi, le scandole, il gallo sul tetto. Li guardo e non mi sembrano infelici, mi sembrano infelici solo quando un avvenimento inaspettato li colpisce, quando li passa da parte a parte, ma dura un istante, mentre la mia infelicità è un'ombra che non mi lascia mai.
Se solo potessi, se solo riuscissi ad essere più sicura di me. Più sicura di me! Allora sì che la vita sarebbe una passeggiata in primavera, per un sentiero che costeggia un ruscello. Se non pensassi, ogni volta, se non pensassi: ecco che faccio la figura della stupida. Ecco che parlo a sproposito, e mio marito mi incoraggia, vuole forse che io sembri stupida? Fa così per ottenere l'amicizia solidale degli altri uomini? Comprensione per una scelta avventata, aver sposato una sempliciotta? Lui, scrittore, lui compagno professore!
Credo che dovrei essere più sicura di me. Che dovrei provare. E se non ci riuscissi? Penso che, per cominciare potrei almeno rilassarmi. Potrei farlo una mezz'ora al giorno. Sarebbe già qualcosa. Un piccolo passo in avanti. Rilassarmi mezz'ora al giorno. Forse dovrei provare con lo yoga".

Somalia






Qualche foto che ho scattato in Somalia (Merka, regione del Basso Scebeli), ormai un po' di tempo fa.

Nanni Moretti - Bianca



Nanni Moretti è uscito abbondantemente dal cliché del regista generazionale.
Ho rivisto "Bianca" ieri sera. Splendido. Sì, sul finale paga un pegno alla sua generazione, evidentemente (nel monologo delle scarpe, da cui si deraglia al Portogallo della Rivoluzione dei Garofani). Ma in fin dei conti, una scena come questa non andrebbe altrettanto bene oggi? C'è tutto: fa ridere, se vuoi ridere. E' un fotogramma lucido e persino spietato della solitudine, se vuoi fare sul serio (il protagonista del film, l'insegnante ipermoralista che uccide i coniugi che tradiscono e le coppie che "scoppiano" è fondamentalmente solo, solo come il De Niro di "Taxi Driver", no?).
Il film resta memorabile per la scena del barattolone di Nutella. Ma contiene tante altre cose. La nevrosi per le cose che cambiano, ad esempio. La presa in giro del nuovismo a tutti i costi. E poi, Moretti come sempre eccelle nel satireggiare su ciò che meglio conosce, i luoghi comuni della sinistra. Mi piacerebbe tanto, ma tanto che si scatenasse contro Ascanio Celestini, come accade qui!!!!

Riva del Garda Blogfest

All the pretty family...
(nel mio caso, proprio la family al gran completo).

Il nobel per la letteratura a Herta Muller


Il nobel alla letteratura è stato assegnato a Herta Muller, di cui avevamo parlato qualche mese fa in questo blog, suggestionati dalla lettura del suo "Il paese delle prugne verdi", edito dall'editore Keller di Rovereto (Tn).

Riporto qui il lancio Ansa. Proprio oggi, e riguardo a un precedente post sul tema, ho ricevuto una mail che confuta in parte sia quanto raccontato dalla Muller riguardo alla dittatura di Ceausescu in Romania sia quello che ricordavo io del mio viaggio in Transilvania del lontano 1986. Bene, credo che la scrittura della Muller sia effettivamente molto interessante, una scrittura assieme lirica e asciutta, inizialmente difficile da decifrare, di certo non banale. La descrizione che dà della Romania di quegli anni è impressionante: ma non dico questo perché amo il romanzo "impegnato", l'arte "di denuncia". Credo che l'unico impegno di uno scrittore consista nel dire bene ciò che deve essere detto. Ed in questo mi pare che lei si sia rivelata all'altezza del compito (perlomeno in quel libro).
Riguardo a Ceausescu, penso che ogni dittatura abbia molte facce: fra le tante, ve ne possono essere anche alcune accattivanti. Conosco rumeni i quali oggi dicono che "si stava meglio quando si stava peggio". Io stesso ero stato colpito da alcune cose che avevo visto (o forse solo sentito dire) in Romania, ad esempio riguardo all'assenza di criminalità (vera o presunta essa fosse, e non parliamo qui della criminalità politica). I ragazzi rumeni che ho conosciuto erano molto colti e conoscevano la letteratura occidentale anche meglio di noi. Non so bene dove la trovassero visto che io nelle librerie avevo visto solo libri di propaganda politica, ma evidentemente c'erano (o si studiavano). Comunque, è vero ciò che sostiene questa persona, probabilmente: le dittature non cadono per la letteratura ma per la fame. O forse cadono semplicemente perché il mondo le lascia cadere, e ciò non riguarda solo le dittature, ma anche la nostra Prima Repubblica pentapartitica.
Infine sulle analogie con Berlusconi: sì, è vero, noi italiani (alcuni di noi italiani) parliamo con troppa facilità di analogie fra il regime berlusconiano e le dittature "vere". Ciononostante, devo anche dire che le parole che ieri Berlusconi ha usato nei confronti del presidente della Repubblica e della Consulta io non le ho mai sentite prima. E mi inquietano un po'.

Ecco breve ritratto e motivazioni del nobel a Herta Muller.

Nata nel 1953 a Nitzkydorf nel Banato Svevo, regione di cultura e lingua tedesca passata dopo la seconda guerra sotto il controllo della Romania, ha studiato letteratura tedesca e romena a Timisoara, legata a un gruppo di scrittori e poeti romeno-tedeschi (l'Aktionssgruppe Banat di cui facevano parte Richard Wagner - con cui si e' sposata e trasferita in Germania nel 1987 - Nikolaus Bergwanger, Rolf Bossert, Franz Hodjak) che praticava la letteratura come opposizione culturale al regime di Ceausescu.

Pubblico' il suo primo libro, 'Niederungen', a Bucarest nel 1982 e gli altri dopo il suo arrivo in Germania, dove ha vinto nel 1994 il Premio Kleist, nel 2003 (a pari merito con altri due autori) il Joseph Breitbach e l'anno dopo il Konrad Adenauer. Nelle sue opere ha rappresentato, puntando molto sullo stile e la scrittura gli aspetti piu' crudi del suo ambiente (la miseria e l'arretratezza culturale della minoranza tedesca del Banato) e della situazione politico-sociale della Romania, con un riferimento particolare alla condizione delle donne.

In italiano esiste il romanzo ''Il paese delle prugne verdi'' edito da Keller (vedi in proposito anche il blog di Carlo Martinelli) e il suo racconto ''Una mosca attraversa un bosco dimezzato'' nell'antologia ''Fuoricampo'' di scritti di autrici austriache e tedesche, edito da Avagliano. (ANSA)

Ma queste sono quattro righe di maniera che hanno tutti i siti, oggi. Come scrive veramente Herta Muller? Com'è la sua Romania? Ecco un brano da "Il paese delle prugne verdi" (trad. Alessandra Henke, Keller edizioni).

Kurt veniva in città ogni settimana. Era ingegnere in un mattatoio. Si trovava al margine di un paese, non lontano dalla città. La città sorge troppo vicino per abitare in paese, disse Kurt. Gli autobus viaggiano in direzione opposta. Al mattino, quando devo trasferirmi in paese per lavoro, un autobus esce dal paese verso la città. Di pomeriggio, dopo il lavoro, un autobus si dirige dalla città verso il paese. Ciò ha una sua ragione, non vogliono che nel mattatoio lavorino persone che possono viaggiare in città. Vogliono gente del paese, che lo abbandoni raramente. Quando giungono i nuovi arrivati, diventano rapidamente complici. A loro occorrono pochi giorni per tacere come gli altri e bere sangue caldo. Kurt controllava dodici operai. Collocavano tubi di riscaldamento nell'area del mattatoio. Kurt era raffreddato da tre settimane. Ogni settimana dicevo: devi rimanere a letto. Gli operai sono intasati quanto me e non rimangono a letto, diceva lui. Quando manco non fanno niente e rubano tutto.
(...) Poi disse: i bambini della scuola di Georg non vogliono saperne nulla della fabbrica e del parquet dei loro genitori e dei fischietti dei loro nonni. Dalle assi ricavano pistole e armi. Vogliono diventare poliziotti e ufficiali.
Quando al mattino vado al mattatoio, i bambini in paese vanno a scuola, disse Kurt. Non hanno né un quaderno né un libro, solo un pezzo di gesso. Così disegnano pareti e recinti pieni di cuori. Sono solo cuori intrecciati l'uno all'altro. Cuori di manzo e di maiale, che altro. Questi bambini sono già complici. La sera, quando ricevono i baci, sentono che i loro padri bevono sangue e vogliono andare là.

OLD STAR

Sotto un cielo ancora parzialmente sereno fece il suo ingresso on stage, salutato da uno scroscio di applausi come acqua in una fontana. Un tempo ci sarebbe stato un boato, un ruggito, l'energia compatta, quasi solida, dal prato verso il palco, lo spostamento d'aria di una bomba quando esplode, l'impatto di un treno merci lanciato a tutta velocità contro un monolite di basalto indistruttibile.
Un tempo così si visualizzava, come un monolite di basalto, l'aiutava a reggere la tensione dei primi minuti, quando il pubblico ai suoi piedi iniziava a saltare o a sbandare, e poteva accadere a volte che una ragazza finisse sotto o la schiacciassero contro le transenne (i roadies dovevano essere veloci a strapparla da lì e metterla al sicuro).
Ci fu anche una stagione in cui tiravano le molotov, la stagione della contestazione in cui, in Europa, incendiarono il palco ad un'altra rockstar, a lui non era dispiaciuto perché odiava quel coglione, ma quando, a Roma, si era visto arrivare i sassi e le bottiglie di vetro dal mare nero di giubbotti di pelle aveva avuto paura e da allora l'inquietudine gli era rimasta. “Basalto nero”, così gli sussurrava il manager all'orecchio, aveva capito che con "roccia" non funzionava, basalto nero, come il coach al pugile seduto nell’angolo, in attesa del prossimo round. Per molti anni la sensazione era stata amplificata dalle droghe, si piantava nel centro del palco davanti all'asta del microfono con la chitarra imbracciata e non si muoveva più per due ore, non concedeva nulla alla scena, non ballava, non si agitava, era diventato il suo tratto distintivo (tutto ciò nella sua età matura, ovviamente), il pubblico l'aveva seguito, aveva imparato ad amare quell'immobilità magnetica, mentre la musica mugghiava tutt'attorno, elettrica, caos controllato e condensato in tre accordi.
Il profilo della città era molto cambiato da allora. C'erano stati i due 11 settembre, quello del 2001, con il quale erano sparite le Torri, e poi quello del 2014, che aveva cancellato il Chrisler e una dozzina di altri grattacieli. Da allora New York non si era più ripresa. Nonostante la Guerra finale, nonostante i programmi di ripopolamento, l'esodo non si era fermato. Nei due anni successivi al secondo attacco la Grande mela aveva perso metà dei suoi abitanti. Il grosso del giro di affari si era trasferito altrove e adesso Manhattan assomigliava un po' di più alla città che lui aveva conosciuto da ragazzo, un luogo losco e vivace, popolato di personaggi deliziosamente squilibrati, di predatori e prede, di gente alla ricerca di qualsivoglia opportunità.
Ma era solo un'impressione. Ad un livello più profondo, sotto la superficie della decadenza scintillante, che generava sempre nuovi eventi e nuove forme d'arte, i suoi occhi esercitati riuscivano a cogliere le reali linee di frattura, il degrado senza rimedio. Anche quel festival, in fondo, rappresentava una risposta debole. Certo, aveva attirato lì 200.000 giovani. Ma se ne sarebbero andati - quasi tutti - non appena l'ultima nota fosse stata suonata. Chi attirava oggi la città? Sbandati, avventurieri, gente che non aveva nulla da perdere. Molti erano anziani, vedovi o donne separate, gente della sua età.
Guardò il bassista alla sua sinistra. Di lui si fidava. Da anni ormai poteva suonare solo con le cuffie e anche così il suono della chitarra gli arrivava ovattato. E quello della band era solo un fragore sullo sfondo, un temporale che saliva e scendeva. Del bassista però si fidava. Riconosceva le note che pizzicava sulle quattro corde del suo strumento dalla posizione delle dita. Era il migliore del gruppo. Assieme avevano suonato di tutto, i pezzi aspri e malvagi degli esordi, le canzoni sull'eroina e sul sadomasochismo, che avevano destato tanto scandalo subendo i colpi gloriosi della censura, che avevano fatto schizzare la sua popolarità alle stelle; poi il periodo orchestrale, quando i testi erano diventati sardonici e allusivi, pervasi da un cupo umorismo gay; quindi i successi dell'età matura, solide composizioni che riassumevano il senso di una carriera e di una vita che nessuno avrebbe immaginato così lunga, nemmeno lui stesso; e ora la produzione recente, quella rarefatta, poetica, venata di malinconia, vero specchio della metropoli e dei suoi abitanti, fotografia del cambiamento e della caduta, su cui si riflettevano gli splendori del passato.
Guardò il pubblico sul prato. Molti passeggiavano, si baciavano, facevano la fila alle fontane. Credevano di conoscerlo, credevano di sapere tutto di lui, perché la sua carriera era stata un diario pubblico, un continuo mettersi a nudo. E invece non sapevano del suo mal di schiena, della scortesia di uno, all’hotel, che evidentemente non l’aveva riconosciuto o non aveva proprio idea di chi fosse. Non sapevano nulla del diventare vecchi, della difficoltà di ricordare i testi delle canzoni.
Sotto al palco, in religiosa attesa, c'erano non più di un paio di migliaia di persone. I fedelissimi, fra cui anche qualche amico d'infanzia con il quale aveva ascoltato Presley, i Drifters e i grandi tenori, quando nel Bronx ci vivevano ancora tanti italiani. Altri ne sarebbero arrivati quando avrebbe attaccato il suo brano più famoso, considerato il vero inno cittadino, il capolavoro letterario-musicale popolato di travestiti e papponi, di spacciatori e puttane, che alla sua uscita aveva fatto gridare al miracolo, la sintesi neorealista di una vita spesa all'ombra dei grattacieli, nelle strade raccontate da Delmore Schwarz e James Leo Herlihy e Don De Lillo e Tama Janowitz e Rick Moody. Ora al posto di quelle ombre c'erano buchi, voragini, cantieri.
Qualcosa tremò sulla sua guancia. Si chiese se a metà concerto avrebbe avuto bisogno di sedersi. La mano cadde pesantemente sullo strumento, facendo esplodere un re maggiore. Uccelli volarono via nel cielo ancora parzialmente sereno.
Si sentì vivo, dopotutto. Un monolite di basalto, nero, indistruttibile, altissimo, si vedeva proprio così, altissimo, dall'alto dei suoi ottant'anni.

Vorrei uscire stasera, ma non ho uno straccio da mettermi...



Alla metà degli anni '70 sui palchi italiani volavano molotov (e lacrimogeni fra il pubblico).
Nel '77 nei pub dove nasceva il punk volavano bottiglie di birra.
Nel 1983 sul palco degli Smiths volavano gladioli appassiti.

Morrissey era tutto, fuorché la banalità espressiva.
E se c'è qualcuno che dice ancora che negli anni '80 non c'era buona musica, si ciucci il suo biberon indie-rock.

E questa è una delle canzone più dolcemente, amorevolmente decadenti che siano mai state scritte.

Freshlyground: Africa in movimento



Ho visto l'altra sera in concerto questo gruppo, i Freshlyground. Si tratta di una band sudafricana (con componenti anche da Zimbabwe e Mozambico), molto famosa in Africa (e con vari concerti all'attivo in Europa). Il tutto nell'ambito della manifestazione "Sulle rotte del mondo". La musica era il pop africano che abbiamo imparato a conoscere almeno dai tempi di Johnny Clegg e della lotta all'apartheid anche attraverso la musica.
Pop africano, quindi afro-beat saltellante, con venature soul e blues e sonorità più specificamente locali, che emergono soprattutto nei cori, nelle voci. Ma questi sono tecnicismi. Musica che trasmette gioia, ecco, e io solitamente questa musica l'assumo col contagocce. Musica positiva suonata da gente che - sia detto senza alcuna tentazione lombrosiana - lo si vede subito che è "bella", che sta dalla parte giusta, che non potrebbe mai mescolarsi ai duri di cuore, agli avidi, ai meschini, ai razzisti.

In quanto alla manifestazione in sé, durata una settimana, troppi spunti per tentare anche solo di condensarli.
Vorrei ricordare però almeno due passaggi dell'intervento di Jean Leonard Touadi, noto giornalista congolese, primo parlamentare italiano proveniente dall'Africa sub-sahariana. Il primo è tragico: "Il fondo del mar Mediterraneo in questi anni è diventato la tomba di 14.000 migranti, che con i loro corpi stanno costruendo lo spazio euro-africano."
Il secondo riguarda l'incontro fra le culture (un dato che esiste da che esiste la storia dell'umanità, in effetti...). Per Touadi esso è ben sintetizzato dalla scuola coloniale, che, "come aveva intuito l'anziano protagonista del romanzo L'ambigua avventura di Cheikh Hamidou Kane, ha reso la conquista dell'Africa perenne, perché ha conquistato le menti" (ci si riferisce qui a quella scuola che insegnava ad esempio agli africani delle colonie francesi che i loro antenati erano i Galli e i loro fiumi la Senna e la Loira).
Ma la conclusione di Touadi non è passatista: il punto non è che bisognava rifiutare quella scuola, che le culture africane precoloniali erano una sorta di Eden meraviglioso, o che sia possibile oggi rinchiudersi nella propria diversità (vera o presunta essa sia), tornare al passato, "sganciarsi" (come direbbe Samir Amin). Oggi siamo tutti necessariamente "personalità in bilico", noi e gli africani. Siamo tutti un po' di questo e un po' di quello. Sospesi fra culture diverse, nell'oceano della globalizzazione. Bisogna prenderne atto e far sì che questo meticciato dia frutti buoni.
Touadi però è ben cosciente che le posizoni di forza hanno la loro importanza, che è diverso per noi "essere anche un po' africani" (ad esempio grazie alla musica) o per un africano voler essere "un po' europeo". Le posizioni di partenza sono diverse, così come sono diverse le opportunità. "Man mano che studiavo, mi accorgevo che mi allontanavo da mia nonna", ha detto ad esempio Touadi. E quando la distanza diventa troppo grande, è più difficile essere "il lievito dentro il pane", anche se sei un noto intellettuale. E', questa, la condizione di molti africani che si sono staccati dal villaggio, dalla famiglia, dal clan. Difficile oggi per loro, specie se hanno vissuto a lungo in Europa, tornare ai loro paesi per essere il lievito delle comunità di origine, che pure ne avrebbero bisogno.
Forse, come diceva Langer, è importante sì "tradire" le proprie radici, per andare verso l'altro, per esporsi all'altro, alla differenza, al nuovo; ma bisogna conservare anche un'appartenenza, non semplicemente "passare dall'altra parte".

Questo non significa che le migrazioni non producano effetti positivi. Lo ha detto ad esempio Maria De Lourdes Jesus, giornalista di Capo Verde, che anni fa conduceva sulla Rai "Nonsolonero", prima trasmissione in Italia sull'argomento. "L'arcipelago di Capo Verde non ha nulla, è nella fascia del Sahel, non ha risorse naturali, non ha acqua. Poteva contare solo sulle sue risorse umane. Così Capo Verde ha fondato il suo sviluppo sull'emigrazione."
E sviluppo, in effetti, a suo giudizio c'è stato, qualsiasi cosa significhi questa parola, come mi sento spesso in dovere di chiosare.
Ricorda un po' l'Italia, tutto questo. Ricorda un po' anche il Trentino.

(Foto: R. Magrone)