IL NIENTE CHE CI MANCA (Gianni Celati)


In aereo venendo da Dakar ci hanno fatto vedere un documentario turistico sul Senegal. Si vedevano i mercati variopinti, le solite venditrici, i soliti carretti tirati da asini, i soliti villaggi nella savana, i cormorani, i pellicani. Era il documentario dei posti dove siamo stati noi. Jean, semiserio, ha detto: "Siamo stati dentro a un documentario turistico..."
Sì, però, sbarcati in Europa, anche qui è come essere in un documentario perpetuo, dove vedi tutto pulito, ordinato, levigato, glossy, flashing, rifatto a nuovo, neanche uno scarto troppo vistoso, una macchina troppo squinternata, una persona veramente sdentata, un vestito davvero fuori moda, un negozio che sia rimasto come cinque anni fa, una vetrina con libri che non siano novità assolute. Andiamo in giro per Parigi e vediamo solo quest'altro documentario del nuovo totale, senza più niente di precario, di povero, di decaduto, rimediato, tarlato dal vento, scartato dal destino.
E' il documentario della simulazione globale, senza luogo, senza scampo, che ci mostrano a titolo pubblicitario notte e giorno, dietro lo schermo di vetro che abbiamo in dotazione per vivere da queste parti. ma poi si sa che quando uno è lasciato dietro un vetro, tende a sentire che gli manca qualcosa, anche se ha tutto e non gli manca niente, e questa mancanza di niente forse conta qualcosa, perché uno potrebbe anche accorgersi di non avere bisogno davvero di niente, tranne del niente che gli manca davvero, del niente che non si può comprare, del niente che non corrisponde a niente, il niente del cielo e dell'universo, o il niente che hanno gli altri che non hanno niente.

Gianni Celati, Avventure in Africa (2000)

foto: casa in Kenya (Marco Pontoni)

UN RACCONTO PSICHICO

Quando, dopo aver confuso il fungo di San Serapione con una specie mangereccia, Antonio cadde da cavallo, il suo spirito si staccò dal corpo e cominciò a volare.

Dapprincipio i suoi movimenti erano incerti. Ma presto acquistò sicurezza, salendo con le correnti ascensionali, fino a raggiungere le cime dei monti. E pensò stupefatto di non averli mai visti così, dall’alto.
Fin dove arrivava il suo sguardo, regnavano oscurità e quiete. Le api dormivano nei loro alveari e lo stesso facevano i pesci nelle plumbee profondità dei laghi. Solo il pipistrello e l’upupa scortavano il viaggio dello spirito quando, incuriosito da una falesia, un pozzo o un capitello diroccato planava verso il basso aprendo sue braccia eteree di spirito.

Di là da uno sperone roccioso la luna fece all’improvviso la sua comparsa. E Antonio, alla vista di casa, che quella pallida luminosità faceva risaltare nel centro del pascolo, fu preso da un’emozione che in vita sua non ricordava di avere provato mai. La luce alla finestra della cucina era ancora accesa, come lui l’aveva lasciata quando, dopo cena (il fungo stava iniziando a fare effetto), si era deciso per una passeggiata al piccolo trotto fino alla casa del curato, che aveva letto più cose nei suoi libri di quante Antonio non fosse mai riuscito a decifrare nel groviglio delle radici di un albero secolare o nella perfezione geometrica di un favo.
Una volta che Antonio si era trattenuto a cena quell’uomo di chiesa tormentato, al quale era toccata in sorte una parrocchia di montagna lontana dalla vivacità dei grandi centri abitati, gli aveva raccontato della secessione delle donne, che dagli storici viene giudicata una leggenda priva di fondamento.
“Dunque – aveva detto il prete – successe che le donne di questa regione, che si sentivano oltraggiate dagli uomini, lasciarono le loro case per ritirarsi da sole sui monti. Qui impararono a nutrirsi di erbe e frutti spontanei, e a coltivare l’arte della caccia. Naturalmente non per tutte fu così facile, perché gli uomini si credevano spogliati dei loro diritti su mogli e figlie, e molte furono catturate mentre cercavano di allontanarsi dalle loro abitazioni. Tuttavia quelle che riuscirono a scappare impararono a parlare la lingua degli alberi, che è la più facile a intendersi, come ben sai anche tu, Antonio, anche se non ammetteresti mai di conoscerla. E poi via via quella dei graniti, dei quarzi, quella vezzosa delle dolomie. Per ultima avevano imparato la lingua degli agenti atmosferici, che è una e priva di dialetti.
Allora cominciarono a costruire gli altari dei loro protettori, e abbandonarono la dieta carnivora, così che tutti gli animali le avvicinavano senza timore. È possibile che oggi quelle comunità si siano estinte naturalmente: sto parlando di quelle che non furono distrutte dagli uomini durante la guerra. Ma non mi sorprenderei se i cittadini avessero nascosto le prove della loro eventuale sopravvivenza, magari in forme imbastardite. E Dio solo sa che i cittadini hanno la testa piena di buone invenzioni per rendere confortevoli e illuminate le loro strade e le loro case, ma l’anima trabocca di paure e fantasmi e ricordi spaventosi che hanno ereditato dai loro padri; e poi in definitiva se ne accorgono che il sesso delle loro donne odora di muschio e stanno svegli la notte e di giorno si affrettano a disboscare le periferie e a coprirle di cemento.”
Questa era la storia della secessione delle donne, che il curato aveva raccontato ad Antonio una sera dopo che entrambi avevano consumato la cena. Ma Antonio non ne era rimasto particolarmente impressionato: sapeva che nei tempi andati i culti degli alberi erano diffusi, che di nascosto dai parroci talvolta erano proprio i mariti a spingere le loro mogli a ricordarsene, perché pur conoscendo poco o nulla di quelle faccende intuivano il potere che erano in grado di sprigionare.

Lo spirito restò un poco sospeso sopra la casa; quindi compì due larghi giri e si portò più in alto nel cielo.
Adesso poteva scorgere, sul fondovalle, le infiorescenze luminose dei paesi in cui era arrivata la corrente elettrica. Anche la casa di Antonio ne era provvista, ma ancora per mezzo di un generatore autonomo. Lasciando la cucina, solo mezz’ora prima, Antonio aveva trascurato la prima e principale dote dei contadini, la parsimonia. Ma giù in fondo, dove la valle diventava più larga e le pendici delle montagne si facevano da parte, i lampioni piantati all’ingresso dei paesi stavano saldi come sentinelle. Per tutta la durata della notte. Ed erano collegati a un motore molto più potente di quello che serviva la casa di Antonio.

Sul fondovalle, benché ora non potesse distinguerne i particolari, giacevano i campi coltivati, le grandi distese aperte, talvolta delimitate da recinti e strade sterrate. Sulle proprietà, suddivise in appezzamenti rettangolari o quadrati, sorgevano case coloniche, con annesse le rimesse per gli attrezzi e le abitazioni degli operai agricoli. Canali formavano reticoli d’acqua. Un crocefisso segnava il luogo in cui due sentieri si incrociavano, o il confine fra le diverse proprietà, o l'inizio di un centro abitato, il quale spiccava invariabilmente per la presenza della linea slanciata di un campanile.
Fra i contadini del fondovalle e quelli di montagna non c'era amicizia. Questi ultimi venivano accusati dai primi di essere gente rozza, selvatica. I montanari rispondevano con un misto di invidia e senso di superiorità. "In verità – diceva a volte il curato - quelli di pianura sono impressionati per come i montanari s’inerpicano su per le pendenze e scavalcano i burroni; come se non fossero degli ostacoli, ma luoghi sui quali spostarsi con naturalezza, e vivere e lavorare e metter su casa e fare figli, e sempre in pendenza, sempre facendosi beffe della gravità, delle valanghe, delle frane."
Ma adesso lo spirito di Antonio rimaneva incantato ad ammirare quella meravigliosa via lattea distesa sul fondovalle, e niente era più distante da lui delle rivalità che separano i valligiani dai montanari. Lo spirito si beava dell’aria tiepida della notte primaverile e la poiana lo rincorreva fin dove poteva. Sotto ad entrambi, dentro a case riparate da un tetto, gli uomini sognavano il lavoro del mattino dopo. E fra qualche ora si sarebbero svegliati tossendo, poi fatto colazione, calzati gli stivali e andati. Adesso sognavano, e le loro mogli gli sognavano accanto.
E da qualche parte, in mezzo ai rovi, giaceva il corpo di Antonio, precipitato da cavallo mentre il fungo di San Serapione cominciava a sciogliersi nello stomaco.

Lo spirito sentì la curiosità per il proprio corpo come una fitta. Non era proprio nostalgia; il corpo stava rovescio nel cuore del bosco, lo spirito invece volava alto sulle montagne, come avrebbe potuto rimpiangere la sua precedente condizione? Però bisognava cercarlo. Le bestie se ne sarebbero presto impossessate, e bisognava pur assistere all’intrusione delle formiche, che passano per il naso e arrivano dappertutto, lottando con altri intrusi che concimano la strada dove strisciano.
Sì, lo spirito si era destato alla curiosità. Si mise perciò alla ricerca del corpo di Antonio, ma incerto sulla direzione da prendere. Faticando ad orientarsi, a ritrovare il percorso fatto a cavallo dal momento in cui aveva lasciato la casa e fino alla caduta. La ricerca, comprese, sarebbe potuta durare a lungo. Aveva tempo a sufficienza? Domanda a cui non sapeva rispondere.
Pensò che se almeno avesse individuato il cavallo, forse in qualche modo sarebbe riuscito a convincerlo a ricondurlo sul luogo della caduta. Ma dove si era nascosto?
All’improvviso gli parve di udire delle voci note, giungere da poco lontano. Decise di andare a vedere che cosa succedeva.

Le voci adesso gli giungevano in tutta la loro violenza, attraverso gli insospettabili canali auditivi degli spiriti. Voci che risuonavano nel cortile della canonica, il prete svegliato poco prima di soprassalto dal corteo arrivato lì con torce e bastoni. Uno aveva parlato per tutti, e quando l’aveva fatto, gli altri rispettosamente avevano taciuto.
Aveva detto che il figlio di Vater Insel era scomparso. Che il padre l’aveva cercato tutto il pomeriggio, perlustrando palmo a palmo il terreno attorno alla loro casa. Che poi anche loro si erano uniti a Vater Insel nella ricerca, ma del bambino neanche una traccia.
Il prete stava sulla soglia ad ascoltare, con la tonaca in disordine e i capelli arruffati. Pensava: “Il figlio di Vater Insel ha tre anni, e questi boschi sono pericolosi. Lurido bastardo violatore di sorelle, sadico con gli animali, ubriacone, ah, sì, marcirai all’inferno prima o poi, ma adesso bisogna che faccia qualcosa perché i figli non sanno le colpe dei padri e non si meritano il castigo divino.”
Così disse: “Quattro di voi corrano alle case di quelli che non sono già qui, li sveglino e li conducano con sé. Gli altri si dividano in due gruppi, uno lo guiderò io, e l’altro lo guiderai tu Simone che hai parlato così chiaramente. Avanzeremo verso la casa di Vater Insel da due fronti, controllando metro per metro. Dio ci aiuterà.”
“Ma – considerava, tra sé – tutto ciò è insufficiente. Loro sono fuori da ore, e se solo adesso si sono decisi a venire a svegliarmi significa che si aspettano qualcosa di speciale. Qualcosa che giustifichi la tonaca che vesto e il segno di croce che ho loro insegnato. Lo so, lo sento che indugiano davanti alla mia porta e sembrano riluttanti a mettersi in marcia, perché vorrebbero che tracciassi i segni nell’aria e pronunciassi le formule. Forse credono che la magia di un curato sia più efficace della loro. Sicuramente non si vergognerebbero se io coniugassi, proprio qui, la croce e i tarocchi, il cenacolo e il pentagramma. O magari invece adesso lo sentono, che il mio Dio è più potente. Si domandano perché sia in collera con loro. Provano pudore a confessarmi i loro sentimenti. E io provo pudore ad interpellare il mio Dio perché sono settimane che non mi rivolgo a lui. Ma farò ciò che devo. Prenderò il crocefisso e li guiderò nel bosco. Perché io sorreggo un Dio crocefisso, e gli uomini nel dolore cercano un Dio che abbia compassione per loro, un Dio che domani, quando il dolore sarà passato, saranno loro a compatire, in questo modo sdebitandosi, ripagandolo con la stessa moneta. Ma io non piangerò con il mio Dio questa notte, oh, no, piuttosto batterò piuttosto soffocherò con le mie mani quell’uomo selvaggio se capiterà qualcosa di male a suo figlio.”

Così pensato tornò dentro. Quando fu da solo staccò dalla parete il crocefisso, poi fece un lungo sorso di vino dalla bottiglia che aveva aperto a mezzogiorno. Sentiva l’agitazione dei montanari di fuori crescere come un’onda. Adesso si consultavano. Simone stava impartendo degli ordini. Formava le due squadre, ed elencava ai quattro che restavano le famiglie a cui avrebbero dovuto far visita.
Solo uno aveva una torcia elettrica. Si stabilì che quello con la torcia avrebbe camminato davanti al prete, illuminandogli la strada.

Tutti sapevano della negligenza di Vater Insel, e dei maltrattamenti che la famiglia aveva patito per mano sua. Una volta Vater Insel aveva legato la moglie ad un castagno e l’aveva lasciata lì tutta la notte. Quando la notizia si era sparsa, e il prete gli aveva chiesto spiegazioni, si era giustificato dicendo che l’aveva sorpresa a bestemmiare. Ma il prete conosceva la moglie di Vater Insel, che era una donna semplice e si confessava ogni domenica. Da allora provava per lui un odio sordo. Odiava i modi servili che gli riservava quando faceva visita alla sua casa per benedirla. Avrebbe desiderato spaccarla, quella casa, come c’era scritto nell’Antico Testamento, “dalle fondamenta al tetto”. Però tutto questo odio era male agli occhi del Dio crocefisso.
Innanzitutto trovare il bambino. Ciò andava senz’altro fatto.
Uscì fuori con l’anima in fiamme. Nel cortile gli uomini in attesa avevano acceso altre torce, e le loro ombre andavano ad appiattirsi contro il muro della canonica. Facce tese si strinsero attorno al prete, e il crocefisso venne illuminato dai bagliori delle torce.
“Ho con me il crocefisso buono. Il metallo prezioso magnifica la gloria del Signore, stanotte. Questa mandria, questi uomini dall’animo così trasparente eppure così insondabile, sono il popolo di Dio. Bene, meglio che niente. Se Dio è morto per loro, doveva avere le sue buone ragioni. Troveremo il bambino prima che albeggi, e poi ringrazieremo il Signore e io dirò messa. La gloria del Signore si specchia sulle loro fronti, così come si specchia negli elementi primordiali, che il Signore ha creato, e poi dotato di regole e proporzioni, le quali tuttavia possono essere variate a piacimento, per suo semplice diletto. Per suo semplice diletto.”
Mormorando attraversava la piccola folla, che si apriva al suo passaggio, e confluiva poi alle sue spalle. Solo uno, più vecchio degli altri, si nascose nell’ombra. E non appena i suoi compagni si furono allontanati uscì dall’ombra e sgusciò dentro la casa.
E l’uomo con la torcia elettrica si mise davanti al prete per illuminargli il cammino.

L’erta del monte non era coltivata a frutteto, come invece le terrazze più basse e più vicine al fondovalle, dove predominavano vigne e meli. Qui erano fitti boschi di conifere.
Sui terrazzamenti, allo stesso modo che sulle cime delle montagne, la luce lunare si posava sulle cose, preservando le loro forme originarie.
Invece nel sottobosco le forme erano assai diverse rispetto a quelle che si sarebbero potute osservare in condizioni naturali. La luce delle fiaccole aggiungeva ombra a ombra. E il fascio di luce proiettato dall’uomo con la torcia sul tappeto di aghi di pino che si stendeva ai piedi del curato, quando illuminava una sporgenza o un anfratto, quando s’infilava nel folto di un roveto, o quando si imbatteva negli occhi terrorizzati di un piccolo predatore notturno, svelando, selezionando, conferendo nuovo senso, era come il Verbo divino quando decise di dare un nome agli animali.
"Sì - pensava il prete – come quando chiamò ‘leone’ il leone, o ‘fenice’ l'uccello che rinasceva dalla sua carcassa."
Dunque, il raggio di luce ribattezzava le cose. Ma era anch’esso un prodotto di Dio? Questo il dubbio che lo tormentava, sempre più spesso. E poi, la luce davvero portava con sé un ordine superiore, o non era piuttosto maestra nell’arte del camuffare, del travestire e del cambiare? Sì, forse il fascio di luce della torcia alimentata dalle pile alcaline non portava semplicemente un nuovo ordine nel mondo, forse creava un mondo nuovo: però vacuo, tremolante. Un mondo che durava un battere di ciglio, appena il tempo necessario per imprimersi nella retina di chi l’osservava. E se il mondo degli uomini fosse nient’altro che il prodotto di un raggio di luce proiettato su un angolo del cosmo, che splende un istante e poi ritorna al buio che gli è proprio? Ah, curato sapeva che questi pensieri l’avrebbero condotto lontano, assieme al vino che aveva bevuto prima di uscire e che ora gli batteva sulle tempie. Erano i pensieri delle tre del mattino, e lui non doveva prestare loro fede.

Nel frattempo, avevano imboccato una valletta, fiancheggiata da uno sperone di roccia. Procedevano in discesa, e in alcuni punti il sentiero diventava più ripido, costeggiando un burrone. Tra roccia e burrone gli uomini avanzavano stanchi. Alcuni avevano alle spalle molte ore di ricerche. Ma nei loro cuori stava emergendo pian piano la consapevolezza che questa volta, con il prete dalla loro parte, l’esito sarebbe stato diverso. Perciò non si incupirono, facendosi solo un po’ più prudenti.
Adesso la loro attenzione veniva attratta dalle luci dei paesi adagiati in fondo alla valle. Al prete sembrava di sentirle, le loro speranze. Si contorcevano come serpi, in quelle menti circospette. Perché gli uomini marciavano in silenzio alle sue spalle, ma era come se stessero ringhiando. Due desideri combattevano in loro: quello di rimanere com’erano, per sempre, e sempre, e sempre. E quello di strade sicure. Su per quelle strade sarebbero arrivati camion carichi di merci. Giù per quelle strade sarebbe scesi i loro figli, pronti ad andare a vivere nelle città e a mescolarsi agli altri uomini nelle piazze e nei porti della terra.
“Le donne - meditava il prete – furono pazze. Ma non lo furono da meno i soldati che le ricondussero con la forza alle loro case. Avremmo potuto imparare qualcosa, da quella storia. Che non si mantiene in vita un culto senza misteri. Ah, Dio, se riuscissi a distinguere, quando giro nella mia tenebra, come un cane alla catena, se i miei pensieri sono ispirati dal tuo volere o da quello di Satana. Ma non so più nulla, non distinguo nulla. Non capisco le forze al lavoro laggiù, ignoro cosa significhino le superfici di vetro dei palazzi che riflettono il sole al tramonto. E quando sento le mine esplodere, sotto alle nostre montagne, mi chiedo se sia un bene o un male. Signore, non sono che un tuo umile servo. Ho letto i libri ma forse non abbastanza. Ti prego, mostrami la via. Fa che io non conduca questi disgraziati in un precipizio. Signore, tu che li cogli, tutti i giorni. Signore tu che li cogli con il fulmine in mezzo al prato, con il fuoco nei loro fienili, con la malattia, la frana, l’alluvione. Oh Signore, Signore, tu che cogli, mostrami dove si nasconde il figlio di Vater Insel!”

Fu allora che, preso da un inspiegabile presentimento, come se qualcuno gli avesse sussurrato all’orecchio delle parole, l’uomo alla testa del gruppo puntò la torcia verso l’imboccatura di una grotta, che si apriva sul fianco della parete rocciosa.
Ci fu un mormorio, che divenne un’esclamazione collettiva quando il fascio luminoso si posò sul viso di un bambino. Era sporco di terra, adagiato su un guanciale di muschio. Gli occhi chiusi, il corpo raccolto per conservare un poco del calore del giorno.
Gli uomini presero ad inginocchiarsi, uno ad uno. Ma non chinarono il capo, troppo grande era il richiamo esercitato dal quel viso pallido, assorto nel sonno.
Solo il prete rimase in piedi, di fronte all’imboccatura della grotta.
Si guardò intorno. Era la prima volta che Dio si manifestava a lui con tanta evidenza.
Lì, in quel momento, c'era qualcosa. Lo percepiva chiaramente. Senza il suo aiuto non ce l’avrebbero mai fatta.
“Signore, mostrami il tuo volto ora – si sorprese a pregare, a voce sempre più alta, non riuscendo a trattenere le parole – oh, Dio, mostrami il tuo volto. Dio guardami! Dio parlami! Dio toccami! Dio guariscimi!”
E ad un certo punto, in alto, quasi fuori dal cerchio di luce, fra i rami degli alberi, gli parve di scorgere una forma vagamente familiare, solo che l’oscurità era troppo densa per poterla riconoscere. Una sagoma che svaniva, agitando la mano, con un’espressione di disfatta stupefazione sul suo viso. Dunque era fatto così, il volto di Dio? O era solo l’immagine che aveva scelto quella notte, per rivelarsi a lui?

Lo spirito svaniva, dietro i rami degli alberi. Non provava dolore, solo meraviglia per la progressiva perdita di consistenza. Per quel nulla travestito di nulla di cui cominciava ad indovinare l’intima essenza.
Lo spirito di Antonio svaniva, nell’aria fresca della notte.

Ma si sa, gli spiriti appartengono alla stessa sostanza impalpabile di cui son fatti i sogni.

(Marco Pontoni, 1987)

The bells



And the actresses relate
to the actor who comes home late
after the plays have gone down
and the crowds have scattered around
Though the city lights and the streets
no ticket could be beat
for the beautiful show of shows
ah, Broadway only knows
The great white Milky Way
it had something to say
when he fell down on his knees
after soaring through the air
With nothing to hold him there
it was really not so cute
to play without a parachute
as he stood upon the ledge
Looking out
he thought he saw a brook

And he hollered, Look, there are the bells
and he sang out, Here come the bells
Here come the bells
here come the bells
here come the bells
Here come the bells

In Zimbabwe


Landscape


Women


Child in Mutoko's hospital.


Water.


Trees


L'intervento è riuscito. Il liquido cerebrale, accumulatosi nel capo del bambino a causa di infezioni contratte durante la gestazione o subito dopo il parto, viene ora drenato con un catetere nella cavità addominale, dove viene riassorbito dal corpo. Lentamente la situazione ritorna alla normalità.

Grazie a Carlo Spagnolli, Michele Conti, Lia Beltrami, alla Provincia autonoma di Trento e a tutti gli amici dell'ospedale Luisa Guidotti di Mutoko.

Lou Reed a Gardone - here come the bells

Si potrebbe parlare a lungo della location, l'anfiteatro del Vittoriale, la reggia di D'Annunzio, il Garda dietro, le nuvole una striscia che scorre sull'altra riva, mentre la luce si addensa, e poi, ad un certo punto, è andata, c'è solo il palco.

L'attacco dev'essere stato ostico ai più: un vecchio brano dei Velvet, quasi mai eseguito in concerto, che Lou sul disco (il IV, quello dello scioglimento), neanche cantava, lasciando l'onere a Doug Youle, Who loves the sun. Contrasto fra l'incedere scanzonato, i coretti, e il testo: "Chi ama il sole? Chi se ne importa se fa crescere le piante, chi se ne importa di quel che fa se tu mi hai spezzato il cuore. Chi ama il sole? Non tutti..."
Il concerto entra nel vivo con Senselessly cruel, altro titolo misconosciuto da Rock 'n' Roll heart, l'accordo con i promoter, due imprenditori italiani nel ramo dolciario, era che in questo tour proponesse canzoni e sonorità del periodo rock-jazz della seconda metà degli anni '70 (anche se Lou ha interpretato la clausola a modo suo, ovviamente). E qui la band inizia a girare. Lou direttore d'orchestra, suona meno la chitarra rispetto ad altre volte, in compenso lascia spazio ai musicisti, è da secoli che non suona con una band così numerosa, se si esclude il tour di Berlin, che faceva storia a sé, 8 elementi, è da secoli che non sento un sax a un concerto rock, lo strumento sembrava bandito, invece eccolo, a sciorinare il tema di All trough the night. Ma è con Ecstasy che il concerto decolla. Lou è caldo, concentrato, a 69 anni la voce ancora c'è, anche se, certo, è la sua voce, deve piacere, Lou non è Robert Plant o Freddie Mercury. Il violino tesse magie, il contrappunto è della chitarra "rumorista" di Lou, suonata spesso senza plettro, con i polpastrelli. "Ti chiamano Ecstasy, niente ti sta attaccato, né il velcro né lo scotch, neppure le mie braccia, nemmeno se le immergo nella colla."
Ma il vero regalo arriva più tardi, con un riff inconfondibile, di nuovo tratteggiato dal violino. Street Hassle, non era nella scaletta, uno dei brani più ambiziosi, costruito su un tema quasi classico (classico nell'accezione che questa parola può avere per descrivere ad esempio il minimalismo di un Satie), tre movimenti per tre storie esemplari, il tipico approccio amorale di Lou Reed, mutuato da autori come Hubert Selby J., racconto ciò che vedo, non ciò che penso, nessun giudizio. Primo tema: una donna rimorchia un prostituto per le strade di N.Y., e...sha -la-la-la-la, era lussurioso e bellissimo. E quando si preparò ad andare via, nessuno dei due si pentì di nulla. Secondo tema: dialogo fra due tossici, davanti al corpo di una che sembra essere morta di overdose. Decidendo cosa fare di quel corpo.
La musica cala. Lou comanda a bacchetta i musicisti, i pieni e i vuoti, gli assoli quando servono, ma adesso bisogna che le parole si sentano. "Sai, certe persone non hanno scelta, non riescono mai a trovare una voce con cui parlare. Così, accade che seguano la prima cosa che gli permette di continuare ad esistere. E questo si chiama: cattiva fortuna". E baaad luck è un lungo ringhio soffiato in faccia al pubblico - subito prima di attaccare il terzo movimento, il monologo di un innamorato (che potrebbe essere poi lo stesso gigolo' del primo movimento o il tossico del secondo) - con l'orgoglio di chi sa di avere corso dei rischi, per avere infranto dei tabù, per avere portato certe tematiche nella musica popolare, certe storie da strada, certi umori oscuri, come quelli che popolano il set semi-acustico dedicato ai primi Velvet Undeground, Venus in furs (il fantasma di Sacher-Masoch che aleggia sulle acque), Sunday morning, divenuta popolare con 30 anni di ritardo grazie a una pubblicità, ma attenzione, non è un piacevole risveglio, "sunday morning, and i'm falling...", Femme fatale (e qui il fantasma che si materializa è quello indimenticabile di Nico).
Più avanti arriva anche l'elettricità proto-punk di Waves of fear, con un solo di chitarra che non fa rimpiangere Robert Quine, Sweet jane, potente, sempre splendida, con una intro simile a quella di Rock 'n' Roll Animal, il blues di I want to boogie whit you. E forse è questo che vuole, Lou Reed, oggi, essere come uno dei grandi vecchi del blues, che hanno continuato a suonare e a portare sul palco dei giovani talenti fin che avevano fiato in corpo, anche quando erano costretti a suonare seduti (ma non lui, non ancora).
Nel bis, prima un altro brano del repertorio più pop e scanzonato, Charley's girl. Poi, il capolavoro della serata: The bells, dall'album omonimo, uno dei meno popolari, quasi invenduto negli Usa. Pensato per la tromba free-jazz di Don Cherry, sul palco del Vittoriale il pezzo ha un incedere maestoso e possente, mettendo a nudo, come in un'operazione chirurgica, tutte le sue potenzialità melodrammatiche. E' il violino, una volta di più, ad essere protagonista. Il violino e la voce di Lou, disperata, rauca, rabbiosa. Ed è come qualcosa che monta nota su nota, qualcosa che cresce, come un'onda, ed infatti nel brano che conteneva originariamente questo ritornello, Ocean, sono le onde, le onde che arrivano da laggiù, dove si sono formate, "e non fare il bagno stanotte, amore mio, il mare è impazzito, amore mio...", ma in The Bells le onde sono diventate le campane, ed è un attore a sentirle, "l'attore che torna a casa tardi, dopo che lo spettacolo è finito", ed è caduto in ginocchio in piena Broadway, dopo essersi librato nell'aria, e mentre stava lì, sull'orlo del precipizio, le lacrime che spingono dietro agli occhi, all'improvviso ha gridato: "Look! There are the bells! Here come the bells! Here come the bells!" E vorresti non finisse più, e più, e non c'è altro da dire se non il commiato finale, di nuovo una ballata triste del repertorio velvettiano, Tony - Thunder - Smith che batte il tempo col tamburello, "Sometimes i feel so happy, sometimes i feel so sad, sometimes i feel so happy, but mostly, you just make me mad... Linger on, you pale blue eyes, linger on, your pale blue eyes", perché forse è tutto così, e così, le cose o ti spremono il cuore o non sono.

"I love you", così raro, come saluto, in chiusura dei suoi concerti. Torna la percezione dell'arena, del posto dove siamo, tornano le luci e il chiacchiericcio del pubblico, torna la circolarità del tempo, tornano queste prospettive singolari, audaci e dall'oscuro significato.


Genova per chi

Non sono andato a Genova 10 anni fa, ma per poco. Ero appena stato in Congo con Beati i costruttori di pace, stavo riscoprendo il gusto della "partecipazione", condividevo molte delle idee no-global e penso che a 10 anni di distanza si siano rivelate in gran parte giuste, esatte. Quello che molti chiedevano allora ai potenti, un'economia diversa, la Tobin Tax ecc. forse avrebbe salvato il mondo dalla crisi attuale.
Oggi anche Obama mette in piedi think thank sull'economia etica. Oggi quei discorsi li fanno i Nobel al Festival dell'Economia di Trento. Ci avessero pensato allora, anziché prendere a mazzate i manifestanti.

Ma non sono andato a Genova. Dovevo scendere il secondo giorno. Dopo la morte di Carlo Giuliani mi son detto: "Troppa violenza". E devo anche dire che non provavo una viscerale simpatia per i maestri di allora, da Gino Strada (che presentai in una serata pubblica a Trento, affollatissima come per una star della tv) ad Agnoletto. Secondo me, dopo quella prima disastrosa giornata, i leader del movimento avrebbero dovuto fare qualcosa. Era chiaro che tutta la faccenda era un funesto trappolone. A volte una ritirata strategica consente di riorganizzare le forze ed evita perdite inutili.
Ovviamente, questo non discolpa i macellai della Bolzaneto.

In questi dieci anni si è visto di tutto. La globalizzazione è stata indicata come la panacea di tutti i mali, gli economisti invitavano a guardare all'Irlanda come a un modello, poi è arrivato il 2009. Presto (questa espressione in una prospettiva storica può voler dire fra 30 o 50 anni) grazie alla globalizzazione l'Europa diverrà periferia dell'Asia, ma la cosa non mi turba particolarmente, non mi spaventa l'idea che saremo più poveri. Certo, quando vedi gli aeroporti africani pieni di cinesi ti rendi conto che qualcosa nel mondo è cambiato.

Le guerre non hanno risolto nulla. Però penso sempre che lo slogan ginostradiano "contro la guerra senza se e senza ma" sia di una banalità estrema. Io sono a favore dei se e dei ma. L'Iraq è stata una vergognosa porcheria; pazzesco pensare oggi che a qualcuno, in Italia, Tony Blair sia potuto apparire come un modello.
Ma il principio del diritto di ingerenza nelle faccende interne degli stati per tutelare i diritti umani è sacrosanto e mi pare sia stato scritto col sangue già a Sarajevo e a Srebrenica. Disgraziatamente è difficile farlo valere, sia con la forza del diritto (le leggi non sono nulla se non puoi farle applicare coercitivamente), sia con la forza delle armi (lo stiamo vedendo in Libia) sia con le sanzioni (a voltre funzionano, vedasi l'ultima fase del regime di apartheid in Sud Africa, ma chi applicherebbe sanzioni alla Cina per la sua politica in Tibet?).

Il movimento dei movimenti è rifluito. Oggi la protesta è più corpuscolare e la valle di Susa non è Seattle (e neanche Porto Alegre). Penso che rispetto ai movimenti precedenti (68 e 77, essenzialmente) i no-global siano mancati sul piano estetico. Può sembrare cosa da poco, non lo è. I movimenti degli anni 60 e 70 hanno avuto la loro musica, il loro look, i loro feticci. La loro way of life, insomma. I no-global molto meno. Certo, la rete, la grande novità (ai tempi della Pantera era stato il fax). Però la rete è tecnologia, quindi è neutra.
E a parte l'informatica, poco altro di realmente originale. Manu Chao, il cibo a chilometri zero, certe lotte simboliche che mi lasciano perplesso (come quella contro gli inceneritori, che sono meno dannosi delle discariche), la pubblicistica militante che si ritrova negli scaffali delle librerie più fornite (invoglia pochissimo)...

In compenso, una certa sensibilità si è diffusa ad ogni livello, anche nelle istituzioni. Ciò che si è perso nella spinta movimentista lo si è forse guadagnato sul versante delle politiche pubbliche. Dalla valorizzazione delle culture locali (anche se spesso scivola nel folclore)alle politiche ambientali (riciclaggio, risparmio energetico ecc.).
E se persino uno dei massimi romanzieri americani, Jonathan Franzen, cita il Club di Roma (che è roba degli anni '70 ma anticipa ciò che nei 2000 è divenuto patrimonio collettivo) vuol dire che certe idee sono ormai sedimentate.
Basta questo ad arrestare "l'orrore economico", per citare uno dei testi-base del movimento? Sembrerebbe di no, in effetti. La risposta alla attuale crisi finanziaria è stata ovunque unanime: più sviluppo. Nessuno ha pensato di sfruttare questa circostanza per ragionare di sviluppo diverso. La salvezza viene affidata alle tecnologie (green, ecosostenibili ecc.). Il che dà l'esatta misura di quanto poco conti oggi il pensiero umanistico.

Ieri mia moglie ha detto che i film della Coppola sono belli e moderni perchè fotografano esattamente l'epoca che stiamo vivendo, un'epoca "vuota", senza grandi passioni. Mi è venuto in mente ancora Baumann. Mi è anche venuto in mente, però, che il concetto di vuoto in certe culture, ha un'accezione positiva, non negativa.

Lover, you should've come over



Nel prato arrivarono delle ragazze, con il suo poster. Cercavano di conquistare la prima fila, evidentemente per stare, per un paio d'ore, ad un passo da lui. Realizzammo all'improvviso che era un bel tipo, non solo uno straordinario cantante venuto dal nulla. Il nuovo Jim Morrison, o qualcosa del genere. Connesso con le stazioni che solo qualcuno può captare.
Cielo enorme sopra la pianura.
C'era anche un uomo con suo figlio, sembrava più entusiasta di lui di essere lì, scalpitava nell'attesa. Mi chiedevo se sarebbe stato così anche per me.

"Grace" era passato nel firmamento della musica come una cometa splendente, il più bel disco degli anni '90.

Se gli angeli fossero esistiti, avrebbero avuto la sua voce.

Cucire, suturare



C'è chi si adopera per questo. Sanare, suturare, cucire. Lenire il dolore degli altri e a volte anche il proprio, naturalmente.
I più ammirevoli sono quelli che lo fanno senza clamore. Anche se non ho mai pensato che l'esposizione del dolore e delle sue conseguenze (comprese quelle positive, la cura, in ogni sua forma) siano cose di per sé riprovevoli.

Pavese diceva che al dolore non si sfugge, che una volta sperimentato tornerà e tornerà, che non puoi "farci il callo". Si riferiva al dolore esistenziale.
In quanto all'esperienza della sofferenza fisica, del male in natura, della malattia, i dottori di solito l'affrontano come i giornalisti affrontano le notizie peggiori. Con una sorta di distacco, di fatalismo. Necessario all'esercizio della professione. Allora forse a questo tipo di dolore ci si abitua, ci si abitua per forza.
(Parliamo, certo, del dolore altrui, che puoi condividere fino a un certo punto).

Abbiamo visto tante serie tv sugli ospedali, sappiamo che lì dentro si può anche ridere.

La volontà di dio. Il ciclo della morte e della rinascita. Il conforto che viene da un paesaggio, un colpo di vento, l'agitarsi di una tenda, il passaggio di una nuvola nel rettangolo della finestra. Il conforto del cibo e degli antidolorifici.

In Africa la gente vive gomito a gomito con la sofferenza e la morte, tutti i giorni, eppure la vita sembra scorrere più lieve, più che qui, con meno clamore. Forse è solo apparenza, so per esperienza che spesso la gente malata si nasconde, non ama farsi vedere ridotta in quel modo. Gli stessi parenti a volte non resistono, fuggono.
Alcuni nel prendersi cura degli altri si sentono importanti.
Alcuni riescono a conservare quel sorriso, e tutto intorno si illumina, si rasserena, anche in un ospedale in mezzo alla savana, con le galline e le mucche, fuori, con la luce che va e viene.

E poi, le mamme felici, dopo che ai bambini è stata tolta l'acqua dal capo. L'orgoglio dei dottori, quella sorta di spavalderia, persino. Come ci si deve sentire, a fare un lavoro davvero utile.

E poi ancora, arriva un altro tramonto.

Foto: In Zimbabwe (L'uovo fritto)

Love reign o'er me



Ci sono tante specie d'amore. L'amore coniugale, l'amore carnale, l'amore filiale, l'amore occasionale, l'amore per il proprio lavoro, l'amore per l'umanità, l'amore che proviamo occasionalmente per un volto sconosciuto all'angolo della strada, l'amore per se stessi e l'amore per il prossimo, l'amore per il proprio paese e l'amore per della gente che vive all'altro capo del pianeta e non conosceremo mai veramente, l'amore per dio, per chi ci crede, e l'amore per uno scrittore che in una delle sue pagine ci ha toccato il cuore, l'amore per gli animali e l'amore per le pietre, l'amore per il proprio passato e l'amore con cui ci rivolgiamo fiduciosamente al futuro, l'amore per chi è malato o sofferente, il più difficile, a volte, l'amore per chi è fortunato e bello e ci acceca, l'amore con il quale perdoniamo noi stessi e quello grazie al quale perdoniamo gli altri, l'amore per l'armonia e il complicato amore che a volte nutriamo per la disarmonia. Nessuna è migliore di altre ma tutte sono importanti.
Love reign o'er me. Come vorrei essere perfetto, almeno in questo.

Guns of Brixton by Arcade Fire



Non tutte le cover sono inutili e lo spirito del punk può rivivere anche 30 anni dopo, sulle corde dei violini.


Ma quella volta, nel loggione della Brixton academy, l'amico al mio fianco e lo sconosciuto dall'altra parte già partiti, io deliziosamente presente a me stesso, sobrio, ottimista, i muscoli allenati, i polmoni sgombri, desideravo solo essere lì dentro, mentre le luci si abbassavano e il palco ronzava, in attesa, desideravo essere lì e non altrove. O forse ci sembra così dopo, forse anche quella volta aspettavo una mail, forse anche quella volta volevo tornare.

E poi, fuori, un pub di quartiere, un pub per famiglie, per gente scompagnata, lavoratori e loosers, dove bere e stare bene ed essere coraggiosi, e basta, godendosi l'amicizia e l'aspettativa, la sensazione che qualcosa debba cambiare, ma non subito, perché è bello vivere in questo modo i momenti che precedono i cambiamenti, come guardandoli da una terrazza, da un balcone, un bicchiere in mano, e soprattutto non pensare, non pensare troppo.

(...) to keep it in your mind and not fergit
that it is not he or she or them or it
that you belong to.


Nuvole


Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

F. De André

(foto dell'Uovo fritto)

Jann Halexander, lo sconosciuto


La folie d'Erik Satie (Jann Halexander) di ama124

Non so nulla di questo Jann Halexander, ho scoperto il pezzo cercando Erik Satie. Pare non se ne sappia molto. Di origini africane (Libreville, Gabon), ha iniziato la sua carriera di cantante autoproducendosi e vendendo i cd in internet. Pare che a lungo si sia dubitato della sua reale esistenza, e questo pone un dilemma filosofico: è importante l'opera in sé o, accanto ad essa, è importante l'autore, e con lui l'ambiente, il periodo ecc. Io ho sempre pensato l'opera. Che l'autore scompaia dietro ad essa, se necessario (ma il periodo? Quello conta. Conta sapere se quella cosa è stata scritta da Joyce, da un predecessore di Joyce o da un suo imitatore 50 anni dopo. Cambia tutto).
La marcia della (pop) culture contemporanea è andata nella direzione di glorificare il personaggio. Per certi versi parrebbe sia necessario essere prima qualcuno, poi eventualmente saper fare qualcosa. Certo, una cosa non esclude l'altra, l'incontro fra il saper essere (qualcuno) e il saper fare (qualcosa) produce i miti, le superstar (altro termine inventato da Warhol, che oggi suona così fuorimoda...).
La canzone è splendida. Ti toglie un po' di pelle di dosso.
Ci sarebbero molte cose di cui scrivere, oggi. Del Dalai Lama che decide di ritirarsi a meditare, esempio più unico che raro di politico che volontariamente cede il posto, sceglie di dedicarsi tout court alla vita spirituale. Della trascuratezza delle recensioni dei quotidiani, anche dei grandi quotidiani come "La Repubblica" (cose di cui mi accorgo solo io, che tristezza leggere, di un nuovo horror low cost, che a differenza di altri film del genere come Blair witch project questo punta sugli ingredienti del passato, paura sì, ma senza spargimenti di sangue, e tu a differenza del recensore Blair witch project lo hai visto due volte e sai benissimo che non si sparge una goccia di sangue, in quel film, ma tant'è, serve sapere di cosa si parla per parlarne?). Dell'orrore autoritario, che si annida anche nelle istituzioni apparentemente più innocenti, come la scuola, dell'inconsistenza dei professori, dei présidi, del pensiero che all'improvviso sfreccia da un lobo temporale all'altro: la nostra non è una società così mobile, dopotutto. Te lo fanno credere, perché a una scrivania ci puoi arrivare anche se sei figlio di operai, ma non sposerai una donna ricca, non diventerai ricco, a meno che tu non sia tremendamente ambizioso, a meno che tu non voglia essere davvero come loro.

Dei limiti naturali. Ed è forse la prima volta che ci penso così acutamente. Le persone possono avere dei limiti. Congeniti, non imposti dalla Macchina. Le persone possono avere dei difetti di fabbricazione. Non lo diceva Céline, degli scrittori? Non diceva che nascono con questa tara, di essere incapaci di godersi la vita così com'è, senza le manipolazioni a cui la sottopone il linguaggio?