Uno dei migliori testi del Dylan "recente", dall'album Love and Theft. Un testo dal sapore agrodolce, che evoca atmosfere "chapliniane" nel raccontare - con la libertà concessa ai versi di una canzone - le vicende di un qualunque "povero ragazzo". Ci sono arguzia verbale, immagini deliziosamente retrò, prese di peso dall'epica - o antiepica - americana (quella che affonda le sue radici nella Grande depressione), il pessimismo dylaniano di fondo, qui però stemperato dall'ironia e da una sorta di affettuosa partecipazione del narratore alla sorte del Po' boy, una vena mai risolta di misoginia. E poi treni, campagne, città infuocate, stanze d'albergo che non sembrano tali, stalle e stelle.
Bussano alla porta
Con la libertà di cui sopra, quella che consente al cantante/narratore di utilizzare la prima persona per fare parlare sia il protagonista sia l'osservatore esterno (Dylan stesso, diciamo), la canzone inizia con una scenetta fulminante. Un tizio bussa alla porta; letteralmente vediamo (tutto il testo è molto visivo) il povero ragazzo aprire e chiedere allo sconosciuto cosa cerca. "Tua moglie", risponde l'altro con arroganza. E il Po' boy, con tutta l'ingenuità del mondo: "E' occupata a cucinare, in cucina". Subito dopo la voce esterna del narratore che l'ammonisce: "Dove sei stato? Te l'ho già detto (di stare su con le orecchie), non voglio ripetertelo..."
La speranza è l'ultima a morire
La seconda strofa vede il povero ragazzo nelle vesti di un garzone di bottega che cerca di muoversi con scaltrezza, ma riesce solo ad essere maldestro, nel suo tentativo di rifilare a un cliente quattro pezzi anziché uno. "La speranza è l'ultima a morire", commenta Dylan alzando gli occhi al cielo, e concludendo paternamente: "Vedrai, le cose si aggiusteranno..."
La polizia alle calcagna
La terza strofa è puro Chaplin: il ragazzo parla ancora in prima persona, dice di avere lavorato come un negro sulla linea principale (i lavori di cui parla Dylan nella canzone sembrano essere tutti compresi in un arco temporale che va dagli anni '30 - quelli di Woody Guthrie - agli anni '60, cioè i suoi; nessuno lavora al Pc, nessuno fa il ricercatore informatico o si occupa di fondi subprimes, questa è l'America del mito personale di Bob Dylan). E nonostante ciò, ha la polizia alle costole. L'immagine del treno ritorna nella strofa successiva dove il povero ragazzo viaggia in prima classe, fa' il grande, insomma, ma noi sappiamo che sta bluffando, ce lo immaginiamo passare da un vagone all'altro per non farsi beccare dal controllore, facendo attenzione a non cadere e finire schiacciato fra due convogli (che treno è? Un treno degli anni '30, appunto).
Otello e Desdemona
All'improvviso uno scatto "shakespeariano", fulminante e pieno di humor, il cliché della donna ingannatrice (chissà che cazzo gli han fatto le donne, poi).
Otello dice a Desdemona: 'Ho freddo, coprimi con una coperta; a proposito, che ne è stato di quel vino avvelenato?' Lei risponde: 'L' ho dato a te, l’hai bevuto'". Dylan, passando dal piano "alto", classico, a quello quotidiano, nel quale si dipana la canzone, commenta: "Povero ragazzo, raddrizza le cose, raccogli le ciliegie che cadono fuori dal piatto". Insomma, non montarti la testa, non sprecare nulla, cerca di farla franca, ancora una volta, come uno dei tanti personaggi delle comiche, amare, del cinema muto, fatte di trovatelli e clochards.
Chiama il servizio in stanza, dice: mandatemi su una stanza
Subito dopo Dylan ci infila una di quelle strofe piene di romanticismo e autocommiserazione maschile che fanno impazzire i fan: "Il tempo e l’amore mi hanno marchiato a fuoco con i loro artigli", e lì tutti vogliono vedere lui, lui in prima persona, non il Po' boy, non il povero ragazzo. Vogliono vedere il menestrello arrivato a New York dal profondo Minnesota a cambiare le sorti della canzone popolare, vogliono vedere l'autore di canzoni d'amore come Sara o di amore/odio come Like a rolling stone, vogliono vedere questa specie di profeta sopravvissuto, a differenza di Jim Morrison o Kurt Cobain. E' lui che è stato "marchiato". E poi una frase di brillante ironia che forse paga un debito a Gregory Corso, che aveva usato un gioco di parole simile in una sua poesia ("get off of my window, with the window"): " Povero ragazzo, in un hotel chiamato 'Il palazzo delle tenebre', chiama il servizio in stanza, dice: mandatemi su una stanza” . E questo per me è il verso più bello della canzone, perché fotografa con complice, commovente intensità la sensazione che si prova a volte in certe stanze d'albergo che non sembrano stanze, che sembrano delle zattere alla deriva, dei buchi nella roccia in mezzo al deserto, le segrete di un castello scozzese...
Tutto ciò che so
Segue una strofa a là Steinbeck - l'altro nume tutelare della canzone assieme a Chaplin - sui parenti del ragazzo, compreso uno zio che "mi prese con sè - gestiva un'impresa di pompe funebri - ha fatto un sacco di cose gentili per me, e non lo dimenticherò", poi un'altra frase romantica attribuibile allo stesso Dylan, "Tutto quello che so è che il tuo bacio mi fa fremere, non so niente più che questo" (e a parlare è, ancora una volta, il Dylan "grande vecchio", che ha superato la sessantina, non il giovane arrogante che si accompagnava a Ginsberg e si metteva in competizione con il clan di Warhol), ed infine un consiglio rivolto al ragazzo, quello di sistemarsi, di costruirsi una casa di mattoni.
Solo sotto le stelle splendenti
Ma il consiglio cade nel vuoto perché la canzone è circolare, si chiude così come era iniziata, con un tizio che bussa con arroganza alla sua porta, e senza neanche presentarsi decentemente - il Po' boy non lo conosce - si piazza in casa sua ("Freddy o no, eccomi qui!”).
E il povero ragazzo, lo ritroviamo fuori, forse sbattuto fuori, da casa sua. Lo ritroviamo infine sotto le stelle splendenti, come Giobbe, mentre lava i loro piatti, nutre i loro maiali.
PO' BOY words and music Bob Dylan
Man comes to the door - I say, "For whom are you looking?"
He says, "Your wife", I say, "She's busy in the kitchen cookin' "
Poor boy - where you been?
I already tol' you - won't tell you again
I say, "How much you want for that?" I go into the store
The man says, "Three dollars", "All right", I say, "Will you take four?"
Poor boy - never say die
Things will be all right by and by
Been workin' on the mainline - workin' like the devil
The game is the same - it's just up on a different level
Poor boy - dressed in black
Police at your back
Poor boy in a red hot town
Out beyond the twinklin' stars
Ridin' first class trains - making the rounds
Tryin' to keep from fallin' between the cars
Othello told Desdemona, "I'm cold, cover me with a blanket
By the way, what happened to that poison wine?"
She says, "I gave it to you, you drank it"
Poor boy, layin' 'em straight - pickin' up the cherries fallin' off the plate
Time and love has branded me with its claws
Had to go to Florida, dodgin' them Georgia laws
Poor boy, in the hotel called the Palace of Gloom
Calls down to room service, says, "Send up a room"
My mother was a daughter of a wealthy farmer
My father was a traveling salesman, I never met him
When my mother died, my uncle took me in - he ran a funeral parlor
He did a lot of nice things for me and I won't forget him
All I know is that I'm thrilled by your kiss
I don't know any more than this
Poor boy, pickin' up sticks
Build ya a house out of mortar and bricks
Knockin' on the door, I say, "Who is it and where are you from?"
Man says, "Freddy!" I say, "Freddy who?" He says, "Freddy or not here I come"
Poor boy 'neath the stars that shine
Washin' them dishes, feedin' them swine
Forse è sbagliato analizzare così i testi delle canzoni perché i testi delle canzoni non dovrebbero avere vita propria, dovrebbero essere ascoltati. Si dovrebbe sentire la voce che gracchia come se le corde vocali fossero piene di sabbia e ruggine. Si dovrebbe sentire come il cantante infila un numero apparentemente troppo alto di parole in un tempo che sembra così breve... Ma i testi di Dylan a volte fanno eccezione.
BOB DYLAN, I 70 ANNI
Quando, a Trento, tre anni fa, durante il bis, il palazzo delle Albere sullo sfondo, intonò “Blowin’ in the wind”, quasi non se ne accorse nessuno, talmente stravolta era quella versione rispetto all’originale, incisa nel lontano 1963. Nessuno gridò “rivogliamo il nostro Bob Dylan”, come pare sia successo in Cina, qualche settimana fa (cosa curiosa, che i cinesi reclamino un “nostro Bob Dylan”). Questo il destino di un artista che in fondo ha sempre fatto quello che voleva, proprio come tutti i grandi artisti. Senza coltivare il suo mito, ma anzi decostruendolo e reinventandolo ad ogni cambio d’abito. Dylan compie 70 anni, e se uno va a vedere in qualche sito peer to peer, di quelli che i giovani internauti utilizzano per scambiarsi la musica gratuitamente, scoprirà che non c’è molto, che i cantanti più gettonati sono altri. E questo è un segno del tempo che passa. Ma lui non se ne cura: impegnato da anni in un “never ending tour”, una tourné senza fine in giro per il mondo, ovunque lo chiamino, sembra avviato a ripercorrere i passi dei suoi miti di gioventù, quei giganti del folk e del blues che hanno continuato imperterriti a cantare fin che avevano fiato in corpo, incuranti delle mode, delle stagioni che si susseguono.
Ai suoi esordi riportò in auge la canzone di protesta, che in America aveva una lunga tradizione, ma che sembrava essersi assopita. Per farlo, appena arrivato a New York dal Minnesota, andò al capezzale di Woody Guthrie, il menestrello dei lavoratori oppressi che stava morendo in solitudine in un ospedale della Grande Mela. In seguito scandalizzò i puristi del folk sposando l’elettricità, i ritmi serrati del rock. E questo rimarrà il suo contributo più grande alla cultura popolare del ‘900: avere introdotto il rock alla poesia, l’oscura ed entusiasmante poesia di quegli anni, la poesia della beat generation, di Allen Ginsberg (che compare in questo video, anche se defilato) e compagnia. Così, una musica nata fondamentalmente per fare ballare i ragazzi entrò nell’empireo delle arti. E le cose non furono più le stesse. Nel ’68, mentre imperversava la protesta, era già altrove: già lontani i tempi in cui fustigava i signori della guerra e profetizzava la caduta di una “dura pioggia”, la pioggia atomica. Ma il piglio profetico, biblico, è rimasto, anche dopo.
E’ venuta la crisi del suo primo matrimonio, il Dylan che, a modo suo, raccontava il “privato”, come si diceva allora, è venuto il ritorno di fiamma all’impegno sociale, con la presa in causa del destino di “Hurricane” Carter, pugile nero condannato da una giuria di bianchi per un delitto non commesso, in un’America che ancora coltivava i germi del razzismo. E’ venuta la conversione al cristianesimo, durata due dischi e mezzo. Sono venuti, certamente, tanti soldi.
Infine, le incisioni di oggi, cantate con una voce che non c’è più ma proprio per questo tanto più vera e drammatica, alcune bellissime, come “Love and theft”, altre dimenticabili. E’ venuto anche un libro, “Chronicles vol. 1”, molto intenso e leggibile (nonostante il lontano, ostico precedente di “Tarantula”), che racconta pezzi della sua vita senza soluzione di continuità, che fa rivivere l’America degli anni ’60 e soprattutto il grande amore per la tradizione musicale del suo paese. Sì, perché nel suo essere impermeabile alle mode, Dylan infine anche questo è stato ed è. Un culture della tradizione, uno scrigno che racchiude ciò che non c’è più, che non è stato immortalato in qualche video e quindi non passa su Mtv. Fuori dal tempo, restio a farsi paladino di qualsivoglia causa, coperto ormai da troppe maschere (quelle che ha raccontato il regista Todd Haynes nel suo “I’m not here”, del 2007), Dylan dice di odiare i tanti soprannomi coniati per lui nel corso dei decenni. Così cercheremo di resistere anche noi alla tentazione di affibiargliene uno. Diciamo solo che è stato uno scontroso maestro di stile, a costo di scontentare, periodicamente, i suoi fans. E che certi suoi dischi li puoi collocare accanto non solo ad altri dischi ma ad alcuni dei migliori romanzi della letteratura americana contemporanea, da Hemingway a Kerouac, da Don De Lillo a Jonathan Franzen. E riascoltarli periodicamente.
Visto che sono libero, come devo vivere?
Ho iniziato "Libertà", di Jonathan Franzen, e ora del prossimo post l'avrò anche finito. E questa è una delle prerogative dei (due) libri (più famosi) di Franzen: quando li inizi li divori. E' stato così anche per "Le correzioni", superato lo scoglio delle prime due pagine (non sempre gli incipit sono la cosa più riuscita in un lungo romanzo). In questo senso Franzen è un formidabile narratore: pur essendo uno degli alfieri del "grande romanzo americano", il romanzo che ha l'ambizione di dipingere un affresco sociale (ed epocale), lavora sulle storie e sui personaggi, in particolare sui dialoghi, credibili e convincenti.
Come nella migliore tradizione, dunque (la tradizione ottocentesca), le storie di Franzen sono storie di famiglie. Anche in questo caso, come ne "Le correzioni", siamo in presenza di una saga familiare, con un numero di protagonisti un po' più ridotto rispetto all'opera precedente (dove erano almeno cinque: due genitori, tre fratelli). Qui al centro dell'attenzione ci sono Walter e Patty, conosciutisi all'università del Minnesota e divenuti marito e moglie dopo il serrato corteggiamento di lui (serrato fino al vassallaggio) e nonostante le molte perplessità di lei. Attorno, ovviamente, una vasta galleria di personaggi: i figli, i genitori, i vicini di casa, l'amico del cuore di Walter, Richard, eterna aspirante rockstar con dipendenza dal sesso (uno dei caratteri più riusciti). Il periodo storico va essenzialmente dai primi anni '80 ai 2000, ma non vi sono (almeno fino a dove sono arrivato con la lettura) vere e proprie digressioni, semmai dettagli seminati qui e là che aiutano a collocare storicamente la vicenda della famiglia Berglund (i Buzzcocks, la Tatcher, Clinton, le due torri ecc.)
La trama è inutile riassumerla: la si ritrova in molti siti, peraltro. Piuttosto, che cosa rende così speciale e così leggibile un romanzo del genere? Che cosa rende Franzen un autore degno della copertina del Time, onore riservato a pochi scrittori? Innanzitutto, suppongo, il fatto di parlare di cose che toccano tutti (tutti noi, noi lettori occidentali, diciamo) e di farlo in maniera credibile. E questa, per quanto mi riguarda, è la differenza che passa fra il leggere un buon libro di un autore americano e il leggere un buon libro di un autore libanese o tanzaniano. Franzen racconta di famiglie: come nascono, come proseguono il loro cammino, come si logorano, come esplodono in seguito, ad esempio, al rapporto con i figli, agli errori commessi quasi sempre involontariamente (nella fattispecie, quelli commessi da Walter e Patty con il figlio minore, che ad un certo punto spietatamente li lascia per andare a vivere con i detestati vicini di casa). Racconta i rapporti interpersonali: amori, tradimenti, frustrazioni, dipendenze varie, desideri coltivati per vent'anni e che poi si realizzano in una notte (quello che Patty coltiva per Richard, dai tempi dell'università, fino a quando, vent'anni dopo, finalmente lui se la scopa, o lei si scopa lui). Basta questo? Certo che no. Tutto questo materiale deve essere trattato con mano ferma e disciplina. Franzen, del resto, di tempo ne ha avuto, 9 anni. Ci vogliono mano ferma e disciplina per raccontare le cose da diversi punti di vista, ad esempio: la storia parte con la narrazione in terza persona e continua così ma da un certo punto in poi si riporta il diario scritto da Patty su suggerimento del suo analista. Lo sguardo rimane in qualche modo "esterno" - la narrazione è sempre in terza persona anche se l'autrice del diario non si nasconde - ma al tempo stesso diventa partecipe, diventa lo sguardo di una parte in causa. A volte dimentichi che è Patty a parlare e a volte no. E funziona.
Va bene, e poi? Poi c'è lo sguardo di Franzen sui suoi personaggi: non è consolatorio, non è moralista, non è romantico, nemmeno clinico o spietato. E' lo sguardo "alla giusta distanza" del narratore naturalista. Franzen ci sembra dire che le cose che accadono, che le scelte che le persone fanno nel corso della loro vita, hanno spesso ragioni e moventi diversi da quelli palesi. Magistrale il momento in cui Patty, dopo un disastroso viaggio in automobile fino a Chicago con Richard, dopo essere sbarcata in piena notte in una casa di simil-punk disastrati nel cuore di un quartiere malfamato, dopo essere stata rifiutata dal ragazzo dal quale si sente così attratta, il caustico, sensuale rockettaro, dopo avere saltellato con le sue stampelle fino ad una lercia locanda per mandare giù tre tacos, dopo una raggelante telefonata alla madre, decide di prendere un pulmann per andare a gettarsi fra le braccia di Walter, il buon Walter che vorrebbe fare l'attore ma studia legge e si ammazza di fatica con lavori vari per mantenere i suoi genitori, e che sta vegliando il padre ormai in punto di morte. E nonostante tutto questo, nessun afflato decadente. Perché nonostante il motel raffazzonato in cui consumano le loro prime notti d'amore, nonostante l'iniziale moto di gelosia di lui (nei confronti di Richard), nonostante il padre di Walter passi nel giro di pochi giorni a miglior vita, lì si apre per Patty uno dei periodi più belli della sua vita (anche se destinato a finire).
Ma il punto è anche un altro, e cioè che dei moventi nascosti o impliciti le persone non sono in genere perfettamente consapevoli: a volte li ignorano, oppure li tengono a bada, li aggirano, e a volte inventano scuse, costruiscono narrazioni alternative, e a volte ancora cambiano idea con il tempo, ci ritornano su, dimenticano.
Questo sul piano della psicologia dei personaggi, che è messa a fuoco straordinariamente bene, e con la quale, appunto, pagina dopo pagina, ci confrontiamo, noi oziosi lettori dell'Occidente opulento che non possiamo rispecchiarci nelle storie delle profughe somale o dei perseguitati politici rumeni (quelle storie - spesso appassionanti - le leggiamo per un altro motivo, per scoprire ciò che è altro da noi. Va detto peraltro che questa è una delle critiche mosse a Franzen anche negli Usa: scrive di cose scontate, chissenefrega delle crisi coniugali della famiglia media, le abbiamo già viste, ci interessa di più la mafia russa).
Poi c'è la metalettura, antropologica, sociale, "politica". Il tema è esplicitato dal titolo, è la libertà e in effetti i personaggi del romanzo si muovono con una libertà sconosciuta a, poniamo, una giovane donna cambogiana o un giovane uomo ugandese. E dunque: visto che sono libero, come devo vivere? I personaggi di Franzen non sono i disadattati di Carver, che riescono a malapena ad articolare qualche discorso di senso compiuto attorno alla pesca o all'arte della pasticceria: sono esponenti della middle-class, sono persone che leggono, che vanno a teatro, che hanno opinioni politiche (bellissima a proposito la descrizione della cena durante la quale l'ingenuo, idealista Walter cerca di descrivere alla famiglia di Patty, la madre una politicante in ascesa, il padre un semialcolizzato che semina sarcasmo distruttivo a destra e a manca, la sorella una snob ignorante e viziata - insomma, uno spietato ritratto dell'aristocrazia liberal - le idee del Club di Roma). Franzen ci mostra però come le esistenze delle persone spesso non corrispondano esattamente alle idee professate né ai loro riferimenti culturali: sia in senso oggettivo (nei suoi romanzi ritorna frequentemente il tema della corruzione, assieme a quello dell'ecologia), sia sul piano psicologico. Il Walter giovane, ad esempio, è un convinto sostenitore della necessità della decrescita demografica, velatamente ammira la "via cinese" (la politica del figlio unico), e si batte per la parità fra i sessi: ma accetta senza battere ciglio il programma di vita di Patty, metter su casa, fare figli e dedicarsi a pieno titolo al suo ruolo di madre.
E la libertà? La libertà e tutt'attorno, appunto. E' l'humus, è lo spazio sociale in cui si muovono i personaggi, una libertà alla fin fine condizionata, come in "Le correzioni", dalle esperienze che hanno avuto da bambini e da ragazzi, con i genitori, con i fratelli e le sorelle, prima ancora che, astrattamente, dalla classe sociale o dal reddito (pur essendo questi fattori molto ben delineati). La libertà infida e pericolosa di chi vive senza sapere tutto, la libertà che consente ogni sorta di affare spegiudicato, la libertà che porta al governo i neocon dopo l'11 settembre...
Ma non voglio addentrarmi troppo sulle questioni politiche perché lo hanno fatto in molti anche sui nostri giornali e sembrerebbe, leggendo quegli interventi, che si stia parlando di un romanzo appunto politico, mentre non è così, anche se certo, come in ogni grande scrittore le vicende minime narrate nel romanzo rimandano a qualcosa di più vasto.
Last but not least il linguaggio; anche qui, qualcuno ha rimproverato all'amico di Foster Wallace di non avere uno stile abbastanza sperimentale, inquieto, postmoderno. Ed è vero: Franzen scrive dei dialoghi efficacissimi, le sue descrizioni sono precise, "vere", il ritmo della scrittura è sempre serrato e tiene avvinto il lettore (Franzen potrebbe scrivere ottime sit-com), ma non è sperimentale. E' un limite? In questo genere di narrativa direi di no: è il linguaggio del "grande romanzo familiare (americano)", appunto. Certo, De Lillo in "Underworld" ha osato di più; e certi passaggi di memorabile lirismo propri di quel romanzo (compresa la sua chiusa, sulla parola "pace"), in "Libertà" non li abbiamo. Al tempo stesso, però, abbiamo qualcos'altro rispetto a quel senso di tragedia imminente: abbiamo il sorriso consapevole di chi osserva la commedia umana, senza condannare nessuno e però senza fare sconti alle debolezze di nessuno.
Come nella migliore tradizione, dunque (la tradizione ottocentesca), le storie di Franzen sono storie di famiglie. Anche in questo caso, come ne "Le correzioni", siamo in presenza di una saga familiare, con un numero di protagonisti un po' più ridotto rispetto all'opera precedente (dove erano almeno cinque: due genitori, tre fratelli). Qui al centro dell'attenzione ci sono Walter e Patty, conosciutisi all'università del Minnesota e divenuti marito e moglie dopo il serrato corteggiamento di lui (serrato fino al vassallaggio) e nonostante le molte perplessità di lei. Attorno, ovviamente, una vasta galleria di personaggi: i figli, i genitori, i vicini di casa, l'amico del cuore di Walter, Richard, eterna aspirante rockstar con dipendenza dal sesso (uno dei caratteri più riusciti). Il periodo storico va essenzialmente dai primi anni '80 ai 2000, ma non vi sono (almeno fino a dove sono arrivato con la lettura) vere e proprie digressioni, semmai dettagli seminati qui e là che aiutano a collocare storicamente la vicenda della famiglia Berglund (i Buzzcocks, la Tatcher, Clinton, le due torri ecc.)
La trama è inutile riassumerla: la si ritrova in molti siti, peraltro. Piuttosto, che cosa rende così speciale e così leggibile un romanzo del genere? Che cosa rende Franzen un autore degno della copertina del Time, onore riservato a pochi scrittori? Innanzitutto, suppongo, il fatto di parlare di cose che toccano tutti (tutti noi, noi lettori occidentali, diciamo) e di farlo in maniera credibile. E questa, per quanto mi riguarda, è la differenza che passa fra il leggere un buon libro di un autore americano e il leggere un buon libro di un autore libanese o tanzaniano. Franzen racconta di famiglie: come nascono, come proseguono il loro cammino, come si logorano, come esplodono in seguito, ad esempio, al rapporto con i figli, agli errori commessi quasi sempre involontariamente (nella fattispecie, quelli commessi da Walter e Patty con il figlio minore, che ad un certo punto spietatamente li lascia per andare a vivere con i detestati vicini di casa). Racconta i rapporti interpersonali: amori, tradimenti, frustrazioni, dipendenze varie, desideri coltivati per vent'anni e che poi si realizzano in una notte (quello che Patty coltiva per Richard, dai tempi dell'università, fino a quando, vent'anni dopo, finalmente lui se la scopa, o lei si scopa lui). Basta questo? Certo che no. Tutto questo materiale deve essere trattato con mano ferma e disciplina. Franzen, del resto, di tempo ne ha avuto, 9 anni. Ci vogliono mano ferma e disciplina per raccontare le cose da diversi punti di vista, ad esempio: la storia parte con la narrazione in terza persona e continua così ma da un certo punto in poi si riporta il diario scritto da Patty su suggerimento del suo analista. Lo sguardo rimane in qualche modo "esterno" - la narrazione è sempre in terza persona anche se l'autrice del diario non si nasconde - ma al tempo stesso diventa partecipe, diventa lo sguardo di una parte in causa. A volte dimentichi che è Patty a parlare e a volte no. E funziona.
Va bene, e poi? Poi c'è lo sguardo di Franzen sui suoi personaggi: non è consolatorio, non è moralista, non è romantico, nemmeno clinico o spietato. E' lo sguardo "alla giusta distanza" del narratore naturalista. Franzen ci sembra dire che le cose che accadono, che le scelte che le persone fanno nel corso della loro vita, hanno spesso ragioni e moventi diversi da quelli palesi. Magistrale il momento in cui Patty, dopo un disastroso viaggio in automobile fino a Chicago con Richard, dopo essere sbarcata in piena notte in una casa di simil-punk disastrati nel cuore di un quartiere malfamato, dopo essere stata rifiutata dal ragazzo dal quale si sente così attratta, il caustico, sensuale rockettaro, dopo avere saltellato con le sue stampelle fino ad una lercia locanda per mandare giù tre tacos, dopo una raggelante telefonata alla madre, decide di prendere un pulmann per andare a gettarsi fra le braccia di Walter, il buon Walter che vorrebbe fare l'attore ma studia legge e si ammazza di fatica con lavori vari per mantenere i suoi genitori, e che sta vegliando il padre ormai in punto di morte. E nonostante tutto questo, nessun afflato decadente. Perché nonostante il motel raffazzonato in cui consumano le loro prime notti d'amore, nonostante l'iniziale moto di gelosia di lui (nei confronti di Richard), nonostante il padre di Walter passi nel giro di pochi giorni a miglior vita, lì si apre per Patty uno dei periodi più belli della sua vita (anche se destinato a finire).
Ma il punto è anche un altro, e cioè che dei moventi nascosti o impliciti le persone non sono in genere perfettamente consapevoli: a volte li ignorano, oppure li tengono a bada, li aggirano, e a volte inventano scuse, costruiscono narrazioni alternative, e a volte ancora cambiano idea con il tempo, ci ritornano su, dimenticano.
Questo sul piano della psicologia dei personaggi, che è messa a fuoco straordinariamente bene, e con la quale, appunto, pagina dopo pagina, ci confrontiamo, noi oziosi lettori dell'Occidente opulento che non possiamo rispecchiarci nelle storie delle profughe somale o dei perseguitati politici rumeni (quelle storie - spesso appassionanti - le leggiamo per un altro motivo, per scoprire ciò che è altro da noi. Va detto peraltro che questa è una delle critiche mosse a Franzen anche negli Usa: scrive di cose scontate, chissenefrega delle crisi coniugali della famiglia media, le abbiamo già viste, ci interessa di più la mafia russa).
Poi c'è la metalettura, antropologica, sociale, "politica". Il tema è esplicitato dal titolo, è la libertà e in effetti i personaggi del romanzo si muovono con una libertà sconosciuta a, poniamo, una giovane donna cambogiana o un giovane uomo ugandese. E dunque: visto che sono libero, come devo vivere? I personaggi di Franzen non sono i disadattati di Carver, che riescono a malapena ad articolare qualche discorso di senso compiuto attorno alla pesca o all'arte della pasticceria: sono esponenti della middle-class, sono persone che leggono, che vanno a teatro, che hanno opinioni politiche (bellissima a proposito la descrizione della cena durante la quale l'ingenuo, idealista Walter cerca di descrivere alla famiglia di Patty, la madre una politicante in ascesa, il padre un semialcolizzato che semina sarcasmo distruttivo a destra e a manca, la sorella una snob ignorante e viziata - insomma, uno spietato ritratto dell'aristocrazia liberal - le idee del Club di Roma). Franzen ci mostra però come le esistenze delle persone spesso non corrispondano esattamente alle idee professate né ai loro riferimenti culturali: sia in senso oggettivo (nei suoi romanzi ritorna frequentemente il tema della corruzione, assieme a quello dell'ecologia), sia sul piano psicologico. Il Walter giovane, ad esempio, è un convinto sostenitore della necessità della decrescita demografica, velatamente ammira la "via cinese" (la politica del figlio unico), e si batte per la parità fra i sessi: ma accetta senza battere ciglio il programma di vita di Patty, metter su casa, fare figli e dedicarsi a pieno titolo al suo ruolo di madre.
E la libertà? La libertà e tutt'attorno, appunto. E' l'humus, è lo spazio sociale in cui si muovono i personaggi, una libertà alla fin fine condizionata, come in "Le correzioni", dalle esperienze che hanno avuto da bambini e da ragazzi, con i genitori, con i fratelli e le sorelle, prima ancora che, astrattamente, dalla classe sociale o dal reddito (pur essendo questi fattori molto ben delineati). La libertà infida e pericolosa di chi vive senza sapere tutto, la libertà che consente ogni sorta di affare spegiudicato, la libertà che porta al governo i neocon dopo l'11 settembre...
Ma non voglio addentrarmi troppo sulle questioni politiche perché lo hanno fatto in molti anche sui nostri giornali e sembrerebbe, leggendo quegli interventi, che si stia parlando di un romanzo appunto politico, mentre non è così, anche se certo, come in ogni grande scrittore le vicende minime narrate nel romanzo rimandano a qualcosa di più vasto.
Last but not least il linguaggio; anche qui, qualcuno ha rimproverato all'amico di Foster Wallace di non avere uno stile abbastanza sperimentale, inquieto, postmoderno. Ed è vero: Franzen scrive dei dialoghi efficacissimi, le sue descrizioni sono precise, "vere", il ritmo della scrittura è sempre serrato e tiene avvinto il lettore (Franzen potrebbe scrivere ottime sit-com), ma non è sperimentale. E' un limite? In questo genere di narrativa direi di no: è il linguaggio del "grande romanzo familiare (americano)", appunto. Certo, De Lillo in "Underworld" ha osato di più; e certi passaggi di memorabile lirismo propri di quel romanzo (compresa la sua chiusa, sulla parola "pace"), in "Libertà" non li abbiamo. Al tempo stesso, però, abbiamo qualcos'altro rispetto a quel senso di tragedia imminente: abbiamo il sorriso consapevole di chi osserva la commedia umana, senza condannare nessuno e però senza fare sconti alle debolezze di nessuno.
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Brave new world
Ma forse non serve nemmeno una dittatura, no? Siamo già schiavi. In tempi di pace e prosperità e democrazia.
This must be the place
Il film di Paolo Sorrentino a Cannes. La storia, stando a ciò che si legge sui giornali, è quella di una rockstar decotta (e fin qui niente di speciale) che si mette sulle tracce di un ex-ufficiale delle SS il quale avera torturato il padre ad Auschwitz, poi rifugiandosi negli USA dopo la guerra.
Sean Penn, palesemente ispirato a Robert Smith, mi sembra strepitoso. Del resto, lui è nell'Olimpo dei grandi.
Colonna sonora di David Byrne.
Dovremo attendere ottobre per vederlo nelle sale. Questo spezzone è comparso di fresco su youtube, speriamo ce lo lascino.
A prima vista, un film da vedere.
Questa invece la canzone "portante" (ma chi è Nino Bruno? Un musicista napoletano, leggo. Di certo suona come i migliori Cure).
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Bagatelle (per un massacro)
Pare che qualche buontempone abbia appiccicato questo cartello alla sede di Rifondazione Comunista di Bolzano. Ora, a parte Rifondazione - che non è l'unico paladino dei migranti - colpisce la stupidità del fascistello (veneto?), a cui sfugge che lo stesso argomento potrebbe essere utilizzato dagli Schuetzen contro gli italiani dell'Alto Adige (gruppo al quale molto verosimilmente appartiene o comunque - qualora venga da fuori - si sentirà legato, visto l'interesse che da un po' manifestano le teste rasate di mezza italia per i monumenti fascisti di Bolzano).
Colpisce anche l'ignoranza dello skin per le proprie radici: amico mio, se c'è un popolo di migranti quello è il popolo italiano, che tu presumibilmente vorresti redimere dalla sua coglionaggine. Leggiti il libro di Stella e imparerai qualcosa.
Colpisce il vittimismo: povero, povero italiano medio, che paga le tasse (che tortura!), subisce ogni genere di angheria da parte dell'invasore e poi muore, per di più! Il vittimismo dei popoli è un'arma micidiale, l'abbiamo visto nei Balcani; giustifica qualsiasi cosa, qualsiasi massacro.
Colpisce infine la storpiatura di uno slogan della tarda-estrema sinistra (produci-consuma-crepa, per stigmatizzare l'alienazione imperante nella società capitalista).
Vabbè, bagatelle.
(il massacro è quello dei migranti ingoiati dal Mediterraneo nel canale di Sicilia).
Candy says
Questa Lou ha sempre fatto fatica a cantarla.
"Candy dice: odio le grandi decisioni
che provocano ripensamenti infiniti
nella mia mente..."
Differenze fra uomini e donne 1.0
C'è stata una stagione della mia vita in cui sostenevo non ci fossero differenze oggettive, ancestrali, fra uomini e donne. Che le differenze semmai erano create dalla società e dalle sue produzioni culturali (ossia dalle sue sovrastrutture, secondo il noto schema marxiano). Forse frequentavo solo ragazze mascoline; forse era il mio modo di essere femminista; forse all'epoca ero ancora troppo cerebrale, sottovalutavo il corpo e le sue leggi (se i corpi sono diversi questa diversità dovrà pure riflettersi da qualche altra parte).
Comunque, col tempo mi sono ricreduto. Sì, certo, molte differenze (psicologiche, emozionali, comportamentali) sono dovute ai ruoli sociali, alle culture, alle religioni e ai valori che veicolano...
Però, qualcosa di irriducibilmente "altro" c'è. In noi. Per voi. E in voi per noi. Qualcosa di atavico, di primigenio, qualcosa che è inscritto nel filamento genetico, codificato nella doppia elica del Dna.
La prima che mi viene in mente, perché nello stesso giorno mi sono imbattuto per ben due volte in un cartello così: il vostro odio per quello che noi facciamo nel cesso. La nostra incapacità di non pisciare fuori dal water, o di non bagnare la tavoletta (che puntualmente non alziamo).
Ps: a dire il vero sull'autore di questo cartello ho ancora qualche dubbio. Al 99% è una donna (si è mai visto di un uomo che si lamenta di come orinano i suoi simili?), ma una donna, una vera donna, piuttosto che "caro amico" scrive "caro maschietto" (nell'altro cartello, che non ho fotografato, era così).
Music Box
Vabbé, ogni tanto un po' di autopromozione non fa male. Per chi se lo fosse perso quando è uscito (ormai 4 anni fa), il mio "Music box" è ancora ordinabile, ad esempio qui: http://www.fnac.it/Music-box-PONTONI-MARCO/a340968
Questo è l'incipit.
INTRO: FIRST OF THE GANG TO DIE
Stavano costruendo una casa proprio di fronte allo stadio, ormai erano arrivati al quarto piano e da lassù la vista sul prato era perfetta.
Quella sera si prevedeva un concerto fiacco; prima di uscire mi ero caricato ascoltando i Damned, non avrei tirato fuori una lira – se anche l'avessi avuta – per vedere un gruppo italiano che faceva il verso agli Asia o ai Van Halen ultima versione (quella più pop, che sacrificava la chitarra a beneficio delle tastiere). Ma il cantiere rappresentava una buona soluzione.
La primavera avanzava ruggente, nuvole di pollini nell’aria, mentre in cielo "lucevan le stelle", come in quei versi della Tosca di Puccini, mio padre un grande amate della lirica, sono cresciuto con i dischi de "La voce del padrone" arati da puntine di giradischi grosse come denti di forchetta, quelle strofe nelle orecchie, "e olezzava la terra, oh dolci baci, oh languide carezze…".
Intanto sul palco issato su un lato del campo sportivo stava succedendo qualcosa. Il gruppo spalla aveva iniziato a intrattenere il pubblico, composto per tre quarti di ragazze con t-shirt Fruit of the Loom e jeans Fiorucci. Arrivate all'ingresso dello stadio anche altre compagnie oltre alla nostra viravano verso nord; risalivano la massicciata ferrovia e si lasciavano cadere dall'altra parte, per poi infilarsi nel buco ricavato nella palizzata di recinzione. Dopodichè, bisognava solo stare attenti a dove si pestava: sparsi in giro c'erano sacchi di cemento, fil di ferro ritorto, attrezzi vari, una betoniera. Lo scheletro della casa era in piedi, scale comprese. Ovviamente, mancava ancora tutto il resto. In fila indiana, e con qualcuno davanti con una torcia che faceva luce, passando dalle scale interne si poteva arrivare abbastanza tranquillamente fino in cima, sulla terrazza.
"Che folla!", ha detto Roby sbucando all'aperto, cercando di darsi un'aria sciolta e contemporaneamente di farsi largo fra i capannelli seduti che parlottavano. "C'è più gente qui che là…"
Ci siamo sistemati in un angolo, abbiamo aperto il pacchetto di sigarette che avevamo comprato con una colletta. Per guardare verso lo stadio dovevamo stare girati di tre quarti, ma meglio che niente. Difficile distinguere, nel buio, chi c'era e chi non c'era. Dalle voci mi sembrava ci fosse anche la compagnia di Zebedeo, quella che frequentava la Giovanna, il mio sogno proibito (suo padre un carabiniere, siciliano, mica sarebbe stato contento di sapere che lei era lì).
Alle 10 il concerto entrò nel vivo. Una lunga intro di sintetizzatore, salutata con uno scroscio di applausi. A tratti il vento dal fiume spazzava via le note, poi ritornavano, assieme alla voce femminea del cantante.
Lo show è durato poco più di un'ora e mezza. Quando ci siamo rialzati, le gambe ci facevano male e mi si era informicolato un piede. Perciò siamo stati fra gli ultimi a scendere. Riguardo a quello che successe in quei momenti, mentre la band stava concludendo la serie dei bis, non posso dire di averlo visto con i miei occhi. Ripeto, era buio. Ricordo il titolo della canzone, Ultima notte di caccia.
Posso dire con sicurezza che la ragazza non cadde giù dal tetto, come scrisse un giornale. Sul tetto era facile orientarsi, grazie alle luci del concerto e delle case attorno. Cadde scendendo le scale. Forse mise un piede dove pensava di trovare un pianerottolo, e invece c'era il vuoto. Forse qualcuno la urtò senza volere. Forse il suo tipo le aveva lasciato la mano per accendersi una cicca.
Sentimmo delle urla. Ci precipitammo anche noi. Non si capiva dove fosse finita. All'epoca non c'erano ancora i cellulari per cui i ragazzi della sua compagnia dovettero mettersi alla ricerca di un telefono (cabine a gettone nel piazzale dello stadio) per chiamare l'ambulanza, minuti preziosi sprecati.
Venne portata fuori in barella. Saltammo la massicciata e ci dileguammo prima di essere fermati dalla polizia. I giornali montarono una storia infinita. Certi politici ce l'avevano con i concerti, non erano neanche in grado di distinguere un gruppo punk da uno di pop melodico o di blues. Sfruttarono l'occasione per atteggiarsi a moralizzatori...
Io pensavo: quanta gente muore in macchina, andando su e giù da queste montagne, da queste valli che trasudano schnaps? Eppure mica si pensa ad abolire le macchine (o la grappa).
E poi in definitiva la ragazza non era morta a causa del concerto.
Rimase una morte di ordinaria sfortuna, a dispetto delle fantasie popolari. Un incidente come quello che dev'essere capitato a Jeff Buckley mentre faceva il bagno nel Mississipi. Il complesso di mio fratello scrisse una canzone in memoria di Anna. Aveva vaghe sonorità indiane. Assomigliava a Paint it black degli Stones, eccetto che i ragazzi qui non avevano un sitar a disposizione.
Ogni volta che passo davanti a quel condominio – ne hanno costruiti altri, attorno, un fiorire di palazzine per ospitare famiglie di una o due persone, tre è già un record, e la ferrovia è stata spostata, è stata trasformata in una ciclabile, oggi tutti hanno il trip salutista della bici e del jogging - dicevo ogni volta che passo davanti a questa modestia architettonica ci penso, sul serio. Penso alla ragazza sconosciuta ingoiata dalla tromba delle scale. È stata la prima persona alla cui morte sono stato fisicamente vicino. First of the gang to die, canta Morrissey, è tutta la sera che l’ascolto, sul mio stereo, collegato ad un vecchio finale Technics, mentre fuori nevica e il modem non si collega, e in definitiva potrei anche essere in una capanna nei boschi e non in un appartamento di un quartiere di una città di confine di medie dimensioni, gerani ai balconi, portici che si scavano una strada sotto alle antiche case delle corporazioni. Ed è come se cantasse per lei. Solo che Morrissey si riferisce alle vittime degli scontri fra le gang di L.A., a migliaia di chilometri da qui, oltre la neve, le Alpi, le foreste tedesche, l'Atlantico, le grandi, bollenti pianure americane solcate da autostrade a diecimila corsie.
Marco Pontoni, Music Box, Curcu&Genovese, Trento, 2006
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Good save the queen
Amo l'Inghilterra. Un paese che riesce a fare convivere Shakespeare e Johnny Rotten. Ma non capisco tutta questa passione per le nozze dei due tizi, là, la sorella di Pippa e quello con la divisa irlandese ("gli inglesi sono gentiluomini che scattano polaroid, solo se non considero il colonialismo..." cantava Morgan, molto acutamente).
Anyway, la corona ha avuto più futuro del punk, e questo è un fatto.
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